Da Turing alle neuroscienze

Algoritmi e intelligenza artificiale: conoscerli bene per metterli al servizio dell’umanità

Per trarre il meglio dagli algoritmi di AI e a scongiurarne gli effetti negativi bisogna conoscere a fondo le loro logiche intrinseche. Questo il fine del libro “Intelligenza Artificiale – Elementi” (ed. Giappichelli 2021), di cui pubblichiamo qui un estratto, a firma dello stesso autore

Pubblicato il 08 Ott 2021

Giuseppe D'Acquisto

Funzionario del Garante per la protezione dei dati personali, Titolare dell’insegnamento di intelligenza artificiale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università LUISS Guido Carli

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L’intelligenza artificiale è la disciplina che studia il modo in cui un artefatto dell’uomo, o agente, può risolvere razionalmente un problema senza l’intervento dell’uomo. La razionalità di un agente è fondata sull’applicazione di regole matematiche e di inferenza logica e probabilistica che vengono chiamate algoritmi. Si tratta di una disciplina relativamente giovane, che ha un padre fondatore e una data di nascita certa. Il giovane padre fondatore è il matematico Alan Turing, e il momento certo della nascita è la pubblicazione nel 1950 sulla rivista Mind dell’articolo Computing machinery and intelligence. Questo il celebre incipit di quell’articolo [1] in cui troviamo già molte delle questioni che successivamente la ricerca avrebbe affrontato, offrendoci il patrimonio di strumenti di cui oggi disponiamo.

L’intelligenza artificiale scrive sempre meglio, ma non sa che sta dicendo

“Mi propongo di considerare la questione: “Possono pensare le macchine?” Si dovrebbe cominciare col definire il significato dei termini “macchina” e “pensare”. Le definizioni potrebbero essere elaborate in modo da riflettere il più possibile l’uso normale delle parole, ma questo atteggiamento è pericoloso. Se il significato delle parole “macchina” e “pensare” deve essere trovato esaminando le parole stesse attraverso il loro uso comune è difficile sfuggire alla conclusione che tale significato e la risposta alla domanda “Possono pensare le macchine?” vadano ricercati in una indagine statistica del tipo delle inchieste Gallup. Ciò è assurdo. Invece di tentare una definizione di questo tipo sostituirò la domanda con un’altra, che le è strettamente analoga e che è espressa in termini non troppo ambigui.”

(…)

“Non possono forse le macchine comportarsi in qualche maniera che dovrebbe essere descritta come pensiero ma che è molto differente da quanto fa un uomo?”

È bene soffermarsi su alcuni passaggi cruciali di queste poche righe, perché essi hanno una valenza metodologica per gli argomenti che saranno trattati in questo libro. Innanzitutto, l’interrogativo “Possono pensare le macchine?”, con l’avvento dei calcolatori elettronici che a quell’epoca iniziavano a essere studiati e costruiti, apre un ambito completamente nuovo per l’uso di una macchina, da strumento di ausilio meccanico per l’uomo a strumento di ausilio al pensiero. La macchina non è più soltanto lo strumento che l’uomo usa per costruire oggetti concreti e per trasformare lo spazio in cui vive, ma può entrare nella sfera dell’intangibile e diventare strumento per la costruzione di oggetti astratti, come un ragionamento, e per la risoluzione di problemi. Il passaggio richiede un salto concettuale molto impegnativo. Mentre infatti è evidente il tipo di ausilio meccanico che una macchina può offrirci, ovvero la costruzione di una nuova generazione di macchine, a partire dalla (e grazie alla) precedente generazione, in grado di superare specifiche soglie misurabili di prestazione (ad esempio, un miglioramento in termini di velocità, di potenza, di precisione ecc.), l’ausilio che la macchina può offrire alla nostra capacità di pensare era, e per molti versi è tutt’oggi, assai meno evidente. Dovremmo innanzitutto essere in grado di definire cosa sia il pensiero e quali caratteristiche dovrebbe avere una macchina in grado di pensare. In questo esercizio emergono però subito due problemi. Da una parte, non disponevamo nel 1950, e in larga parte non disponiamo ancora, di una definizione oggettiva di cosa sia il pensiero dell’uomo. Dall’altra, bisogna considerare le limitazioni del linguaggio: il linguaggio naturale con il quale ci esprimiamo non sempre è idoneo a rappresentare compiutamente le funzioni svolte da un organismo complesso come un essere umano. Vi sarà sempre una zona grigia ineliminabile di ambiguità che non consentirà di catturare appieno le sfumature del nostro pensiero, che invece contano moltissimo. Tuttavia serve uno sforzo, perché rispondere all’interrogativo di Turing è quantomai necessario: l’uomo ormai da quasi un secolo intuisce questo nuovo grande ambito di applicazione per le macchine, e oggi in particolare ne avverte l’urgenza vista l’abbondanza di informazioni in cui vive e la facilità di generarle e di scambiarle su scala globale.

