Il punto di bertelè

Big Tech, sarà dura battaglia: ecco i principali trend 2024



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Quali direzioni stanno intraprendendo le imprese tech, alla luce del contesto globale economico e geopolitico? Possibile delineare quale sarà il domani dell’AI generativa? Il dibattito è acceso

Pubblicato il 5 gen 2024

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano



big tech schermi digitale

Che hanno in comune la guerra in Ucraina, l’attacco di Hamas a Israele e I successivi fatti di Gaza, la messa sotto accusa di Trump e il bando alla sua partecipazione alle primarie in Colorado, la condanna di Sam Bankman-Fried per una delle più grandi frodi finanziarie (con il suo crypto exchange FTX) della storia statunitense e l’incoronazione di re Carlo III e la cacciata, con ritorno, di Sam Altman da Ceo di Open AI? Sono i fatti più rivelanti del 2023 secondo ilThe Wall Street Journal. Non solo, l’Intelligenza Artificiale (AI-Artificial Intelligence) è al primo posto nel titolo, davanti alla guerra in Ucraina.

Fig. 1 – L’Intelligenza Artificiale (AI-Artificial Intelligence) ai primi posti, fra i fatti di maggior rilievo del 2023, nei quadri di fine anno di The Wall Street Journal e del Financial Times
Fig. 1 – L’Intelligenza Artificiale (AI-Artificial Intelligence) ai primi posti, fra i fatti di maggior rilievo del 2023, nei quadri di fine anno di The Wall Street Journal e del Financial Times

Il Financial Times ha fatto una scelta non dissimile: Sam Altman ha il massimo rilievo nella copertina della sua review del 2023, insieme con il chairman della Federal Reserve Jerome Powell; la sua cacciata e rientro vengono presentati come il fatto saliente del mese di novembre (fra l’attacco di Hamas di ottobre e il COP28 di Dubai di dicembre) e lo sciopero di Hollywood contro un uso improprio dell’IA come il fatto saliente di maggio.

E The Economist a sua volta pone l’IA fra i “ten trends to watch in 2024” – l’unico riguardante il mondo tech – con le sue potenzialità in fase di esplorazione, le incognite sul suo impatto sul mondo del lavoro (al momento il faster coding quello più rilevante), il dibattito fra le grandi aree del mondo sulla sua regolamentazione.

Perché queste mie citazioni? Perché penso che mettano bene in luce l’enorme visibilità che l’IA – nata insieme con i primi calcolatori a metà del secolo scorso, cresciuta per oltre 70 anni nei laboratori di ricerca di big tech e startup e già silenziosamente presente in un numero significativo di beni e servizi – ha acquisito presso il largo pubblico a livello mondiale, dopo che per la prima volta è stata messa a disposizione del pubblico stesso (nella versione generativa che l’ha resa anche più facilmente fruibile), con un lancio da parte di OpenAI (ma con alle spalle Microsoft) che ha avuto a mio avviso pochi precedenti nella storia.

Mercato tech, i temi caldi del 2024

In un articolo sulle prospettive del mondo tech, quale questo, il primo tema da discutere è quale concretamente potrà essere il futuro dell’IA generativa, e in particolare se nel 2024 cominceremo o no a vedere applicazioni e business model in linea con le attese quasi messianiche che hanno caratterizzato il 2023.

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Il secondo tema da discutere, fortemente connesso al primo, riguarda il futuro di uno stretto manipolo di imprese – genericamente indicate come big tech – che ha rafforzato nel 2023 la sua posizione ai vertici mondiali per capitalizzazione. Le cosiddette big five (Fig. 2) – Alphabet-Google, Amazon, Apple, Meta-Facebook e Microsoft – che avevano perso il 40 per cento circa della loro capitalizzazione combinata nel 2022, pari a 3,7 trilioni di dollari (indicativamente poco meno del doppio del PIL italiano), hanno più che recuperato la loro caduta nel corso del 2023.

E ad esse si è aggiunta, nello stretto club delle imprese che sono riuscite a superare la soglia del trilione di dollari, Nvidia: la indiscussa numero uno nei microprocessori utilizzati per l’IA generativa, che ha visto la sua capitalizzazione crescere di 800 miliardi. Con l’aggiunta di Tesla, che anche se per breve tempo aveva superato il trilione di dollari, si arriva al gruppo delle 7 imprese – che occupano i primi 8 posti nella graduatoria mondiale – ora denominate Magnificent Seven o in termini abbreviati mag-seven: imprese (Fig. 4a) che hanno avuto nel 2003 una crescita della capitalizzazione complessiva di gran lunga superiore a quella delle altre facenti capo allo S&P 500 (il celebre indice dell’andamento borsistico delle principali imprese statunitensi), per cui è stato scherzosamente coniato il termine S&P 493.

