intelligenza artificiale

AI e coscienza: la differenza di avere un corpo



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Lo studio sulla coscienza nell’AI evidenzia che, nonostante i progressi, manca la “corporeità” essenziale per la vera coscienza. Filosofi e scienziati concordano: l’intelligenza artificiale, pur avanzata, non possiede sensazioni o istinti come gli esseri viventi. La differenza chiave dunque risiede nell’esperienza corporea, fondamentale per la percezione e la reazione al mondo esterno

Pubblicato il 12 feb 2024

Micael Zeller

recuperohd.it, cultura-digitale.com



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Una delle domande suscitate dai futuribili sviluppi dalla AI è se sia possibile la fabbricazione di una Intelligenza che non solo superi quella umana, ma sia dotata di qualcosa che potremmo definire “coscienza”. Tra i filosofi e gli scienziati che contribuiscono alla ricerca di una risposta, diversi pongono l’accento sulla “corporeità” che caratterizza la visione e  l’intelligenza animale.

IA e singolarità: due antichi timori

“Intelligenza Artificiale Generale”, “Singolarità”, sono espressioni prive di una precisa definizione, così come del resto “Intelligenza Artificiale” (o “AI”). Ricorrono però nelle conversazioni perché richiamano due antichissimi timori.

Essere sopraffatti dalla nostra creatura

Il primo timore è di essere sopraffatti dalla nostra creatura. Immaginiamo che un organismo artificiale assuma per nostro incarico il governo lungimirante di tutte le nostre risorse: trasporti, energia, comunicazioni, finanza, approvvigionamenti…. Armamenti.

A quel punto, fiduciosi di essere perfettamente governati, saremmo nelle mani di un’intelligenza superiore capace, sull’esempio di HAL 9000 di “Odissea nello spazio”, di decretare la nostra distruzione.

Fabbricare un essere cosciente

Il secondo timore, non meno ancestrale, è quello che aleggia attorno alla fantasia di fabbricare un essere cosciente. Su questo argomento la letteratura del passato è vasta, la letteratura scientifica un po’ meno.

 La differenza tra AI e coscienza umana

Nel 2023 un gruppo di 19 neuroscienziati, filosofi e informatici, ha cercato di rispondere alla domanda se la AI abbia, o possa avere, una coscienza.

Lo studio Consciousness in Artificial Intelligence: Insights from the Science of Consciousness concluderebbe con una risposta negativa, ma più che fornire una vera risposta al quesito, sembra inteso a illustrare metodi e impostazioni di indagine possibili. Una di essi, incentrata su “Agency and Embodiment”, prende in considerazione l’analisi e la classificazione di immagini (per esempio edifici; foreste; ghiacciai; montagne; mare; strada…) tramite il modello di rete neurale convoluzionale AlexNet.  L’esame di immagini è da anni una delle applicazioni popolari della AI, ed è visibile nella catalogazione delle Google Photos.

Quando si parla di riconoscere un animale  come un gatto, un cane, un pollo ecc. ci si stupisce del fatto che alle AI occorrano enormi quantità di immagini taggate per apprendere a riconoscerle, mentre a un bambino è sufficiente la vista di un solo esemplare, di un solo cane per riconoscere tutti gli altri cani – anche di taglie diverse e di diverso aspetto – che incontrerà in futuro. Questo fa pensare che un riconoscimento puramente morfologico sia ben diverso dalla consapevolezza che può avere un essere dotato di un corpo, un essere che guarda l’ambiente circostante da una “prospettiva”. Secondo lo studio citato: “gli esseri che consideriamo di solito coscienti sono molto diversi da AlexNet: sono agenti che perseguono obiettivi e attuano scelte; sono viventi e hanno un corpo, e interagiscono continuamente con l’ambiente.

Insomma, un animale si muove, sente; e quindi guarda, spinto dagli istinti e dagli stimoli che riceve.

