Da qualche giorno i quotidiani internazionali si stanno concentrando su una nuova sorprendente, e per alcuni versi inquietante, capacità che sembra aver acquisito Alexa durante i suoi ultimi aggiornamenti: l’imitazione precisa delle voci umane.
Come è stato mostrato durante l’evento Amazon Re:Mars conference a Las Vegas, pare che il training richieda non più di un minuto di ascolto di un file audio della voce della persona che si intende imitare o, addirittura, replicare.
Rohit Prasad, il vice presidente senior del team che si occupa dell’assistente vocale di Amazon, per presentare la nuova funzione ha riprodotto un video in cui Alexa legge a un bambino una favola con la voce, perfettamente riprodotta, della nonna morta poco tempo prima. Questa particolare imitazione – non solo di una persona umana, ma addirittura di una persona umana deceduta – ha ovviamente creato un generale scompiglio, sollevando riflessioni di natura etica.
La nostra voce vivrà dopo di noi, grazie all’AI: siamo sicuri sia una cosa buona?
Alexa dei morti e digital death, come cambia il nostro rapporto col lutto
Da studioso che si occupa da diversi anni dei temi principali che riguardano la cosiddetta Digital Death e che si confronta con i vari ambiti impegnati nell’elaborazione del lutto e nella gestione delle eredità dei morti, non mi sorprende in alcun modo questa novità.
Anzi, nelle ultime conferenze e lezioni che ho tenuto sul tema della morte digitale, nel corso di questi anni, mi è capitato spesso, descrivendo una serie di invenzioni tecnologiche volte alla riproduzione più o meno automatica delle persone decedute, di dire enfaticamente che il futuro prossimo della memoria umana consiste proprio nell’uso diffuso di una specie di Alexa dei morti.
Ispirati dalla ormai classica puntata “Be right back” di Black Mirror, nonché dall’applicazione Luka di Eugenia Kuyda e dal griefbot paterno di James Vlahos, numerose attività scientifiche mondiali stanno cercando di fare da tempo proprio ciò a cui mira oggi Alexa: duplicare o replicare post mortem i singoli individui, automatizzando con l’uso dell’intelligenza artificiale la quantità di dati con cui essi hanno prolungato e tratteggiato digitalmente sé stessi nel corso della propria vita. In tal modo, queste attività scientifiche intendono fornire a chi resta il numero più elevato possibile di elementi biografici o narrativi della persona deceduta. Ho parlato spesso, pure su Agendadigitale, delle varie attività scientifiche in corso, ciascuna con le sue caratteristiche specifiche: da Eter9/Dduplicata al momentaneamente sospeso Eterni.me, da Hereafter AI a Mind Bank AI, da Personal AI al nostrano Memory, senza contare tutti gli esperimenti in realtà virtuale (in primis, il documentario sudcoreano I met you). Un anno fa circa, la stessa Microsoft aveva dichiarato che stava pensando di utilizzare l’intelligenza artificiale per creare un chatbot in grado di imitare la voce del defunto. Ed esistono anche esperimenti nel campo delle onoranze funebri che si muovono in questa direzione: in Svezia, per esempio, un’azienda ha previsto la possibilità di utilizzare, nel giro di qualche anno, un software di riconoscimento vocale e uno di realtà virtuale per mezzo di cui produrre un vero e proprio ologramma o avatar del morto da offrire ai propri clienti in lutto.
La morte dopo una vita iperconnessa
L’attuale vita iperconnessa, onlife o OmO (online merge offline) che dir si voglia, ci spinge a investire una significativa quantità di tempo nella costruzione delle nostre identità online, ciascuna rivestita di un numero incalcolabile di parole scritte, immagini fotografiche e registrazioni audiovisive. Diversi studi di natura statistica prevedono, nel 2100, miliardi di profili di utenti deceduti all’interno dei social media attuali, sempre che rimangano attivi o non vengano sostituiti da qualche novità tecnologica. Pertanto, è consequenziale il tentativo di aggiungere un tassello importante a quel percorso tipicamente antropologico intento ad ampliare con la tecnologia le possibilità di registrare la nostra presenza nel mondo, permettendoci di rimanere presenti – almeno, simbolicamente – anche dopo il decesso. Dalla scrittura alla fotografia, dal fonografo alla radio e alla televisione, fino ad arrivare oggi alle tecnologie digitali. Registrazione e, dunque, possibilità della rappresentazione eterna. Assenza definitiva dell’amato e, dunque, bisogno consequenziale di una nuova forma di presenza per limitare il dolore della privazione. Pensiamo alla celeberrima obiezione socratica all’uso della scrittura, la cui unica utilità sarebbe quella di rinfrescare la memoria di chi già ne conosce il contenuto. Cercando di aggirare l’assenza, la scrittura manifesterebbe, però, una cosa sola e sempre la stessa, conservando un “maestoso silenzio”. Ora, proprio l’osservazione socratica contenuta nel Fedro ci pone dinanzi, soprattutto, a una questione che necessiterebbe di un approfondimento attento: l’Alexa che dà voce ai morti, lo fa seguendo la via della cosiddetta immortalità a senso unico o quella a doppio senso?