Alan Turing offre immediatamente una visione metodologica per uscire da questa impasse concettuale e linguistica. La sua idea è di abbandonare l’ambiguità del linguaggio e di concentrarci unicamente sui risultati che una macchina può produrre. Per farlo, egli assume l’esistenza di una macchina ipotetica (una macchina che in quel momento neppure esisteva) che faccia “qualcosa”, anzi più esattamente “qualsiasi cosa”, per rispondere a delle domande che le sono sottoposte, in modo che l’osservatore umano che le formula, o interrogatore, possa interpretare le risposte ottenute, giuste o sbagliate che siano, come il frutto di un pensiero. Una specie di inganno all’uomo ordito dalla macchina, ma che fa rientrare la questione nell’alveo tradizionale del metodo scientifico. Se questo inganno funziona, e l’osservatore umano non è in grado di distinguere se la risposta sia stata data da una macchina o da un uomo, tutto va come se la macchina avesse pensato. Possiamo dire che la macchina ha prodotto un pensiero.

In questo modo, in assenza di un linguaggio inequivocabile e di una conoscenza perfetta del funzionamento della mente umana, Turing sposta la questione semantico-linguistica (cosa è il pensiero?) associata alla domanda “Can machines think?” riportandola alla misurazione di un risultato oggettivo (quante volte l’interrogatore è ingannato dalla macchina?) e alla riproducibilità dell’esperimento, ossia all’applicazione del metodo scientifico. Turing non dice come deve essere fatta una macchina pensante, ma soltanto i requisiti che l’esperimento dovrà avere per poter affermare che una macchina sia stata in grado di elaborare un pensiero.

Algoritmi e problem solving

Da allora diverse forme di pensiero sono state ipotizzate per una macchina, non soltanto basate sul paradigma della dissimulazione di Turing. Anzi, lo schema del test di Turing, che rimane tuttora un validissimo indicatore del livello di “abilità” della macchina nell’ingannare l’uomo, è stato progressivamente abbandonato a favore di un approccio più moderno all’intelligenza artificiale, che potremmo definire di tipo problem solving. Per dirla con Stuart Russel e Peter Norvig [2]: “planes are tested by how well they fly, not by comparing them to birds”. Ossia, una volta compreso che le macchine sono in grado di produrre un certo tipo di risultato che può essere assimilato a una forma di pensiero, non serve concentrarsi sull’efficacia dell’inganno, ma è meglio rivolgere l’attenzione a quella modalità di pensiero così differente dalla nostra che le macchine sono in grado di realizzare e svilupparla per la risoluzione di problemi specifici. Negli ultimi decenni, dunque, la ricerca scientifica ha di fatto smesso di considerare l’intelligenza artificiale come un tentativo di riprodurre il modo in cui l’intelligenza umana ragiona, e si è maggiormente concentrata sulle svariate tecniche, che oggi chiamiamo algoritmi, che grazie alle macchine possono essere applicate alla risoluzione di problemi specifici in diversi ambiti. Attraverso algoritmi di intelligenza artificiale è possibile analizzare l’andamento temporale di un fenomeno, anche molto complesso, andando alla ricerca di correlazioni con altri fenomeni altrettanto complessi in modo da fornire previsioni sempre più accurate della sua evoluzione e da consentirci di anticipare i tempi delle nostre decisioni e di superare molte barriere cognitive.