Un fenomeno quest’ultimo – definito the great divorce da The Economist – dovuto in larga misura alle aspettative, alla crescita abnorme (Fig. 4b) del rapporto price-earnings fra valore di mercato e utili. Un fenomeno attribuibile in misura non piccola, anche se non esclusiva, alla speranza dei mercati finanziari che il rallentamento nei tassi di crescita delle big tech (che le aveva penalizzate nel 2022) possa essere in prospettiva completamente cancellato – o ancor meglio cambiato di segno – dalla rivoluzione nell’organizzazione dell’economia e del nostro stesso modo di vivere che l’IA generativa (se rispetterà le attese) potrebbe/dovrebbe comportare; e che le big tech, che stanno investendo massicciamente sull’AI e che hanno tutte le risorse nel continuare a farlo, possano esserne i maggiori fruitori.

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Fig.4 a,b

Un calo di fiducia sul futuro dell’AI generativa, o almeno sui tempi in cui essa riuscirà a confermare appieno le potenzialità ad essa attribuite, potrebbe quindi riflettersi negativamente sulle valutazioni delle mag-seven e delle imprese tech in generale. Qualche crepa nella fiducia si sta manifestando, come ha fatto notare Richard Waters nel suo big read di fine anno su FT “The AI revolution’s first year: has anything changed? – The launch of ChatGPT was heralded as the dawn of a new age. But companies are wondering how useful generative AI really is“.

E qualche dubbio sul fatto che il valore delle big tech – e delle tech in generale – possa continuare a crescere, senza risultati reali che giustifichino tale crescita, si è manifestato anche sul mercato (Fig. 3) nei primi due giorni di apertura del nuovo anno, con un calo del Nasdaq composite (l’indice più sensibile all’andamento delle tech) nettamente superiore a quello dello S&P 500 (relativo come detto all’intera economia) e ancor più a quello del Dow industrials.

Il ruolo delle tech nello scenario globale

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Le imprese tech hanno una presenza imponente tra le top 100 per capitalizzazione a livello globale (Tab. 1), a testimonianza della rilevanza che la trasformazione/transizione digitale continua ad avere, e non solo in relazione all’IA. Sono tech come detto 7 delle prime 8; sono tech più della metà delle 26 che hanno un valore superiore ai 300 miliardi di dollari; sono tech il 30 per cento circa delle restanti 74, che hanno valori compresi fra i 130 e i 300 miliardi. In tutto ben 36 su 100, di cui: 27 statunitensi, 4 cinesi, altre 3 asiatiche (facenti capo a Taiwan, Corea del Sud e India), solo 2 europee (1 olandese e 1 tedesca).

Tech o non tech?

Importante sottolineare come la scelta di quali imprese considerare come tech presenti alcuni gradi di discrezionalità, a seconda che si privilegi il rilievo (operativo e strategico) delle tecnologie digitali nel loro ambito o il loro output. Se si guarda ad esempio alla composizione dello S&P 500, non sono incluse nel settore Information Tecnology

  • né Amazon (nonostante possieda il più grande cloud del mondo), collocata – sulla base della sua attività nell’ecommercenel settore Consumer Discretionary (ove è inquadrata pure Tesla),
  • né Alphabet-Google e Meta che – insieme con Netflix, Comcast e Verizon – fanno capo al settore Communication Services.

Di converso Visa e Mastercard, a dispetto della loro apparenza finanziaria ma in virtù del loro ruolo nei pagamenti digitali, hanno occupato sino a poco tempo fa le due posizioni alle spalle di Apple e Microsoft nel settore Information Technology.

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A fronte del loro posizionamento a livello di capitalizzazione, le tech – e in particolare le mag-seven – hanno posizioni complessivamente più arretrate quando si passa alle classifiche per utile, ricavi e numero di addetti (Tab. 2).

Nella classifica per utile, largamente dominata da Saudi Aramco (terza invece per capitalizzazione), esse occupano 3 delle prime 5 posizioni (con Apple, Microsoft e Alphabet-Google) e 6 delle prime 25, con Tesla – ottava per capitalizzazione – collocata oltre il centesimo posto.

Nella classifica per ricavi solo Amazon (alle spalle della leader Walmart) e Apple (settima) si collocano fra le top 10, ma a esse si aggiungono nelle prime 30 posizioni Alphabet-Google, Microsoft, la taiwanese Foxconn e la sudcoreana Samsung. Mentre Nvidia, sesta per capitalizzazione, è solo al posto 241.