La morte nell’era dei “dati eterni”: che ne sarà del nostro corpo digitale
La prima ci permette di comunicare con il futuro tramite ciò che abbiamo prodotto in vita, generando quel fantasma residuo di cui parla per esempio Simon Reynolds, che è di per sé ignaro dei mutamenti nell’ambiente circostante, recitando costantemente la stessa scena registrata e dunque riprodotta. La seconda, invece, ci permette non solo di comunicare con il futuro tramite ciò che abbiamo prodotto in vita, ma ci dà anche l’opportunità di continuare a imparare e a evolverci. In entrambi i casi, comunque, la possibilità di usufruire di questo tipo di soluzioni merita un’interpretazione composita che consideri non solo il lutto ma anche la memoria, che unisca l’etica all’estetica, tenendo conto quindi della differenza tra il possibile fruitore della voce riprodotta e il soggetto stesso – il morto – la cui voce è stata riprodotta.
L’elaborazione del lutto
Innanzitutto, è evidente che sul piano dell’elaborazione del lutto un’Alexa dei morti può rappresentare plausibilmente un ostacolo per una sana attenuazione del dolore legato alla perdita. La possibilità di risentire continuamente la voce del proprio amato o, addirittura, di interagire con lui in maniera attiva, secondo le caratteristiche dell’immortalità a doppio senso, può accentuare quel processo di autoaffabulazione che caratterizza in modo naturale chi non vuole in alcun modo accettare l’assenza, sia essa più o meno improvvisa. Pensiamo alle suggestive e dolorose parole di C.S. Lewis e di Jacques Derrida: il primo sostiene che, se ci venisse proibito il sale, non ne sentiremmo la mancanza nella singola pietanza. Tutto il cibo sarebbe diverso. Allo stesso modo, l’atto di vivere è radicalmente diverso quando muore un amato (cfr. Diario di un dolore). Il secondo, invece, afferma che la morte dichiara ogni volta la fine di tutto il mondo possibile. Abitudini, consuetudini, rituali e linguaggi che costituivano il mondo, l’unico mondo possibile, svaniscono insieme alla vita di chi è morto (cfr. Ogni volta unica, la fine del mondo). Le poetiche parole di Lewis e Derrida sono un riferimento utile per comprendere fino in fondo quanto l’imitazione passiva o attiva della voce del morto possa accrescere la terribile sensazione di vuoto cagionata dalla perdita, dunque spingerci a vivere patologicamente un lutto a tempo indeterminato.
La trasformazione dei profili social dei defunti in santuari fai da te
Già oggi, senza bisogno di ricorrere ad Alexa, si contano i casi di persone che proiettano sui propri device il bisogno di prolungare indebitamente il rapporto amoroso interrotto dalla morte. C’è chi, conservando il telefono del partner deceduto, lo fa squillare o – viceversa – lo utilizza per far squillare il proprio telefono di modo da attribuire rispettivamente allo squillo e all’immagine comparsa sul proprio display quella preziosa presenza venuta meno. C’è chi, poi, ammette di non riuscire a non guardare ogni giorno il profilo social o il profilo su WhatsApp di un proprio caro defunto: rinunciare a ciò equivarrebbe, infatti, alla replica della morte, dunque della perdita. Ne consegue la trasformazione dei profili social in veri e propri santuari fai da te per mantenere il legame con l’assente.
