Lelio Demichelis. Tu poi aggiungi: “In questa centralizzazione lavorativa del consumo abbiamo un capovolgimento carico di significato del rapporto tra azienda e consumatore”. Ma non è una cosa nuova, bensì l’esito di un lungo processo novecentesco (ancora: il ‘900 che non è morto), che procede in parallelo tra organizzazione eteronoma del lavoro di produzione (e il passaggio del senso del lavoro da prestazione a collaborazione con l’impresa, per non parlare di tecniche motivazionali, manager empatici e manager della felicità), del lavoro di consumo (dal consumatore al prosumer, un’altra forma di lavoro diventata collaborazione se non gamification con un brand), arrivando oggi alla produzione di dati mascherata da condivisione e da socialità/social. Ma ancora una volta niente di autonomo, bensì di attivato da psicologia e tecniche di organizzazione del lavoro e del consumo e della cessione di dati – anche mediante la psicologia e l’attivazione di dopamina, tutto per far adattare l’uomo e la società alle esigenze della rivoluzione industriale. Già Taylor voleva rendere felice l’operaio Schmidt – motivandolo psicologicamente (in modo eteronomo e manipolante) – facendogli caricare su un vagone non più 12,5 tonnellate di materiale al giorno ma 47,5; così come oggi Amazon e il lavoro super-sfruttato, accompagnato dal mantra del doversi sentire amazoniani, felici di lavorare per Amazon – ancora il Novecento che non scompare, semmai si affina nel mascherare l’alienazione che produce e nello sfruttare il pluslavoro per generare plusvalore…
Maurizio Ferraris. Non ho mai pensato che si trattasse di qualcosa di senza rapporto con il Novecento. Per quanto riguarda il desiderio dei datori di lavoro di rendere felici i lavoratori, noto che non è solo un desiderio capitalistico. Kraft durch Freude, forza attraverso la felicità, era il nome della organizzazione ricreativa dei nazisti; l’Inno alla gioia, prima di divenire l’inno nazionale europeo, è stato l’inno dello stato più infelice e più anticapitalista della storia recente, la repubblica democratica di Germania. Happiness is a warm gun, scrivevano i Beatles senza aver bisogno di leggere i saggi di Adorno, il quale peraltro è stato l’unico a teorizzare l’infelicità come condizione essenziale per il vero godimento artistico. A me pare ovvio che si adoperi la felicità come arma, lo fanno tutti, capitalisti e anticapitalisti (tranne, lo ripeto, Adorno), sta agli umani rendersi conto del fatto che non è tutt’oro quel che brilla. E che nel lavoro ci possa essere felicità lo dimostra la depressione dei pensionati. Senza parlare poi del fatto che non c’è cronaca di guerra che non parli di momenti di felicità nella battaglia che non hanno corrispondente nella vita civile. Anche qui è il furbo capitalismo? No, è lo stupido essere umano.
L.D. Sapendo che è stupido, il capitalismo lo mette al lavoro per sé. Ma da illuminista, anche contro tutte le smentite della storia, continuo a credere nell’uomo e nella sua voglia di libertà.
M.F Da illuminista credo necessario capire che il Capitale è fatto da umani come noi, non da una razza diversa e vincente, come se loro fossero i sapiens e noi i Neanderthal. E soprattutto credo che può esserci più intelligenza (da intendersi come: comprensione critica del reale, così come della situazione sociale e della condizione umana) nell’inventare una forma industriale che nel criticarla in base a parametri inattuali, novecenteschi o addirittura ottocenteschi. È con quella intelligenza che ambisco a misurarmi, senza complessi di inferiorità ma anche senza complessi di superiorità, proprio come ha fatto Marx, che – diversamente da tanti altri critici puramente moralisti del capitale – ha saputo coglierne il carattere magico, faustiano, religioso, che spiegava i suoi successi molto più che il ritornello della cattiveria e avidità dei capitalisti. E soprattutto senza arrogarmi, nella mia veste di intellettuale di sinistra, il monopolio del cuore, quasi che solo io sapessi e conoscessi che cosa è bene per l’umanità.
L.D. Marx credeva – semplifico un po’ – che bastasse mutare il soggetto proprietario dei mezzi di produzione per uscire dallo sfruttamento capitalistico. Credeva anche – è la sua ingenuità intellettuale – che ci volesse il massimo di capitalismo per passare al comunismo; ma credeva pure a una tecnica che permettesse di realizzare il general intellect. In realtà il capitale sfrutta per sé anche il general intellect (ammesso che esista) che oggi si chiama dati/profili; mentre la storia ha dimostrato che non basta mutare il soggetto proprietario dei mezzi di produzione per avere magicamente una società comunista (o di altra natura) se non si controlla anche e soprattutto la forma tecnica di questo mezzo di produzione e i modi e le norme (e i processi di normalizzazione sociale) con cui si sovrappone alla società e allo stato), svuotandoli.
Arrivo allora al tema di ricerca che sto sviluppando: come pensare e attuare, dopo una ri-democratizzazione dell’impresa/capitalismo, una democratizzazione della tecnica come apparato. È – di nuovo – un problema di consapevolezza. E così come siamo dovuti passare da una società che conservava a una che consuma sempre di più (perché questo era necessario al sistema), così potremmo passare a una società che produce e consuma diversamente. Non ho nessuna pretesa di sapere cosa è bene per l’umanità, il mio principio è dubito, ergo sum. Cerco, sapendo anche di non poter trovare; ma lo spirito critico è essenziale per qualsiasi riflessione e oggi proprio il senso/pensiero critico è ciò che più ci manca: si potenziano le competenze ma si riduce la conoscenza. Da ultimo: mi accusi ancora di applicare paradigmi novecenteschi/ottocenteschi per criticare l’oggi. Io faccio confronti, verifico, analizzo. È diverso, molto diverso. Potrei dire – replicando – che sei tu che non confronti e non verifichi, confrontando il nuovo con il passato.
Certo, la mia tesi è che – essendo il capitalismo moderno un capitalismo industriale/tecnico – la rivoluzione industriale è una unica rivoluzione: distinguerla tra prima, seconda, eccetera è solo una retorica per nasconderne le continuità, dove a mutare sono solo le tecnologie predominanti/prevalenti in una certa epoca, ma appunto non la forma tecnica essenziale e sempre replicata, quello che chiamo il doppio movimento di suddivisione/individualizzazione per poi unificare/totalizzare. Libero di pensare diversamente – altrimenti non sarebbe nata e non si sarebbe sviluppata questa nostra splendida e intrigante riflessione. Mi limito a confrontare. Se poi – dal confronto – mi si evidenzia una continuità nelle forme tecniche, questo deriva dall’analisi svolta sui fatti, analizzando i fatti. Non da un pre-giudizio.