Interessanti su questo punto le considerazioni di Andrea Missinato secondo il quale le differenze tra i difetti di riconoscimento umani e delle macchine suggeriscono che i due processi siano poco assimilabili. Il riconoscimento umano non è probabilmente meglio o peggio di quello artificiale, o quantomeno si tratta di un problema mal posto, visto che continuiamo a evitare di tenere in conto la conoscenza e il training che è necessario agli umani per esercitare qualsiasi genere di riconoscimento.

Due opinioni su macchine e corporeità

Così recentemente Maurizio Ferraris, parlando di AI e coscienza in una conversazione su La7: “Mentre sono persuaso che un animale superiore o il mio gatto abbia qualcosa come la coscienza; nel senso che ha un corpo, e questo corpo gli trasmette delle sensazioni, e queste sensazioni lo portano a reagire, a desiderare, a temere. Tutto questo dipende essenzialmente dal fatto di avere un corpo. Cioè, quello che noi consideriamo come comportamento cosciente il più delle volte è semplicemente il fatto che la nostra intelligenza è inserita all’interno di un organismo naturale”.

E così Giorgio Vallortigara:

Giorgio VALLORTIGARA - AI: un’intelligenza che (ancora) non è capace di comprendere

Per capire come costruire macchine davvero intelligenti, che colgano il significato, io credo che dobbiamo andare a cercare le origini della comprensione del significato nella vita biologica, e queste origini hanno a che fare essenzialmente con il corpo, con riferimento al corpo.

Tutte queste considerazioni non ci impediscono di pensare che a una macchina potremo infondere delle finalità. Per esempio: ottimizza l’attività di una centrale energetica per ottenere la massima resa con il minimo spreco. Oppure: prescrivi la cura più adatta a questo paziente. O anche: promulga tutte le leggi opportune per migliorare il benessere del popolo. Né escludono che potremo infondere loro tutte le più prudenti leggi della robotica.

Ma suggeriscono che un’intelligenza originata da istinti come quello di sopravvivenza, di curiosità, di socialità, di riproduzione, da una macchina possa essere solo imitata.

Il Versificatore di Primo Levi

Guardando ai miti del passato viene in mente il Golem, che per prendere vita richiede l’iscrizione, sulla fronte del suo corpo inanimato, di una parola. E proprio la parola è l’alimento di ChatGPT, ma non potrebbe sostituire il “soffio divino” che dà vita all’uomo in Genesi, 2, 7.

Per evocare fantasie più recenti, un divertimento istruttivo può essere tratto da Il Versificatore, racconto pubblicato da Primo Levi per la prima volta su Il Mondo nel 1960.

Il Versificatore è una macchina dedicata a comporre poesie, sulla base dei parametri inseriti dall’utente tramite appositi tasti.

Un poeta professionista decide di mettere alla prova l’apparecchio, e un esito interessante avviene quando la segretaria suggerisce di sollecitare una composizione a “tema libero”.

Dopo avere emesso diversi segnali acustici il Versificatore declama la sua poesia sintetica libera. Essa ipotizza che una donna faccia l’amore con lui, e descrive gli inconvenienti in cui l’amante incorrerebbe, concludendo coi versi:

Tende una mano ed incontra una vite;

Tende le labbra ed incontra una brossa;

Mi stringe al seno, e si prende la scossa.

Ma che cos’è questa brossa? La curiosità verrà soddisfatta dalla spiegazione dal venditore: “I nostri tecnici hanno pensato che la soluzione più semplice è quella di condizionare le macchine a conoscere il nome di tutte le proprie parti: così, in caso di avaria, sono in grado di richiedere direttamente la sostituzione del pezzo difettoso. Infatti, il Versificatore contiene due spazzole metalliche, due brosse, insomma, calettate sugli alberini porta-nastro”.

Dunque la macchina immaginata da Primo Levi, appena lasciata libera di parlare di ciò che vuole, mette in questione la propria corporeità.

Il geniale racconto di umorismo fantascientifico (inserito nella raccolta Storie naturali) riserva poi al lettore un paio di sorprese che oggi possiamo definire profetiche. Ma un sentimento autoconsapevole di corporeità no, non è stato realizzato in alcuna macchina, e forse non lo sarà mai.

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