Nella classifica per numero di addetti diretti le mag-seven – con la sola eccezione di Amazon (anche in questo caso alle spalle della leader Walmart) – sono collocate oltre la duecentesima posizione: alcune per la tipologia del loro output, altre a partire da Apple (che si avvale di Foxconn per il manufacturing dei suoi prodotti e di TSMC per quello dei suoi chip) per l’ampio ricorso all’outsourcing. Foxconn occupa di converso il terzo posto con più di 800 mila addetti diretti, oltre ad avvalersi di un ecosistema di imprese minori fornitrici. E grosse realtà, la statunitense Accenture con oltre 700 mila dipendenti e l’indiana Tata Consultancy Services con più di 600 mila, sono cresciute nella consulenza e servizi IT.

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Storia della scalata delle tech

Nella classifica per capitalizzazione le mag-seven, come visto, si collocano a fine 2023 nei primi 8 posti, con l’eccezione del terzo occupato da Saudi Aramco (oil & gas); Berkshire H., la società di Warren Buffett operante nella finanza e nelle assicurazioni, è al nono posto e la ultracentenaria farmaceutica Eli Lilly al decimo.

Uno sguardo al 1980 ci mostra come già allora le tech avessero iniziato ad affermarsi – con IBM (tuttora presente ma in coda alle top 100) e AT&T (leader telecom negli US) nei primi due posti – ma come fosse fortissima la presenza oil & gas, con 6 imprese fra le top 10. Se ci spostiamo al 2000, in piena bolla Internet, la presenza delle tech è già molto più ampia: 5 fra le top 10, con Microsoft (in testa), Cisco, Intel, la telecom giapponese NTT Docomo e la finlandese Nokia (all’epoca leader mondiale nei cellulari) al posto di Ibm e AT&T.

Solo Microsoft è tuttora nelle posizioni di testa, Cisco e Intel sono rimaste fra le top 100, NTT Docomo ha sofferto il calo di rilevanza delle imprese telecom e Nokia ha addirittura dovuto cambiare mestiere con il successo dell’iPhone e dei suoi concorrenti asiatici. Per quanto riguarda il livello di concentrazione, la Fig. 6 ci mostra come il peso delle prime 7 imprese – ora le mag-seven – nell’ambito dello S&P 500 (proxy del mercato borsistico statunitense) non sia mai stato così alto nel periodo intercorso fra il 1980 e oggi.

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Il vivace settore dei microprocessori

Le cryptovalute prima e l’IA generativa poi hanno portato alla ribalta nell’ultimo quinquennio le imprese operanti nella filiera dei microprocessori. A Nvidia, l’unica ad aver superato il trilione di dollari di capitalizzazione, è riconosciuta al momento una superiorità qualitativa netta rispetto ai concorrenti nella concezione dei microprocessori per l’IA generativa: superiorità che si traduce, in una fase di prevalenza della domanda rispetto alla capacità produttiva, nella possibilità di praticare prezzi anche molto elevati: il prodotto di punta in questo ambito – l’H100 con 80 miliardi di transistor al suo interno – ha un prezzo di mercato (come recentemente segnalato da Bloomberg Technology) di 57mila dollari e ne occorrono migliaia nei data center.

AMD e Intel appaiono come i principali concorrenti in questo ambito, ma anche le big five tendono sempre più a mettere a punto chip propri – personalizzati rispetto agli specifici bisogni dei loro prodotti e/o servizi – a fianco di quelli che continuano ad acquistare: è il caso di Apple per gli iPhone, che sta progressivamente riducendo gli acquisti da Intel; è il caso di AWS – il cloud di Amazon – che affianca agli acquisti da Nvidia la produzione di propri chip, inferiori come prestazioni ma anche come costi, che permettono l’erogazione di servizi competitivi per le applicazioni di IA meno impegnative.

Se Nvidia al momento ha una posizione dominante nei chip più avanzati per l’IA, la taiwanese TSMC ha una posizione dominante difficilmente scalfibile nel loro manufacturing, davanti alla sudcoreana Samsung, e l’olandese ASML è quasi monopolista nelle apparecchiature fotolitografiche indispensabili per il manufacturing dei chip più avanzati. Un problema comune ai tre è quello geopolitico: la Cina rappresenta un mercato percentualmente di grandissima rilevanza, che almeno in parte viene loro chiuso dalle misure poste in atto da Biden per ostacolare la crescita, per il possibile/probabile uso in campo militare, dell’IA cinese. Un problema (addizionale) specifico per Nvidia è di conservare quella dominanza qualitativa che sola può giustificare il valore – da diversi analisti ritenuto eccessivo – a essa attribuito dal mercato borsistico.