M.F. Visto che la tecnica è coestensiva all’umano, mi sembra difficile sostenere che la tecnica sia sufficiente a stabilire la continuità tra il capitale industriale e il capitale documediale. A meno che non si ritenga (e su questo sono d’accordo) che il capitale, come tendenza all’accumulo, sia coestensivo con la tecnica e con l’umano, e dunque qualcosa che non può essere superato, ma solo indirizzato. Ma su questo immagino non saresti d’accordo tu, che fai del capitale qualcosa di solo moderno e di solo negativo.
L.D. Il capitalismo moderno è diverso dal capitalismo premoderno, lo diceva anche Weber. E sì, noi siamo dentro al capitalismo moderno, anche nel lavoro e nel capitalismo documediale…
M. F. Dai come dimostrato proprio il demonstrandum. Tecnica e capitale, non sono categorie novecentesche, ma sono coestensive alla natura umana, che è tale solo in rapporto a un potenziamento tecnico che è a sua volta capitalizzazione di risorse. E se io ti rimprovero di rifarti a delle categorie novecentesche quando non ottocentesche non è perché sia tormentato da un qualche demone della modernità quanto piuttosto per l’effetto deleterio che può produrre la reiterazione di questi vecchi discorsi (che erano falsi e perdenti al tempo in cui sono stati formulati) in un nuovo contesto.
Ma veniamo ai fatti che, a tuo parere, proverebbero la specifica continuità fra capitale industriale e capitale documediale. Io questi fatti non li vedo. Per limitarsi a tre evidenze.
Nel passato il lavoro era fatica e alienazione, oggi non lo è più, se non altro perché il lavoro sta scomparendo, con l’effetto vagamente comico che coloro stessi che lottavano contro il lavoro come fatica e alienazione si lamentano (almeno a parole) della scomparsa del lavoro come fatica e alienazione.
Nel passato c’erano classi. Oggi ci sono moltitudini, da intendersi come aggregati di gusti, inclinazioni, conflitti, simpatie e antipatie, distinte non per educazione e tradizione, ma per censo. In questo quadro, non saprei nemmeno se sia vero che i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Di sicuro i poveri hanno oggi cose che un tempo non avevano (abiti, telefonini, cibi), ma non capisco come si possa stabilire che un ricco di oggi è più ricco di un boiardo zarista, di un senatore romano. Davvero non capisco quali siano le basi contabili con cui si fanno certe stime.
Nel passato i poveri votavano a sinistra e i ricchi a destra, adesso i poveri votano a destra e i ricchi a sinistra. Questo, se vogliamo, è un problema molto serio, perché visto che i poveri sono più numerosi dei ricchi, l’iniziativa politica va sempre alla destra. E non credo che tornerà alla sinistra se, come mi pare dall’agenda degli apocalittici, la trasformazione deve avvenire attraverso una presa di coscienza collettiva.
L.D. Dovrei ripetermi. Ma scrivi anche: “Non bisogna trascurare la circostanza per cui il consumo (non solo materiale, ma anche spirituale), allo stato attuale, sia una eminente attività umana, nel duplice senso della sola attività che rimane agli esseri umani, nel quadro della automazione totale, e di una attività che costituisce il proprio degli umani, giacché non può essere automatizzata, e che può rispondere a bisogni irrazionali”. Ma il consumismo non è il proprio degli umani, ma è appunto prodotto (Anders e la pubblicità come propaganda e come mansionario del lavoro di consumo, che è un lavoro di incessante uccisione delle merci-feticcio perché siano sostituite velocemente da altre merci-feticcio), per sostenere la produzione: via marketing e pubblicità che sono, come ho detto, l’organizzazione scientifica del lavoro di consumo.
E se oggi si usano dopamina e algoritmi predittivi per spingerci a consumare – ovvero il consumo è un’altra forma di eteronomia, cioè di alienazione, ciascuno dovendo divenire altro da sé – mi diventa impossibile sostenere che il consumo non è stato ancora automatizzato. E quindi cade anche la frase nel tuo articolo su Repubblica, quella per cui il consumo sarebbe “incanto che accomuna gli umani e li affratella”. Se un algoritmo decide al posto mio, sei d’accordo con me che cambia tutto, pur funzionando la tecnica sempre allo stesso modo, cioè suddividendo/individualizzando per poi ricomporre/unificare? Che dopo l’automazione del lavoro stiamo avviandoci alla automazione del pensiero e quindi alla massima alienazione intesa come divenire altro da sé?
Nobiltà del consumo?
M.F. Visto che il capitalismo, come ammettiamo entrambi, non è stupido, perché è il collettore della parte migliore dell’intelligenza umana (capitalismo è anche accumulare sapere nella scienza, non dimentichiamolo!), mi sembra difficile attribuirgli due azioni così stupide e insensate come l’automazione del pensiero e del consumo proprio nel momento in cui, come è sotto gli occhi di tutti, lo stesso lavoro si avvia ad essere completamente automatizzato, ma non per opera di umani, bensì per opera di macchine e di algoritmi che sostituiscono gli umani.
A questo punto, ed è la situazione che abbiamo già sotto gli occhi nelle nostre latitudini, abbiamo una sfera di produzione pienamente automatizzata e una sfera di consumo che, invece, non solo non può, ma non deve essere, automatizzata, perché si ridurrebbe la varietà, e con questa il consumo. La televisione ci offriva, originariamente, uno o due canali, ora Netfilx ci offre migliaia di film: era più automatizzato allora o ora? La mensa di fabbrica offriva una scelta. Vegani, melariani, islamici in ramadan, cibi kosher non erano previsti: non ti pare che oggi si sia progredito? Sono scelte che si trovano nelle mense, ma soprattutto fuori, visto che la gente lavora sempre meno, eppure gli stessi ragazzini che cent’anni fa avrebbero mangiato il rancio in gavetta prestando il servizio militare (che tutto sommato è una automazione scomparsa, e di cui non sentiamo la nostalgia) mangiano sushi. Automazione anche qui? Mi sembra che si perda il significato delle parole, e a questo punto non vale neppure la pena di parlare.
I consumi non conviene automatizzarli per due eccellenti motivi. Primo, che, come ho detto, conviene di gran lunga moltiplicare la sfera dei gusti e dei desideri, perché produce più reddito, ora che sappiamo prevederli e conoscerli attraverso gli algoritmi che monitorizzano il consumo. (Se qualcuno dicesse che questa è una inflazione della privacy, allora dovrebbe accusare di infrazione della privacy anche il bibliotecario che scheda il libro che prendiamo in prestito!). Secondo, e soprattutto, che il consumo, in quanto è ciò che l’umano ha di insostituibile, non può essere automatizzato visto che è la convergenza tra i due elementi che definiscono la specificità dell’umano.