AI, il funzionamento degli algoritmi

Oggi l’intelligenza artificiale offre moltissime tecniche per trattare dati in grande quantità e per risolvere molti problemi logici e combinatori specifici. Eppure si tratta di una disciplina che non ha un carattere di unitarietà. Essa poggia in effetti su scienze più consolidate e tradizionali, come la matematica, la logica e il calcolo delle probabilità per produrre i propri risultati. Potremmo dire che l’intelligenza artificiale è una combinazione di queste scienze, applicata alla risoluzione di specifici problemi. In questo senso è una disciplina che sarà sempre in divenire, dal momento che non possiamo prevedere il tipo di problemi che le esigenze dell’uomo genereranno. Da un punto di vista strettamente logico-matematico, il risultato a cui si giunge con tecniche di intelligenza artificiale è chiaro e, di volta in volta, come vedremo, potrà consistere in una deduzione logica, un’ottimizzazione, una previsione, una classificazione. Quale sia il risultato in termini di conoscenza del mondo che traiamo dall’analisi di queste moli di dati attraverso tecniche di intelligenza artificiale non è però altrettanto chiaro. Vi è certamente la scoperta di correlazioni non immediatamente visibili, e una migliore sistematizzazione delle nostre categorie di pensiero, per via dell’accresciuta capacità data dalle macchine di individuare similarità e differenze. Ma l’intelligenza artificiale non genera una nuova conoscenza del mondo e dei suoi fenomeni.

Il contributo delle neuroscienze

Se vogliamo ampliare la nostra conoscenza del mondo, anche procedendo per via induttiva attraverso la stratificazione delle nostre esperienze, c’è sempre un momento in cui dobbiamo ricorrere a un’azione creativa non sempre pienamente giustificabile in termini razionali.
Molte ricerche nel settore delle neuroscienze sono in corso per comprendere dove questa informazione sulle esperienze pregresse o innate che ci fa essere creativi sia inscritta all’interno della materia di cui siamo fatti e attraverso quali segnali si manifesti tramutandosi in azione. Siamo ancora ben lontani dal dare una risposta biologica a questi interrogativi e, fintanto che la scienza non ci avrà fornito delle risposte, non possiamo che osservare che moltissime delle nostre azioni appaiono in effetti del tutto irrazionali, o dogmatiche, ossia basate sull’ottimistica fiducia nel loro esito favorevole. Se ci fermassimo un attimo a chiederci il perché di certe scelte, non di rado non sapremmo dare (prima di tutto a noi stessi) una spiegazione razionale dell’azione e non ci rimarrebbe che constatare che si è trattato di un atto di volontà, un impulso creativo incontrollato basato su ciò che chiamiamo di volta in volta intuito, oppure istinto, sul desiderio di perseguire uno scopo e su una certa rappresentazione del mondo (quel tale oggetto, o quella tale condizione, mi consente di raggiungere quel determinato scopo nel mondo in cui vivo e dunque io voglio ottenere quell’oggetto o voglio assumere quella condizione). Si tratta di vere e proprie scorciatoie necessarie al nostro cervello per funzionare con prontezza in un mondo incredibilmente complesso.

Algoritmi e metafisica della misura

L’intelligenza artificiale, a differenza di quella umana, non ha volontà e deve ricorrere a un diverso paradigma conoscitivo. La macchina è prima di ogni altra considerazione un agente razionale che non può contraddirsi, e che fonda ogni azione su un presupposto logico. Per l’intelligenza artificiale non si addicono dunque termini come volontà, o intuito, che appaiono del tutto vaghi.

La macchina si muove sempre all’interno di un arco di possibilità interamente noto in partenza e attraverso l’unica possibile rappresentazione del mondo compatibile con questo schema di piena razionalità: la misura di specifici stati del mondo. Solo dal confronto di metriche poste tra loro in una specifica relazione d’ordine (X è più grande di Y, oppure X è meno incerto di Y) o logica (se X dunque Y) può discendere l’azione autonoma di una macchina. All’interno di questo mondo “chiuso” e predefinito si manifesta l’intelligenza di una macchina, che non sarà mai un’intelligenza caratterizzata dalla creatività umana, né da atti irrazionali di volontà, ma soltanto dall’applicazione di specifiche leggi logiche o matematiche. Alla metafisica umana della volontà l’intelligenza artificiale contrappone una diversa metafisica: la metafisica della misura.

La scelta della sequenza logico-matematica, o algoritmo, ovvero della famiglia di algoritmi all’interno della quale la macchina cercherà o apprenderà l’algoritmo più idoneo, è una scelta umana, e lì si concentra la parte ampliativa della conoscenza. La macchina si muoverà nell’arco di tutto ciò che è possibile fare con quegli algoritmi e con i dati di cui dispone, e in questo senso essa si muove in un mondo chiuso. Magari un mondo molto ampio per via della quantità combinatoria di varianti, molto più ampio del nostro orizzonte sensibile, cosa che ci dà l’impressione che la macchina stia scoprendo fenomeni o generando conoscenza, ma sarà sempre un mondo finito e confermativo. I dati e gli algoritmi possono aiutarci a prevedere con elevato grado di accuratezza e verosimiglianza cosa accadrà, ma anche l’intelligenza artificiale più sofisticata non potrà mai dirci perché.