Le big tech cinesi sempre meno big sotto i colpi di maglio della politica

Fino a novembre 2020, le tech che dominavano le borse mondiali erano sempre sette, ma non le stesse. Il posto che è ora di Nvidia e Tesla era allora delle due cinesi Tencent e Alibaba. Poi iniziò il tech backlash o big tech crackdown, ovvero il lancio da parte di Xi Jinping di una serie di normative (in campo finanziario, nei giochi, nell’istruzione online, ecc.) e/o di accuse specifiche (quali quelle dell’authority antitrust ad Alibaba) volte a ridurre le libertà di azione e il potere – ritenuto eccessivo da Xi – delle big tech del Paese.

Alibaba, la prima a essere colpita, aveva toccato a fine ottobre 2020 il picco di 840 miliardi di dollari e ora ne vale meno di 200. Tencent, presa di mira un po’ più tardi, valeva oltre 900 miliardi a metà febbraio 2021 e ora ne vale circa 350. Di questa situazione ha probabilmente almeno in parte ad esempio approfittato Pinduoduo, che – con un business model innovativo basato sul social shopping – ha di recente superato il numero di clienti di Alibaba, avvicinandosi alla soglia degli 800 milioni.

L’eredità dell’entusiasmo di un tempo per crypto e metaverso

Con la sua recente risalita il bitcoin – che ha dato inizio allo sviluppo del mondo crypto (Web3, DeFi, ecc.) e delle applicazioni della blockchain e ha fatto nascere nel momento di massimo successo gli NFT – rappresenta l’eredità di maggior valore dell’era del bitcoin, con una capitalizzazione complessiva il 3 gennaio 2024 di 890 miliardi di dollari: una capitalizzazione che, se fosse un’impresa, lo collocherebbe all’ottavo posto della scena mondiale, a poca distanza da Meta. Mentre nessuna impresa di grandi dimensioni, nonostante il numero elevato di startup, è nata in questo ambito.

Lo stesso si può dire per il metaverso, quale nella visione originaria di Meta e di Mark Zuckerberg, che ha goduto di una popolarità molto elevata ma per un tempo molto breve. Tuttora in fase di sviluppo – ma con volumi di vendita al momento limitati – le applicazioni di realtà aumentata e realtà virtuale: con Meta protagonista e con Apple che dovrebbe mettere sul mercato quest’anno il suo Apple Vision Pro annunciato qualche mese fa.

Quale sarà il futuro delle big tech

È una domanda che come detto ci si pone da anni, con il maturare delle tecnologie e dei business model su cui le big tech – nella composizione a 5 (big five) o a 6 con l’aggiunta di Nvidia o a 7 (mag-seven) – hanno fondato il loro successo e mantenuto su livelli estremamente elevati le loro capitalizzazioni, seppur con fluttuazioni di grande rilevanza. Ed è importante ribadire che esse, se vogliono mantenere tali livelli, sono condannate a crescere continuamente e a mostrare sempre nuove potenzialità di crescita: perché, come in precedenza messo in evidenza, una parte non piccola del loro valore è legata alle aspettative e ai moltiplicatori P/E – molto più alti che nelle imprese dello S&P 493 – di cui godono.

Accanto agli aspetti più prettamente finanziari, ce ne sono altri che riguardano le loro strategie reali e i pericoli che possono correre a fronte di variazioni nel contesto regolatorio e in quello geopolitico, mentre non si intravedono – almeno a breve-medio – pericoli epocali legati all’entrata in campo di nuove tecnologie (se non dell’IA generativa che al momento più o meno tutte stanno cercando di cavalcare).

La competizione

Una prima strategia che può essere citata, che quasi tutte le big tech in qualche misura praticano, è di cercare di crescere rubando spazi alle altre. Lo sta facendo Microsoft finanziando le ricerche di OpenAI, con il duplice obiettivo di posizionare meglio il suo cloud ai danni di AWS e di Google Cloud e di far crescere il suo motore di ricerca Bing (sinora con una quota di mercato marginale) ai danni del leader assoluto di mercato Google. È quanto da qualche anno a questa parte fa Amazon, nel digital advertising, accrescendo la sua quota in un mercato dominato da Google e Meta.