Il primo è il livello organico. Diversamente dalle macchine, noi consumiamo introducendo energia in un organismo che, diversamente dai meccanismi, conosce solo due posizioni, acceso (vivo) e spento (morto), mentre un computer o un asciugacapelli puoi spegnerlo e riaccenderlo un bel po’ di volte. È l’unicità del consumo negli organismi, quello che ci assimila agli animali non umani e definisce la nostra superiorità rispetto alle macchine che, loro, non hanno scopi o bisogni, noia o ideali, semplicemente perché non dispongono di un tempo limitato di vita, e di una alternativa secca e irreversibile tra acceso e spento. Contemporaneamente, però, è proprio il disporre di protesi tecniche a far sì che noi siamo diversi dagli animali non umani. La nostra differenza non sta tanto in quello che abbiamo in noi, quanto piuttosto in ciò che è fuori di noi: biblioteche, case, supermercati, università, e ovviamente anche galere, lager e (una volta) fabbriche. È ciò che mi permette di scrivere in questo momento, perché a norma di natura dovrei essere morto da quarant’anni e probabilmente per mano di un animale più forte di me.
Dunque, non c’è modo e non c’è senso di automatizzare un così grande fenomeno, quello che chiamo appunto “responsività”, la capacità organica di rispondere a stimoli e bisogni rafforzata dal potenziamento meccanico di queste capacità. E considero il Capitale un grandissimo attore di questa vicenda, esattamente come la Metafisica e l’Arte. Come ci sono artisti fascisti come D’Annunzio o metafisici nazisti come Heidegger, così ci sono stati capitalisti crudeli o stupidi. Che però, in linea di massima, sono falliti (rifletti ad esempio sulla scomparsa del capitalismo familiare), e che dicono tanto poco sull’essenza del capitale quanto D’Annunzio o Heidegger possono essere identificati con l’essenza dell’arte o della metafisica.
L.D. Leggendo che per te capitalismo è anche accumulare sapere nella scienza mi ha fatto decisamente inquietare. A parte questo, mi sembra che quanto scrivi qui sopra – lo stesso lavoro si avvia ad essere completamente automatizzato, ma non per opera di umani, bensì per opera di macchine e di algoritmi che sostituiscono gli umani – confermi però la tesi non solo dell’alienazione ma della automazione anche del pensiero.
M.F. No. Sarebbe come dire che l’introduzione delle automobili comporta l’automazione dei cavalli (magari chiamando a testimone l’equivoco puramente verbale per cui la potenza dei motori si misura in cavalli).
L.D. Non raccolgo. Non dobbiamo dimenticare che il controllo e la previsione/programmazione/organizzazione sono essenziali al sistema tecnico e capitalista. Perché altrimenti tanto impegno verso la creazione di algoritmi che imparano da soli, di machine learning, di algoritmi predittivi del consumo sulla base dei consumi precedenti? Algoritmi predittivi, machine learning non limitano forse appunto l’intervento dell’uomo e la sua consapevolezza/riflessione/pensiero/decisione su ciò che accade, in quanto la decisione è delegata alla macchina/algoritmo? Come conciliare poi l’esigenza di prevedere, orientandoli, i miei prossimi consumi (processo che produce necessariamente standardizzazione/uniformazione/autoreferenzialità dei consumi) con la crescente varietà (per me solo apparente) delle merci/beni/servizi offerti? Diventa anche quella del mio consumo una echo chamber. Tutto organizzato, previsto, orientato… Anche l’apparente diversificazione/personalizzazione dei prodotti sta tutta dentro alla logica del dover consumare (è una tecnica di marketing, niente altro). Da tempo – se mai lo è stata – non è più la domanda a generare l’offerta, ma il contrario. Per tutte le ragioni dette sopra.
M.F. Dici bene. Da tempo, se mai lo è stata, non è la domanda a generare l’offerta, ma il contrario. Proprio questo è il punto fondamentale che va messo in chiaro. Venendo incontro alla tua ipotesi, direi che da sempre è l’offerta a determinare la domanda, i mezzi a determinare i fini, la preghiera a generare la fede (“pregate, pregate, la fede seguirà”), il rito a determinare il mito, la lettera a determinare lo spirito, e ovviamente il capitale a determinare i valori.
Se questo è vero, postulare una umanità libera e intatta su cui si sovrapporrebbe il capitale è una robinsonnade. Il capitale c’è da sempre, c’era ai tempi di Anassimandro, che nel suo famoso detto si richiama alla necessità di pagare i debiti, a quelli di Talete, che prevedendo una gelata realizzò una speculazione sul prezzo dell’olio, a quelli di Hegel, che nell’idea di Sistema dà una definizione perfetta di un divenire ideale del capitale come totalità onnicomprensiva.
Ma Hegel non cadeva nell’antropomorfismo dell’attribuire delle intenzioni al Sistema. Il Sapere assoluto era il fine verso cui tendeva tutto il processo reale, costituiva una causa finale, come dimostra la citazione da Aristotele che conclude l’Enciclopedia.
E noi cadremmo in un antropomorfismo ancora peggiore se attribuissimo al Capitale l’intenzione di automatizzare il pensiero. Da una parte, non ce n’è bisogno, perché c’è un senso in cui il pensiero, in quanto tecnica, ha sempre in sé qualcosa di automatico. Dall’altro, non è possibile, perché il pensiero, in quanto pensiero umano, è sempre calato in un organismo, che come tale oppone una resistenza fondamentale al meccanismo e all’automatismo.
Questo per un motivo semplicissimo. Un meccanismo è concepito per ripetere indefinitamente la posizione acceso/spento. L’organismo non ha che due opzioni: o è vivo (acceso) o è morto (spento, per sempre). Questa circostanza fondamentale, che è all’origine di fenomeni come il desiderio, l’ansia, la noia, il significato (tutte cose che hanno senso solo per un processo finito) fanno sì che un meccanismo in sé automatico come il pensiero non possa mai automatizzarsi per intero, visto che ha luogo in un organismo.
Ciò detto, io non sono sicuro di aver compiuto una sola azione libera nella mia vita, anche Kant diceva che non lo si può provare. E credo che nemmeno tu potresti provarmi di aver scritto del tutto liberamente quello che mi hai scritto. Perché allora parlare di algoritmi, consumo indotto e dopamina, quando questo è semplicemente il carattere proprio dell’essere umano? Io temo che il pensiero automatico sia proprio quello che mettiamo in atto quando mobilitiamo tutta una serie di riflessi pavloviani per dire che siamo alienati, siamo sfruttati, eccetera eccetera. Credo invece che la strategia giusta sia un’altra. Pur sapendo quali e quanto grandi siano i condizionamenti che gravano su ognuno di noi – di lingua di genere, di educazione, di letture, di credenze – bisogna sforzarsi di pensare fuori di quegli schemi. Che sono, lo ripeto, auto-assolutori (“noi” – chi, poi?) buoni, “il Capitale” cattivo. Altrimenti c’è il rischio di inserire il Capitale in una teoria del complotto, insieme all’Ebraismo Internazionale e ai Poteri Forti. Noi sappiamo che i governi incapaci di governare si appellano all’azione dei Poteri Forti; non mettiamoci al loro livello, come studiosi, invocando l’azione malefica del Kapitale, cerchiamo di guardare il mondo con occhi nuovi. Non era questo che propone Cartesio all’inizio delle Meditazioni Metafisiche, e Hobbes nel Nuovo Organo?
