I lavoratori newyorkesi hanno votato a favore del primo sindacato del colosso dell’ecommerce. Così Chris Smalls ha vinto la sua battaglia e fondato la prima Amazon Labour Union. La gig economy inizia ad entrare nel mercato del lavoro tradizionale.
Chris Smalls e la Amazon Labour Union
Chris Smalls è un trentaduenne afroamericano ex impiegato di Amazon: è stato licenziato in tronco nel marzo del 2020 per aver organizzato una protesta contro l’assenza di misure anti-Covid nel magazzino di Staten Island del colosso dell’ecommerce di Jeff Bezos, in un contesto che ha visto l’esplosione del fatturato della società.
Il 2 aprile 2022 scorso i lavoratori newyorkesi hanno votato a maggioranza sulla “nascita” della sigla sindacale: hanno vinto i favorevoli, 2.654. mentre erano contrari in 2.131 (su un totale di circa 8.000 dipendenti).
Ironia della sorte: l’impresa simbolo della gig economy ha visto la nascita del suo primo sindacato grazie ad una raccolta fondi online condotta tramite l’app GoFoundMe proprio per l’iniziativa di Chris Smalls a partire dall’aprile 2021.
Dopo un anno di campagna, Smalls ha vinto la sua battaglia.
Nello Stato dell’Alabama, invece, il risultato di un referendum analogo è sub iudice: avrebbero vinto i contrari, ma i favorevoli hanno contestato circa 400 voti.
Il fenomeno dell’aggregazione sindacale, che negli USA segue regole molto diverse da quelle italiane ed europee, si è molto esteso nell’epoca pandemica: anche Starbucks ha registrato la nascita della prima sigla sindacale dalla propria fondazione.
Condotte antisindacali di Amazon?
Le fonti giornalistiche riportano notizie di pressioni fatte sui dipendenti per evitare la fondazione dei sindacati; a queste “pressioni” fa riferimento chi ha impugnato il voto nello Stato dell’Alabama.
Non risultano commenti dell’owner di Amazon, Jeff Bezos che, però, in una lettera agli azionisti di alcuni mesi fa, faceva riferimento alla necessità di creare un ambiente adatto al successo dell’azienda e smentiva le critiche di chi rivendicava migliori condizioni lavorative e salariali.
Amazon comunque, in un comunicato ufficiale ha espresso la propria delusione per il voto di Staten Island e ha comunicato di voler valutare azioni legali contro il National Labor Relations Board, che ha condotto le elezioni.
Per Amazon e alcune associazioni di categoria, il National Labor Relations Board avrebbe fomentato i lavoratori contro l’azienda attraverso la denuncia e le relative azioni legali di infortuni sul lavoro.
Amazon, per parte sua, aveva gestito la campagna per il referendum in modo estremamente aggressivo.
Diciamo che, per la sensibilità italiana, condotte come inviare sms ai dipendenti per “scoraggiarli” alla sindacalizzazione e aver reso obbligatori incontri finalizzati alla campagna per il no al referendum per l’istituzione della sigla dei lavoratori sono comportamenti che verrebbero certamente cesurati sia in giudizio che in sede politica.
Implicazioni del primo sindacato big tech
Gli analisti statunitensi ritengono che difficilmente l’esito del voto newyorchese potrà essere esteso anche in altri stabilimenti: il tasso di iscrizione sindacale negli U.S.A. è molto più basso rispetto ai nostri canoni.
Se si aggiungono le “pressioni” di un datore di lavoro noto per essere poco tollerante verso gli elementi improduttivi, non è detto che le analisi non siano del tutto corrette.
Certo è che Amazon è l’impresa con più occupati negli States ed è anche un colosso della gig economy, e l’emblema dell’everything as a service.
Il voto del 2 aprile 2022 è certamente un precedente importante, sia perché apre una breccia in una società simbolo del nuovo capitalismo, sia perché segna l’inizio di una nuova sindacalizzazione negli States.
Tra le rivendicazioni sindacali ci sono un aumento salariale e maggior sicurezza sul lavoro: è auspicabile che riescano ad ottenere entrambi.
In Europa e in Italia, sindacati big tech
La situazione italiana ed europea è leggermente diversa: in attesa che dell’approvazione della Direttiva UE “rider” presentata il presentata il 9 dicembre 2021, sono le associazioni di categoria ad interloquire per i platform workers.
In una recente audizione alla Commissione lavoro della Camera dei deputati, la CGIL aveva richiesto un intervento normativo del Governo che anticipasse il contenuto della Direttiva, mentre la CISL aveva affermato di preferire la via della contrattazione collettiva.
La situazione italiana è comunque diversa da quella degli USA, perché i magazzinieri devono essere inquadrati come da contratto collettivo: solo i riders restavano fuori da ogni forma di tutela.
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Conclusioni
Giorno dopo giorno la gig economy si presenta sempre di più come capitalismo ottocentesco, cui si aggiunge una patina di digitalizzazione.
E’ evidente come le tutele minime dei lavoratori debbano essere garantite sempre e comunque, qualunque sia il datore di lavoro.
La via europea di individuare il soggetto contrente forte, ossia la Piattaforma, è certamente idonea a bilanciare gli interessi in gioco, offrendo una tutela giuridica idonea ai lavoratori.