Il problema della coesistenza tra uomini e macchine

Naturalmente, l’ingresso della macchina nell’ambito del pensiero pone molti interrogativi sulla coesistenza tra uomini e macchine. Il tema è oggi ampiamente dibattuto e ogni ipotesi è aperta. Di certo, la macchina offre all’uomo la possibilità di risolvere problemi prima intrattabili, per via dell’esplosione combinatoria delle varianti a cui essi danno luogo, allargando progressivamente l’insieme dei problemi risolvibili. Non è però affatto detto che nel fare questo la macchina invada l’ambito del pensiero umano, come i pessimisti ritengono. Il problema non è tanto se la macchina possa pensare come l’uomo, sottraendo all’uomo spazi di autodeterminazione nella produzione creativa, congettura che andrà verificata, ma se l’uomo sarà costretto per effetto della presenza di macchine (a loro modo) intelligenti a ragionare come la macchina e in questo a vedere limitata la propria libertà.

Guardando alla storia dell’uomo, che in questi aspetti presenta tratti ricorrenti, non è irragionevole ipotizzare che l’uomo, nel disporre di macchine in grado di ampliare l’insieme dei problemi che possono essere risolti con tecniche logico-matematiche, finisca per creare nuove forme di divisione tra uomini e uomini. Tra gli scenari futuri da considerare, determinati dalla presenza di macchine intelligenti, vi è senz’altro la creazione di nuove classi sociali, forse anche più nettamente separate di quanto non siano già attualmente: da una parte alcuni uomini che potrebbero trovare il loro “posto sociale” nello spazio creato dal funzionamento delle macchine intelligenti, diventando in un certo senso strumento della macchina (ad esempio, alimentando le macchine con attività massive di data entry, come avviene già oggi per le applicazioni social, oppure curando il buon funzionamento degli algoritmi), dall’altra altri uomini che avranno le capacità e la forza di sottrarsi a questa attrazione e che potranno utilizzare la macchina come un loro strumento, delegandole la fatica delle azioni più ripetitive e noiose.

Conclusioni

Proprio questo è il compito del decisore, ad ogni livello in cui opererà: individuare regole che siano capaci di trarre tutto il meglio dall’intelligenza artificiale, e ve ne sono tutte le premesse, e di scongiurarne gli effetti negativi, offrendo a tutti un accesso universale e non discriminatorio ai servizi e ai benefici attesi, promuovendo la competizione e la fiducia delle più giovani generazioni nella formazione e nel progresso tecnologico. Prendere il meglio dall’intelligenza artificiale e allontanare il peggio. È un compito estremamente complesso che spetta in particolare agli operatori del diritto, ma non soltanto a questi. Esso investe infatti tutte le anime delle nostre società e richiederà le migliori idee di scienziati, filosofi, economisti. Per giungere a regole e tutele efficaci bisogna però conoscere intimamente i presupposti tecnici che fanno funzionare gli algoritmi. Una “narrazione” dell’intelligenza artificiale che trascuri i principi tecnologici rischia di farci immaginare tutele non realizzabili e di creare grandi equivoci. È dunque necessaria un’alfabetizzazione tecnica il più possibile diffusa. È questo lo scopo del libro.

Il funzionamento degli algoritmi è al centro del libro “Intelligenza Artificiale – Elementi” (ed. Giappichelli 2021) di Giuseppe D’Acquisto, una lettura che aiuta a conoscere intimamente i presupposti tecnici che fanno funzionare gli algoritmi. Conoscere per deliberare: solo l’alfabetizzazione tecnica diffusa permette ai decisori di trarre il meglio dall’intelligenza artificiale e di scongiurarne gli effetti negativi nella società. Qui abbiamo pubblicato, fornito dall’autore, un estratto del primo capitolo del libro.

Note

  1. Traduzione da V. Somenzi, R. Cordeschi, La filosofia degli automi. Origini dell’intelligenza artificiale, Boringhieri, Torino, 1965, pp. 157-183.
  2. S. Russell , P. Norvig, Artificial Intelligence: A Modern Approach, 4th edition, Pearson Education, 2020

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