Analizzare i fatti
L.D. Nessun complottismo, di nuovo – ti prego di non usare più questa categoria… Analizzo i fatti e le interpretazioni dei fatti. Se però riconosci che è l’offerta a determinare la domanda, allora devi ammettere finalmente che i miei consumi non sono umani (non rispondono a un bisogno umano), ma sono costruiti e poi attivati incessantemente appunto dal marketing e dalla pubblicità e oggi dagli algoritmi predittivi. Che, certo attivano qualcosa di umano (i desideri), ma li piegano poi, in modo eteronomo a esigenze di profitto (consumare sempre di più e sprecare sempre di più – ed è, ancora la differenza tra valore d’uso e valore di scambio). È questo sistema che vuoi mantenere retribuendo il lavoro di produzione di dati perché il marketing sia ancora più efficace nella manipolazione dei miei desideri?
Seconda cosa: alla prima lezione del mio Corso in Università offro agli studenti una griglia di concetti da usare per l’analisi dei processi di lavoro, consumo e rete che studieranno: interazione/integrazione, società/comunità, attivarsi/essere attivati e quindi e soprattutto autonomia/eteronomia. Spiegando ovviamente che l’autonomia assoluta è impossibile oltre che dannosa, ma che si decide solo dialogando/confrontandosi con gli altri e con altre interpretazioni; ma soprattutto cercando di capire come funziona il potere e cosa produce il sapere e quale sapere il potere usa e attiva. Alla fine, decido potendolo fare con un maggiore grado di autonomia, di responsabilità, di consapevolezza soprattutto. Comprendere il potere degli algoritmi o l’azione della dopamina – come ieri delle ideologie politiche, delle religioni, del marketing che agivano, forse senza saperlo ancora, producendo dopamina – mi fa più consapevole di come possono essere usate per attivare in noi certi comportamenti invece di altri, sfruttando i caratteri dell’uomo.
Diciamo: serve una consapevolezza per provare a uscire dal girello kantiano. O dall’acquario dei social, secondo Ippolita: che crediamo infinito solo perché le pareti sono trasparenti e quindi crediamo che non vi siamo pareti/norme. Riprendendo Socrate e smascherando le interpretazioni/ideologie/narrazioni che generano fatti e verità che rilanciano e riproducono le interpretazioni che li hanno prodotti, che a loro volta… nell’eterno ritorno del tecno-capitalismo e della sua irrefrenabile e irresponsabile volontà di potenza (oggi realizzando plusvalore anche attraverso la documedialità…).
M.F. E vabbè. Sarebbe strano che il capitale oggi contasse di realizzare plusvalore attraverso la concia delle pelli, ma non basta lamentarsi della documedialità, bisogna trovare il modo per farla pagare socializzando il plusvalore, e io l’ho spiegato. Ma mi pare che tu preferisca lamentarti, anche di cose tutt’altro che obbligatorie. L’acquario dei social, per esempio, non è obbligatorio. E forse sarebbe bene insegnare ai propri studenti un po’ di decostruzione delle leggende metropolitane di cui si alimenta la critica sociale. Per esempio, che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Se davvero i poveri fossero sempre più poveri, l’umanità non sarebbe aumentata così spaventosamente e nelle nazioni in cui non aumenta non si alzerebbe la durata media della vita. Segno che fame e malattie sono in regresso. Se davvero i ricchi fossero sempre più ricchi, Jeff Bezos, che è attualmente l’uomo più ricco della terra, sarebbe anche l’uomo più ricco della storia: ma così non è. L’uomo più ricco della storia era un re africano del Quattrocento. Poi abbiamo tanti altri, tra cui Augusto. E più seriamente: con quali criteri si fanno questi calcoli? Quali sono le autorità che li certificano?
Come i ricchi sarebbero sempre più ricchi, le guerre sarebbero sempre più guerre. Ma ovviamente neanche questo è vero: oggi si fa conto di 5 morti, un tempo erano normali diecimila morti in una qualsiasi battaglia non dico di Zhukov (erano enormemente di più) ma di Federico il Grande. I bombardamenti chirurgici fanno indubbiamente dei morti, ma questi sono infinitamente minori di quelli causati dai bombardamenti a tappeto, che sono stati abbandonati essenzialmente per gli effetti che avrebbero prodotto su una opinione pubblica più avanzata (ulteriore prova del fatto che l’umanità procede verso il meglio). E quanto alle guerre sconosciute, come quella del Rwanda, oggi non sarebbero più possibili (queste guerre sconosciute, d’altra parte, ci ricordano che le stragi peggiori si sono fatte a colpi di machete, non di tecnologie avanzate).
E un’altra delle grandi ovvietà indiscusse è quella del comunismo che ha fallito e del capitalismo che ha trionfato mentre, come ho cercato di dimostrare sin qui, il comunismo si è realizzato attraverso il capitalismo, e oggi meglio che in qualunque epoca precedente. Sembra un paradosso o una burla? Vorrei che lo fosse. Purtroppo paradosso o burla, ma per niente divertente, è stato il comunismo realizzato dal comunismo, con punte di comicità che meritano di essere ricordate: il patto Ribbentrop-Molotov e l’invasione della Polonia arresa, gulag nel paradiso dei lavoratori, invasioni armate di paesi fratelli, la DDR piena di spie impiegate a sorvegliare per punire (e non per distribuire, come fa Amazon!), Stalin linguista, Elena Ceausescu membro dell’Accademia delle Scienze della Romania, i pigiami di Enver Hoxha esposti nel museo-piramide eretto in sua memoria a Tirana. (Se fai la felicità dello Stato non va bene. Se fai la felicità dell’individuo non va bene. Va bene solo se fai l’infelicità, privata o pubblica, che viene considerata una cosa seria, chiamata comunismo realizzato).
