Il confronto sulle evoluzioni del digitale e, in particolare sull’intelligenza artificiale, complice anche l’arrivo di ChatGPT, è uscito dalla nicchia dei convegni di settore per investire il dibattito pubblico.
Tutti ne parlano: dal neuroscienziato all’imprenditore visionario per antonomasia, dal nuovo Young Guru della Silicon Valley al Senatore dell’Arkansas.
Ma perché, tutto a un tratto, questa apprensione verso quella che per molti non è più una fantastica evoluzione, ma uno spettro da temere? Come mai, chi fino a poco tempo fa invocava la deregulation, ora chiede l’intervento pubblico?
Tutti i timori verso l’IA
Geoffrey Hinton, é uno dei padri della moderna intelligenza artificiale (puntualizzo subito, per gli onnipresenti e onniscienti “filosofi del MA”, che non specificherò specie, genere, famiglia, ordine classe, phylum, ecc. : IA e basta) il quale, diventato nonno, ha abbandonato Google per – testualmente – “poter parlare dei pericoli dell’IA”.
“…L’IA avanzata potrebbe rappresentare un cambiamento profondo nella storia della vita sulla terra” (Elon Musk, nella lettera-appello, sottoscritta da oltre mille accademici e scienziati, finalizzata a perorare una moratoria nello sviluppo dell’IA).
“Se potessi dire che non mi spaventa, non dovresti fidarti di me” (Sam Altman Ceo di OpenAI -chatGPT).
“I social media sono responsabili del peggioramento della crisi della salute mentale degli USA e hanno contribuito all’aumento di comportamenti suicidi tra ragazzine e adulti” (Relazione al Protecting Kids on social media Act- proposta bipartisan dei Senatori statunitensi finalizzata a fissare un’età minima per l’uso dei social).
Codesto florilegio di citazioni dimostra appunto come il dibattito sull’era digitale e le sue gemmazioni, tra cui l’IA, é finalmente – ancorché lentamente – uscito da (pregevolissimi) libri semi-iniziatici e da convegni settoriali per approdare, seppur ancor troppo episodicamente e timidamente nel dibattito pubblico, quello della strada, dell’uomo qualunque.
Nella più parte dei casi, sfortunatamente, le importanti riflessioni “thought provoking”, anziché creare mille dibattiti virtuosi che potessero diffondersi “a grappolo” hanno generato una sorta di gretta diffidenza-derisione, tipica dell’ haterismo social di ogni livello: uno lo ha fatto perché anziano e per approfittare dello “scivolo” pensionistico riservato ai milionari dopo aver disseminato per anni “les fleurs du mal”; l’altro per rilanciare Twitter o, peggio, perché era rimasto indietro nello sviluppo di algoritmi neuronali di alto consumo; il terzo perché “purché se ne parli” e l’ultimo poiché pressato dal Comitato Mamme anti Hikikomori di Little Rock.
Una chiave di lettura possibile
Pur volendo accettare le tesi più diffidenti e malfidenti che non credono in una romantica resipiscenza neo-umanistica dei “nostri”, a mio modesto avviso la chiave di lettura potrebbe essere un’altra: i grandi delle tecnologia hanno paura del Golem, sanno che sta già andando oltre le intenzioni e le previsioni dei suoi creatori i quali, tuttavia, non lo fermeranno ma , oggi, bramano una copertura politica, legislativa, un passaporto istituzionale nel timore di dover rispondere, prima o poi, dei danni di qualsivoglia tipo. Hanno lasciato la briglia sciolta ma se la mandria distrugge i raccolti chi paga? Diritti d’autore, class action, danni psicologici, dipendenze.
Ho l’impressione, insomma, che chi invocava la deregulation per lanciarsi verso le “sorti (forse) magnifiche ma (sicuramente)progressive di una tecnologia senza se e senza ma, senta il bisogno della finora sdegnata “mano pubblica”.
C’è poi qualche “figlio dei bit” un pò new age (vecchia pure quella) che ce la mette tutta per convincersi e convincerci che, come con internet, la “nuova rete” dell’era digitale, debba essere libera da vincoli, gabbie, costrizioni “Power to the chatbot”! Peccato che internet sia (stato?) democratico, scritto e nutrito da milioni di mani e di teste mentre oggi le mani e i portafogli dei Master della nuova era si contano sulle dita di una mano.
Ora viene il difficile
Sia come sia e al di là delle interpretazioni e delle convinzioni, un primo passo verso la consapevolezza di ciò che ci attende, quindi, é stato fatto, anche un pochino grazie al Provvedimento del Garante Italiano, prima Istituzione al mondo a “dialogare” non con un chatbot ma con i suoi creatori tentando di fissare (o far rispettare?) qualche regola affatto scontata.
Ma il difficile viene adesso: passare dal pensiero all’azione, dalla presa di coscienza alla reazione, dalla comprensione che il problema esiste (non solo a Houston) alla messa a terra di azioni concrete sotto forma di leggi che “ethics (& data protection) by design”, vadano a porre le basi per uno sviluppo tecnologico democratico, non discriminatorio, antropocentrico che, anche nell’era digitale, sia teso al Bene Comune. “Credo nelle idee che diventano azioni” diceva il poeta Ezra Pound e di questo abbiamo bisogno: che i decisori globali, ad iniziare da quelli europei, accelerino l’elaborazione legislativa per evitare che, ad esempio, l’AI ACT sia una riscrittura del celeberrimo “il curioso caso di Benjamin Button” ossia un Regolamento che nasce vecchio per poi, in questo caso, rendere inutile il proprio ringiovanimento.
Conclusioni
Il rischio é che i Grandi Pescatori Tecnologici, i Gatekeepers (per ricordare Rifkin) padroni delle nasse della novella rete dell’era digitale, dopo i timori iniziali che evocavo sopra, riprendano coraggio e si auto regolamentino, tutelati da una sorta di silenzio assenso universale come nei fatti, con qualche “stop and go”, sta già avvenendo da anni. Quando essi gestiranno definitivamente ed autocraticamente il quadro elettrico dell’era digitale, chi avrà ancora la forza, più che il coraggio, di spengere l’interruttore?