Alexa e la separazione della memoria dal lutto
Va detto che non vi è nessun obbligo a utilizzare l’Alexa dei morti: chi è consapevole di essere particolarmente fragile e incapace di scendere a patti con l’assenza cagionata dal lutto, probabilmente, non ne farà mai uso. Allo stesso modo in cui non guarda le fotografie o non legge le lettere che rendono doloroso il ricordo e imperituro il senso sconvolgente della mancanza. Proprio il piano del ricordo entra in gioco là dove il possibile fruitore dell’Alexa dei morti risulti in grado di separare la memoria dal lutto. Costui lo utilizzerà, infatti, con lo stesso spirito che contraddistingue il dialogo con il morto davanti alla sua tomba al cimitero: un legame simbolico e romantico tra il mondo dei vivi e quello dei morti che è del tutto consapevole che non vi sarà mai una risposta “vitale” e “attiva” dall’aldilà. Al massimo, la risposta data da Alexa corrisponderà alla voce già oggi registrabile con un semplice smartphone o, in un senso diverso, a una momentanea via di fuga dalle difficoltà della vita quotidiana: se per qualche minuto mi autoconvinco che sto dialogando con chi non c’è più, ma sono consapevole che è un dialogo fittizio, che male ci può essere a farne uso?
Inoltre, sempre stando sul piano della memoria, l’Alexa dei morti potrà permettere di “conoscere”, dunque di ricordare, meglio chi non si è potuto frequentare per lungo tempo: per esempio, un nipote a cui è morto il nonno durante gli anni dell’infanzia potrà usufruire di un ricordo assai vivido di una persona di cui ha, di per sé, poca memoria per ovvie ragioni di età. Si potrà, al tempo stesso, migliorare la qualità del ricordo delle persone che hanno segnato un’epoca storica con le loro particolari imprese.
In altre parole, affrontare un’interpretazione dell’Alexa dei morti ci spinge a muoverci sul crinale che separa e unisce l’etica all’estetica, l’ermeneutica alla semiotica, sapendo che:
- è comunque importante non dimenticare il limite della morte e la vulnerabilità costitutiva che caratterizza la nostra vita mortale, non fraintendendo l’evoluzione tecnologica del ricordo con una vera e propria forma di immortalità;
- se mai l’Alexa dei morti creerà situazioni imbarazzanti, superficiali o banalizzanti nei confronti del modo di affrontare la morte e il dolore nello spazio pubblico, ci ricorderemo che queste situazioni si creano purtroppo anche in sua assenza. Non è la tecnologia a rendere imbarazzanti, superficiali o banalizzanti gli atteggiamenti degli esseri umani.
Resta un ultimo punto, molto delicato e importante: quello che riguarda non chi usufruisce del servizio, ma chi avrà la propria voce riprodotta – suo malgrado – post mortem. Per alcuni non avrà nessun tipo di importanza, per altri invece potrebbe risultare un’iniziativa che va contro la loro volontà e la loro privacy. Inoltre, entra anche in gioco la questione del deepfake a livello audio, per cui la perfetta riproduzione artificiale della voce di una persona potrebbe essere utilizzata per finalità prive di etica o addirittura fraudolente. Ancora, il deepfake a livello vocale potrebbe favorire il ripetersi del noto racconto L’invenzione di Ronnie Pinn contenuto nel libro La vita segreta di Andrew O’ Hagan: la costruzione dell’esistenza digitale completamente inventata di un ragazzo morto ventenne vissuto a Londra fino al 1984. A partire dai pochi documenti riguardanti la sua breve vita e da una sola fotografia a disposizione, l’autore è infatti riuscito a ridargli una seconda vita all’interno dei social media, priva di qualsivoglia connessione con quella che ha realmente vissuto e – soprattutto dentro Facebook – colma di altri “amici” inesistenti.
Conclusioni
Come possiamo notare, le questioni messe in gioco dall’Alexa dei morti sono molteplici. Pertanto, occorre studiarne le caratteristiche, mettendo in luce i risvolti etici, estetici, psicologici, mediatici, ermeneutici, semiotici, ecc. Occorre, anche, non dimenticare che con le innovazioni tecnologiche mutano i riti, i desideri, i ricordi, con tutte le loro conseguenze positive e negative, con tutte le loro opportunità e criticità. Ma, alla fine, ciò che stiamo vivendo rappresenta niente più che la continuazione contemporanea di un lungo percorso di metamorfosi antropologica, per cui ogni novità in ambito tanatologico necessita di un contesto interpretativo che consideri il nostro legame con l’assente, il nostro modo di ricordare e di dimenticare, il nostro modo di creare da un punto di vista artistico. Le sfide sono tante, non soffochiamole lasciando prevalere i pregiudizi o le paure, per quanto più che legittime e da monitorare con attenzione.