E vogliamo parlare di quelli che hanno trovato la realizzazione del comunismo in Nietzsche e in Heidegger, ossia nella stragrande maggioranza della sinistra italiana? Sarei io il facitore di paradossi? Ci si chiede piuttosto perché andassero a cercare la realizzazione del comunismo in un arciconservatore (proprio per questo amatissimo dai francofortesi) e in un nazista, ma la risposta non è difficile. All’epoca la dottrina egemone nella classe intellettuale italiana era il marxismo però – come aveva notato a suo tempo Lukács, che sapeva di cosa parlava – il marxismo impone troppe rinunce a un intellettuale (e in effetti anche a un non intellettuale). Meglio dunque inventarsi una rivoluzione immaginaria.
Tutto era già scritto in un passaggio della Nascita della tragedia, che è insieme un capolavoro di Kitsch panterato e una coerente descrizione delle aspirazioni di un Potere Operaio sotto il segno di Zarathustra: “Sì, amici miei, cedete con me alla vita dionisiaca e alla rinascita della tragedia. Il tempo dell’uomo socratico è finito: inghirlandatevi di edera, prendete in mano il tirso e non vi meravigliate che la tigre e la pantera si accovaccino carezzevolmente ai vostri ginocchi. Ora osate essere uomini tragici: giacché sarete liberati. Accompagnerete il corteo dionisiaco dall’India alla Grecia! Armatevi a dura lotta, ma credete ai miracoli del vostro dio!”.
L.D. Se neghi la disuguaglianza crescente (nel mondo e in Occidente, Italia compresa) neghi i fatti e la realtà e dai una mera rappresentazione, a prescindere. Dall’Oil ad Oxfam all’Indice di Gini o ai Rapporti del Censis, i fatti ti dimostrano che la disuguaglianza e tornata ad aumentare…guarda caso proprio negli ultimi trent’anni, quelli del neoliberalismo e della tecnica di rete. Cioè dell’ultima fase di accrescimento (dell’apparato tecnico e del plusvalore) del tecno-capitalismo.
M.F. Nel 1989 la popolazione mondiale era di 5, 263 miliardi; oggi è di 7,690 miliardi. Se la disuguaglianza fosse crescente non solo nel senso che i ricchi sono sempre più ricchi, ma anche in quello che i poveri sono sempre più poveri, fasce di popolazione andrebbero sotto la linea di sostentamento e la popolazione diminuirebbe. Ma accade il contrario. Torniamo a noi. Io, ripeto, non sono né su Facebook né su Instagram e sto benissimo, non c’è nessun Kapitale che è venuto a bussare alla mia porta imponendomene l’uso. Tu ci sei? Nel caso implausibile (in base a quello che dici dei social) che ci fossi, potresti uscirne, anzi, dovresti. Un buon motivo per star fuori dai social, che in sé sono tante cose, nel bene come nel male, è che si risparmia tempo che si può riservare alla riflessione personale, al pensiero critico, al percorrere vie non tracciate. Ma è una strategia che seguo per me, che in questo momento sto scrivendo un libro che ambirebbe a comprendere in modo sperabilmente originale (e dunque eterodosso) i caratteri dell’epoca. Non è una strategia che mi sentirei di universalizzare, se è vero quello che ho detto della mobilitazione come produzione di valore.
Società amministrata?
L.D. Sono d’accordo. Ma vale per noi. Per il resto rimando a quanto scritto sopra (conformismo, echo chambers, dopamina, società amministrata, eccetera).
M.F. “Vale per noi”, immagino in qualità di portatori di pensiero critico e libero. È un grosso complimento che ci facciamo a vicenda. Ammettiamo che sia vero: non sarebbe la prova che il capitale non è automazione totalitaria?
L.D. In ogni totalitarismo (fascismo, comunismo…) ci sono stati i dissidenti…In ogni religione vi sono gli eretici… Ma a proposito di controllo, scrivi: “Quello che conta per il capitale documediale non è la sorveglianza, ma semmai, appunto, la mobilitazione, messa in movimento e messa a profitto di risorse e creazione di valore”. Ma la mobilitazione è possibile solo grazie alla sorveglianza e al controllo… altrimenti non può esservi mobilitazione totale, secondo il principio per cui: non c’è potere senza controllo. E aggiungi: “Gli strumenti del capitale documediale, oggi, sono strumenti volti all’archiviazione, e ciò che deve essere archiviato sono documenti relativi a comportamenti”. Quindi, appunto, è sorveglianza e controllo…. perché si sorvegliano e controllano i comportamenti, non gli atti – dal Panopticon di Bentham al Big Data.
M.F. Dubito che il concetto di “sorveglianza” e “controllo” di foucaultiana memoria abbia un senso qualsiasi se non si accompagna al concetto di “punizione”: infatti il libro seminale sul tema era Sorvergliare e punire: non si scrive un libro sulla sorveglianza senza punizione perché allora anche chi ricorda l’elogio della vista nella Metafisica di Aristotele sarebbe un controllore benthamiano, chi fa bird watching sarebbe un controllore benthamiano di uccelli, e chi studia l’archeologia ittitica sarebbe un controllore benthamiano di ossi e piatti sbeccati. E mi sembra evidente che la punizione è l’ultimo degli interessi delle piattaforme. Se io per ipotesi compro nitroglicerina su Amazon non è che Amazon mi denuncia alla polizia, perché cesserei di essere un acquirente; semplicemente, la volta dopo mi dice “chi compra nitroglicerina solitamente compra anche Kalashnikov”, e me ne propone l’acquisto.
L.D. Cambia anche la punizione. Non serve più il Regolamento per la Casa dei giovani detenuti di Parigi. Foucault stesso distingue tra norma e legge. Oggi le norme che sanzionano/puniscono i comportamenti anormali rispetto alla norma richiesta sono le mode, il dover essere connessi/condividere, il doversi credere imprenditori di sé stessi, il conformismo digitale, il credere che in rete uno vale uno – come ieri ci si doveva sentire balilla o avanguardisti o gioventù comunista o fedeli di una chiesa (da non credente, da piccolo il parroco del paese dove abitavo diceva ai miei compagni che ero pericoloso e di escludermi dai giochi: oggi il meccanismo di ripete in altro modo, in rete così come nella esclusione dei migranti). La norma produce normalità (comportamentale) e la rete vive di norme e di normalizzazione (o se preferisci: di continue socializzazioni di ruolo/funzione). Nel consumo la sanzione è nell’essere esclusi, non serve un tribunale, la moda è molto più efficace di una punizione classica (Bauman). E appunto, si può normalizzare/amministrare anche offrendo una illusione di libertà. Anzi, è molto più efficace (biopolitica) per normare e normalizzare (supra).