E l’entrata di peso di Apple nei servizi, accompagnata da un cambiamento della sua politica di privacy che ha fortemente danneggiato Meta, può essere inclusa – anche se con target meno evidenti – in questa categoria. Sono operazioni spesso a somma zero, o che al più penalizzano i competitori minori, ma che (se di successo) potrebbero alterare gli equilibri di potere all’interno delle big e al limite declassarne qualcuna (è il pericolo che ha corso Meta a causa delle politiche sulla privacy adottate da Apple e della susseguente scelta di puntare sul metaverso che le era costato mezzo trilione di dollari di capitalizzazione).

La promozione dell’open innovation

Una seconda strategia – dal momento che si è chiusa o quasi (Fig. 7a) la possibilità di crescere attraverso acquisizioni che tanto rilievo aveva avuto nel passato (famose ad esempio quelle di Instagram e WhatsApp da parte di Facebook) ma che ora si scontra con ostacoli insormontabili o comunque estremamente ardui da superare (come la lunga e complessa acquisizione di Activision da parte di Microsoft dimostra) – è quella di promuovere l’open innovation, finanziando alla stregua di fondi di venture capital (ma con precisi interessi sui risultati come nel caso degli oltre 10 miliardi investiti da Microsoft in OpenAI) le startup più promettenti. La Fig. 7b mostra come nei primi 9 mesi del 2023 esse abbiano immesso nelle startup 173,7 miliardi di dollari a fronte dei 105,3 dei fondi di venture capital statunitensi.

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Fig. 7 a,b

Il blocco degli M&A non è l’unico problema delle big tech sul fronte politico-regolamentare. Insieme con le multinazionali degli altri comparti dell’economia esse stanno per essere sottoposte a una disciplina fiscale concordata a livello OCSE da 139 Paesi, che mira ad evitare la logica dei ribassi competitivi per attrarre gli investimenti: disciplina che prevede una più corretta riallocazione degli utili imponibili, in modo che non finiscano in qualche isoletta sperduta dell’Atlantico o del Pacifico, e una aliquota fiscale minima in tutti i Paesi non inferiore al 15%; disciplina che però tarda a essere posta in essere – per ovvi motivi – da molti dei firmatari.

Sempre sul fronte politico-regolamentare è importante ricordare come siano già entrate in funzione, o da poco approvate, le nuove regole UE sul comparto tech e in particolare sulle imprese di dimensione maggiore: il Digital Services Act, il Digital Markets Act e l’AI Act. Importante perché, come spesso accaduto nel passato, le regole UE tendono a fare scuola per altri Paesi. Importante perché – per una serie di soggetti individuati sulla base dei poteri di mercato di cui dispongono – vi è un rovesciamento della logica tradizionale, che punta a sostituire alle cause ex-post per violazione delle regole un regime per determinate operazioni di autorizzazioni ex-ante.

Le cause tradizionali in corso sono comunque molto importanti. In particolare negli Stati Uniti, che non hanno al momento adottato la logica europea, gli attacchi più importanti da parte della Federal Trade Commission vedono Alphabet-Google e Meta sul banco degli accusati, in un anno (l’ultimo della attuale presidenza Biden) in cui Lina Khan – a capo della FTA stessa – vorrebbe portare a casa qualche vittoria memorabile. E gli esiti di questi processi, ancorchè soggetti a ricorsi, potrebbero avere conseguenze non piccole, estendibili ad altri comparti e altre imprese.

I fronti critici di natura geopolitica

Vi è infine una serie di altri problemi, di natura squisitamente geopolitica, particolarmente critici per imprese – come le big tech – che hanno ampiamente fruito dei processi di globalizzazione e di creazione (ancorchè incompleta) di un mercato unico globale regolamentato. La frammentazione dell’economia e dei mercati in atto (che ricorda la situazione pre-globalizzazione), la perdita di peso degli accordi multilaterali rispetto a quelli bilaterali nella regolamentazione degli scambi di beni e servizi, nonché la possibile frammentazione (in parte già in atto) della stessa Internet, possono rendere la vita molto difficile a imprese che hanno nella multinazionalità e nell’uso della rete per l’erogazione di una parte significativa del loro output uno dei più importanti differenziali competitivi.

È in questa logica di contrapposizione geopolitica che Biden ha ristretto l’esportazione in Cina dei chip per l’IA più avanzati; è in questa logica che l’uso degli iPhone viene proibito negli uffici della pubblica amministrazione cinese, come d’altra parte gli apparati telecom di Huawei sono stati messi al bando in molti Paesi occidentali; è in questa logica che Apple, che faceva produrre sul territorio cinese (dalla taiwanese Foxconn) la maggior parte dei suoi prodotti, sta cercando – per la preoccupazione di incorrere in rotture totali delle supply chain – di spostare in India almeno parte della produzione.

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