M.F. Ammetterai che c’è una bella differenza tra essere sbattuti in galera (punizione classica) e sentirsi un po’ fuori moda (punizione postmoderna). Quanto a me, che, in veste di non connesso sui social e dunque di anormale, dovrei essere il galeotto del terzo millennio, mi sento benissimo, e nessun parroco mi rimprovera di niente. Tutto questo parlare di norme che ci coarterebbero non ti sembra un esercizio un po’ facile che ci esenta dal capire il presente per quello che è, nel suo vero bene e nel suo vero male? Quello che trovo più problematico di queste esagerazioni che alla fine rischiano di essere irrispettose (vedere nella moda una forma di carcere non sarà umanamente offensivo per chi in carcere c’è davvero?) è che non sono nemmeno delle approssimazioni, sia pure esagerate, alla realtà, ma vanno proprio nel senso opposto, quello della creazione di un modo irreale in cui tutto viene equiparato, la moda e il carcere, il consumo e i migranti, le sciocchezze e le tragedie. Anche qui, il nostro preciso dovere, in quanto intellettuali, è di differenziare ciò che può apparire vagamente simile, e questo per cogliere le specificità del presente senza appiattirlo sul passato.
Cogliere la specificità e la novità del presente non significa affatto essere indulgenti, anzi. Comporta per esempio la presa in carico degli errori di valutazione e dei luoghi comuni che ci affliggono in quanto intellettuali, ossia in quanto portatori di un pensiero che si suppone critico, radicale e sperabilmente acuto. E da questo punto di vista varrebbe la pena di capire quanto limitate appaiano retrospettivamente visioni come quella di Baudrillard, secondo cui il virtuale avrebbe abolito il reale, di Bauman, secondo cui saremmo in una modernità liquida (la nostra è l’epoca più pietrosa della storia, in cui si rischia l’esecrazione pubblica per una parola sbagliata sui social), di Adorno, secondo cui l’industria culturale è una catastrofe (era meglio un mondo popolato da analfabeti?), di Pasolini, secondo cui la modernità significherebbe omologazione. Me lo ricordo bene il conformismo degli anni Sessanta, oggi semmai il problema è che ognuno la pensa a suo modo e che una unificazione di queste molteplici volontà si trova solo nella negazione e nel rifiuto. Sta a noi, anche, trovare delle nuove prospettive e dei nuovi fini su cui creare convergenza, ma devono essere nuovi.
L.D. Certo, c’è una bella differenza, ma questo non esclude che una società viva di norme e che il sistema tecno-capitalista non produca norme e normalizzazione (anche la documedialità lo è). Ma come ogni processo di normalizzazione, non può non escludere delle forme di sanzione (l’esclusione) e di premialità (la dopamina attivata da un like). Non ho mai equiparato la moda ad un carcere. Ma sono due forme diverse di normalizzazione. Che possono coabitare tra loro (normalizza la moda, normalizzano le torture della polizia a Genova nel 2001 – ovviamente in modo diversissimo, ma ugualmente funzionali al funzionamento e alla riproducibilità del sistema).
Quanto a Bauman, da subito (2008) avevo detto anch’io (come te nel tuo Manifesto) che la sua società liquida è ben più pesante della vecchia modernità. Il concetto di liquidità definisce infatti in altro modo ciò che un tempo era la distruzione creatrice di Schumpeter, la dynamis intrinseca del tecno-capitalismo, l’istituzionalizzazione dello stato di natura secondo De Carolis (e non più il suo superamento mediante un contratto sociale), oggi la disruption. Avrei la tentazione di citare anche Marx ed Engels e le prime pagine del Manifesto del partito comunista (1848), dove descrivono quella che oggi chiameremmo globalizzazione (le somiglia moltissimo), ma non vorrei essere accusato di applicare ancora concetti ottocenteschi ormai superati…
M.F. Vedo male la coabitazione tra moda e carcere, e, potendo scegliere, sono senza riserve per la prima. Quanto a Marx e Engels, citali pure, il problema non è quanto antichi siano gli autori a cui uno si riferisce, ma quanto sia legittimo sovrapporre il capitalismo industriale con quello documediale. E visto che tu stesso sostieni che non lo è, non c’è problema. Solo mi chiedo se non suoni un po’ strano il sillogismo che implicitamente suggerisci.
Premessa maggiore: il capitale documediale è diverso e peggiore del capitale industriale
Premessa minore: il capitale documediale non imprigiona o fucila, ma dichiara fuori moda
Conclusione: essere fuori moda è peggio che essere imprigionati e fucilati.
La conclusione del tuo sillogismo implicito è molto elegante e degna di Lord Brummell, ma dubito che possa essere condivisa se non da una ristretta cerchia di fashion victim.
L.D. Non rispondo alla provocazione. Ribadisco invece di nuovo – visto che mi fai dire il contrario – che per me il capitalismo documediale è tutto dentro al capitalismo industriale. Perché è industriale nel suo doppio movimento (suddividere e poi integrare), nella alienazione che ri-genera e nello sfruttamento che produce, nel pluslavoro che attiva in noi per realizzare maggiore plusvalore per sé… Chiudo con alcune citazioni: “… la digitalità è pervasiva e la disintermediazione offre a ogni passo una tale ebrezza. La quale, se osservata da vicino, si rivela fondata sull’odio per la mediazione. Che è fatale per il pensiero”. “… divenne chiaro che controllo significava innanzitutto controllo dei dati. E la situazione si rovesciò. Quei dati non venivano più estratti a forza dall’alto [come nei totalitarismi del ‘900], ma spontaneamente offerti dal basso Ed erano la materia stessa su cui esercitare il controllo” – Roberto Calasso.
Disintermediazione?
M.F. Il digitale non è minimamente disintermediazione. È una nuova mediazione, una nuova dialettica, più sofisticata di quelle che l’hanno preceduta. E il fastidio degli intellettuali per il web è una forma di luddismo: come, io, il professionista della mediazione, superato da un algoritmo? Infatti, non bisogna lasciarsi superare dagli algoritmi, bisogna far di meglio e pensare di più. Se però partiamo da idee fuorvianti (per esempio quella del web come disintermediazione, tanto cara alla Casaleggio e associati) temo che non andremo troppo lontano.
L.D. Sono d’accordo. E ho sempre detto che la disintermediazione è solo apparente (anche nel capitalismo delle piattaforme) e che maschera una diversa intermediazione. Più sofisticata? Certo meno percepibile. Che quindi maschera meglio l’alienazione che riproduce in altre forme. Quanto agli intellettuali e il loro fastidio per il web – per quanto mi riguarda escludo ogni forma di luddismo, come detto sono fieramente figlio della conquista della Luna.
M.F. Prendo dunque atto del fatto che il disaccordo è fra te e Calasso, e mi chiedo perché lo hai citato.
L.D. Ho citato Calasso perché scriveva di una ebbrezza per la disintermediazione che produce la digitalizzazione. Una digitalità che è pervasiva e che quindi produce nuove forme di mediazione. Mi sembra chiaro. Se leggi la prima con la seconda citazione di Calasso – e Calasso è fortemente critico appunto sulla digitalizzazione e quindi l’ho citato per la sintonia con le mie riflessioni – è evidente che solo una ebbrezza pervasiva e socializzata per la disintermediazione (apparente) poteva permettere che i dati potessero essere poi spontaneamente offerti dal basso, ciascuno avendo introiettato appunto la norma per cui digitalizzazione uguale disintermediazione. E quindi poteva essere facile – come infatti è avvenuto – normare e normalizzare i comportamenti portando ciascuno a rinunciare alla sua privacy, cioè alla sua soggettività, cioè alla sua possibilità/capacità di individuazione, cioè alla sua libertà/autonomia – rinuncia necessaria alla nostra produzione di dati a produttività crescente e a totale alienazione da noi stessi.
Ancora qualche citazione: “Il pedinamento digitale degli utenti della rete incide sulla costruzione dell’identità personale anche sotto il profilo della libertà di autodeterminazione. (…) La condivisione delle proprie esperienze, le tracce dei nostri percorsi sul web alimentano una economia del dato basata sullo sfruttamento delle informazioni personali e sulla costruzione di modelli identitari omologanti, su facili etichettamenti che pregiudicano la capacità di scelta autonoma. L’identità personale tende così a ridursi alla determinata tipologia di consumatore, elettore o utente che Amazon, Apple o Google attribuiscono a ciascuno, in un gioco di profili e algoritmi che annulla l’unicità della persona, il suo valore, la sua eccezionalità”. E ancora: “La manipolazione del consenso, reso possibile dal condizionamento delle opinioni di cittadini profilati in base al loro comportamento in Rete, costituisce un pericolo per la tenuta delle democrazie, che rischiano di regredire verso regimi plutocratici, fondati sul potere informativo” – Antonello Soro, Garante per la privacy. Ovvero, ancora a proposito di novecento che non muore: l’uomo a una dimensione di Marcuse era ancora un bambino, davanti all’adulto ancor più a una dimensione di oggi.
M.F. A me pare il contrario, e cioè che i governi (guarda la Brexit, guarda Trump, guarda i gialloverdi da noi) siano in balia degli elettori, che li pedinano in ogni momento e gli impediscono di prendere delle decisioni (il che magari è anche un bene, ma ameremmo prima o poi sapere, se non altro per curiosità e opportuna informazione, se la Tav si farà o non si farà, se il muro col Messico si farà o non si farà, se la Brexit ci sarà o non ci sarà) manifestando il proprio consenso o dissenso a colpi di like. Ma, ripeto, se il signor X vuol credere in un oracolo, ebbene, nessuno glielo può negare…
L.D. Qui si apre un nuovo fronte di riflessione. Ti riporto alcune cose che ho pubblicato recentemente, recensendo il libro di Ferruccio Capelli sul populismo, per Alfabeta2: “Cos’è il populismo e perché oggi sembra incontenibile e globale, dopo essersi affacciato in realtà ben prima della crisi del 2007? Le risposte sono molte perché molti sono i populismi e molte le cause che li hanno prodotti. Elenchiamone alcune, per approssimazione: per una nuova psicopatia sociale fatta di servo-padrone, di servitù volontaria/istinto gregario alla ricerca di un capo-branco, di conformismo e di effetto-rete, di inchino (o baciamano, per Salvini) al Grande Inquisitore; per l’incapacità della sinistra di resistergli dopo averlo prodotto con le sue politiche scellerate; perché sembra una valanga che trascina tutto a valle, o sabbie mobili che inghiottono la democrazia, la libertà, i diritti umani civili politici e sociali, l’idea di solidarietà e di umanità facendoci navigare non solo a ritroso verso una retrotopia (Bauman), ma verso una animalità ferina da stato di natura pre-contratto sociale, figlia di trent’anni di egoismo/egotismo neoliberale e di società della prestazione/competizione. Tutto però in nome del popolo sovrano, un popolo in realtà totalmente de-sovranizzato proprio dal populismo – molto più che dalle élite che dice di combattere. Non dimentichiamoci poi che in questi ultimi trent’anni le élite e le classi dirigenti che Baricco critica su Repubblica hanno fatto solo ciò che tecnica e neoliberalismo chiedevano loro di fare: cancellare la società (che non esiste e non deve esistere, come sintetizzava Margaret Thatcher, perché esistono solo gli individui); trasformarla in mercato e tecnica e in innovazione/disruption incessante; rimuovere la democrazia se necessario perché, come sosteneva il neoliberista von Hayek, meglio una dittatura favorevole al mercato che una democrazia contraria al mercato, un principio oggi aggiornabile in: meglio un populismo pro-mercato che una democrazia contraria al mercato. E quindi, se non deve esistere la società può essere invece utile creare il popolo per proseguire il neoliberalismo con altri mezzi. Detto altrimenti: il populismo potrebbe essere (è?) la risposta del sistema alla sua stessa crisi: dal contratto neoliberale Lega-M5S allo sfruttamento capitalistico dell’Amazzonia di Bolsonaro, alla ordoliberale legge sul lavoro di Orban. Creando cioè il tecno-capitalismo – è la sua grande abilità antropologica e psicologica [oltre che trasformistica] – i meccanismi di compensazione emotiva necessari a ristabilire un certo equilibrio psichico (i social, le community e infine i populismi digitali/politici) per far sentire meno soli quegli individui prima de-socializzati e poi incattiviti perché potessero essere più performanti/innovativi per accrescere sempre più la volontà di potenza richiesta dal sistema”.
Alla fine, chiudevo la mia riflessione con le parole di Capelli, rileggendole e facendole mie: “Che fare, come uscire dal populismo, «un fenomeno politico pervasivo quant’altri mai»? Ripartendo – scrive Capelli – dalla battaglia delle idee («antica e nobile funzione di cui sembra si siano perse le tracce»), perché senza idee è impossibile ricostruire un pensiero critico che possa poi tradursi in azione politica. Una critica capace – riappropriandoci della possibilità e della capacità di praticarla – di mettere a fuoco e di governare democraticamente e in termini di giustizia sociale e di solidarietà anche con le future generazioni alcune questioni-chiave: il riscaldamento climatico, frutto perverso di una ideologia della crescita illimitata e «di un Prometeo scatenato che ha rotto ogni argine»; le migrazioni; le disuguaglianze; la disoccupazione tecnologica.
Ma per questo, conclude Capelli, occorre imparare a pensare criticamente anche la democrazia e la libertà («svilita e impoverita dal neoliberalismo e dal postmodernismo»), «cambiando la scala delle priorità, ragionando su una nuova agenda». Recuperando – contro una trasformazione «trainata da automatismi che sembrano fuori controllo» – una visione umanistica del mondo: «Perché il futuro non ci rotoli addosso, ma si possa tornare a progettarlo e costruirlo»”.
E così chiudo tornando al tema dell’umano e della critica umanistica (e tale era anche la Teoria critica francofortese, novecentesca ma attualissima) al mondo della tecnica e del capitalismo.
Che fare?
M.F. In questa prospettiva l’alternativa di sinistra consisterebbe nella socializzazione del plusvalore documediale attraverso un rilancio della politica socialdemocratica, che offrisse alla sinistra una alternativa al ricorso all’etica, al moralismo e al biasimo che costituisce la principale attività delle sinistre nell’ultimo mezzo secolo.
Ciò che viene chiamato Kapitale e Neoliberismo è, banalmente, il progresso, che non va ostracizzato, ma compreso. Invece che sostenere che il lavoro come alienazione e fatica è ancora fra noi, che non è vero, la sinistra dovrebbe chiedere che venisse retribuito il lavoro come produzione di valore. Attirerebbe immediatamente più consensi e, quel che più conta, darebbe una prospettiva per l’avvenire. C’è una grande occasione storica non solo per la sinistra, ma anzitutto per l’umanità, il fatto che l’automazione renderà possibile l’estensione alla umanità intera della forma di vita idealizzata del mondo classico.
Ma principalmente si tratterà di trovare una alternativa alla politica, che nella sua forma democratica compiuta non può che sviluppare dei modelli di corto respiro. Non usare più la politica come riferimento, perché una volta affermatasi come democratica non può che essere una gestione del breve termine orientata a conservare (con strategie di destra) i benefici ottenuti dalla realizzazione del comunismo, ossia dalla socializzazione del plusvalore del capitale industriale attraverso la socialdemocrazia. L’alternativa alla politica va cercata nella valorizzazione dei corpi intermedi, intesi in senso ampio (comprese le fondazioni di origine bancaria, le assicurazioni, le associazioni culturali) che trovano la loro ragion d’essere in uno sguardo transgenerazionale.
Ora, è proprio su questo punto che noi, come intellettuali (dunque come figure poco influenti, tranne, quando va bene, sul piano della cultura e delle idee) dobbiamo darci maggiormente da fare, non per evocare spiriti trapassati dell’Alienazione, del Kapitale e della Classe Operaia, non per vedere nel nuovo il semplice ammodernamento del vecchio (questo lo sanno fare tutti, e fa più male che bene) Non basta criticare o (ed è lo stesso) interpretare, si tratta, una volta che si è interpretato e criticato bisogna ricostruire, e in particolare formare nuove categorie. Cosa che in coloro che oggi si appellano alla teoria critica o alla decostruzione non vedo troppo: c’è chi parla di capitalismo, come se fossimo ai tempi di Ford, e chi piange il crollo del comunismo senza prendere in esame l’ipotesi che il comunismo si sia realizzato, e che ci si debba chiedere che cosa fare dopo… I Romantici si lamentavano che in duemila anni l’Occidente non fosse riuscito a creare un nuovo dio, ed è una pretesa eccessiva; più modestamente, si potrebbe chiedere che in duecento anni si crei qualche nuovo concetto, invece che servirsi di uno strumentario fabbricato tra Kant e Marx.
Cambiamo radicalmente prospettiva, appunto con una rivoluzione copernicana. Marx è morto come succede a tutti, ma le sue idee si sono realizzate attraverso un processo storico complesso, che ha visto impegnati tanto i socialismi reali quanto le socialdemocrazie occidentali. Nel 1945 queste forze hanno messo fuori gioco l’unico antagonista, il fascismo, portatore di una visione antropologica incompatibile, e legata alla intrinseca inferiorità di certi umani rispetto agli altri. Poi, in conflitto tra loro, comunisti e socialdemocratici hanno creato uno l’economia di stato, che ha fallito, gli altri il welfare, che è riuscito, ma che rispondeva alle esigenze del marxismo (ne era una risposta e una versione) tanto quanto lo era il comunismo, E, in più, si è realizzato, assicurando al mondo un grado di benessere senza precedenti che si sta estendendo (e che solo per via di questa estensione può essere interpretato, alle nostre latitudini, come recessione: non siamo in crisi, semplicemente dobbiamo dividere i beni con parti di umanità sempre più grandi.
A noi comprendere la trasformazione, e guidarne i passi successivi, guardando in avanti invece che indietro.
L.D. Che fare? Riprendo alcune riflessioni dalle ultime pagine del mio La grande alienazione. Riflessioni che tuttavia – nonostante le nostre differenze – ci avvicinano molto, mettendo in campo una comune volontà di comprendere la trasformazione in atto, guardando in avanti: “Ed è dalla grande alienazione che occorre dunque uscire, come dal tecno-capitalismo che la produce. Insorgendo. O producendo uno scarto: quella figura di esplorazione che fa emergere un altro possibile, secondo François Jullien producendo non un ordine ma un disordine e facendo appunto uscire dalla norma e dall’ordinario – nel caso specifico, dalla normalità/normalizzazione distruttrice e irresponsabile del tecno-capitalismo – perché lo scarto genera una prospezione: scruta, sonda fino a che punto sia possibile aprire nuove strade, perché è una figura avventurosa e dinamica (ma, ovviamente, di un dinamismo umano e culturale, non tecnico o capitalistico). O facendo resistenza. E il resistente – ha scritto J.M. Esquirol – «non ambisce a dominare o a colonizzare, né desidera il potere; vuole anzitutto non perdere se stesso ma anche servire gli altri» e quindi resistenza e progetto (inteso come costruzione e libertà) non sono in opposizione, perché «hanno in comune l’affermazione del soggetto e l’idea di responsabilità»; e la «resistenza è condizione necessaria alla possibilità di un progetto, oltre che della speranza», perché «la memoria e l’immaginazione» intese come «fervore delle idee, oltre al sogno, sono fondamentali per il cambiamento e la vita». E per resistere e insorgere occorre recuperare in primo luogo il senso, la funzione, la bellezza delle parole; facendo sì che le parole e quindi il discorso, il pensare, il cercare, il sognare e l’immaginare (nello spazio privato e nello spazio pubblico – da recuperare e da rifondare) tornino a essere libertà, possibilità e capacità umane e quindi la via per entrare realmente in contatto – creando dialogo (ancora Jullien) – con se stessi e con quel Noi (gli altri, la biosfera, le generazioni future, le diversità culturali) senza il quale l’individuo è e resta appunto niente, producendo niente. Perché «comunicare non è solo rispondere a una mail o condividere un selfie, ma condividere se stessi con gli altri, trasformando la parola in un gesto di cura» (E. Borgna). Ma prima della cura – a sua premessa o diventando esso stesso la cura – serve un pensiero eretico e dissidente”.