Non solo Amazon e l’indagine dell’Antitrust Ue. Sulle big tech si sta preparando una tempesta perfetta di indagini delle autorità antitrust, in Europa, nei singoli Paesi membri e da parte della Commissione, e negli Usa.
Tutto lascia pensare che l’anno prossimo i nodi verranno al pettine.
Indagine Antitrust Ue su Amazon
A conclusione di un percorso investigativo iniziato già nel 2017, Margrethe Vestager, Commissaria europea alla concorrenza, ha annunciato con un comunicato ufficiale del 10 novembre l’avvio di un doppio procedimento di infrazione nei confronti del colosso dell’e-commerce Amazon.
Stando a quanto affermato dalla stessa Vestager, le contestazioni mosse alla società di Bezos riguarderebbero l’abuso di posizione dominante e le strategie poste in essere al fine di collocare, in modo maggiormente favorevole, i prodotti dei rivenditori che utilizzano il servizio di consegna Amazon.Occorre, preliminarmente, fare il punto sulla posizione attualmente ricoperta da Amazon all’interno del mercato digitale. Come noto, la società nasce con l’intento di rendere un servizio di commercio online facilmente accessibile ed estremamente eterogeneo (dai libri ai videogiochi, all’abbigliamento, al cibo o al mobilio), che permettesse al consumatore di ricevere il prodotto desiderato in breve tempo, a prezzi particolarmente vantaggiosi. Negli anni, tuttavia, Amazon è passata rapidamente dal ruolo di semplice intermediario (che metteva insieme fornitori, società di spedizioni e consumatori) al duplice ruolo di intermediario e fornitore di una propria linea di prodotti, a marchio Amazon Basics.
La sovrapposizione di tali ruoli ha comportato, nel tempo, stando a quanto affermato da Vestager, alla maturazione di una serie di fenomeni di abuso, resi possibili anche e soprattutto dalla riconosciuta posizione di forza nel mercato digitale. La Commissione Antitrust, infatti, pone in luce come Amazon abbia un doppio ruolo, come piattaforma di e-commerce, rispetto ad altre piattaforme concorrenti: in primis, funge da marketplace tramite cui i venditori indipendenti possono vendere direttamente agli utenti della piattaforma; in secondo luogo, nella sua qualità di retailer, vende i propri prodotti in competizione con gli stessi venditori indipendenti che fanno uso della stessa piattaforma. In qualità di service provider, infatti, Amazon avrebbe accesso ad una quantità e quantità di dati industriali e di mercato (come il numero di unità ordinate e spedite di un determinato prodotto, i ricavi delle vendite, il numero di utenti che visualizzano una determinata offerta, le performance dei rivenditori e i reclami sui prodotti) tali da alterare il normale gioco della concorrenza.
L’analisi di tali dati, i quali, normalmente, non dovrebbero essere noti alla concorrenza proprio per non alterare gli equilibri di mercato, consentirebbe ad Amazon di elaborare specifiche ed elaborate strategie di conquista del mercato al dettaglio digitale. Il fine ricercato sarebbe, quindi, non quello di ottimizzare i risultati delle ricerche per favorire i consumatori, privilegiando prodotti dal rapporto qualità-prezzo migliore, quanto quello di piazzare e pubblicizzare in modo strategico i propri prodotti, ovviamente a prezzi inferiori rispetto alla concorrenza: “We must ensure that dual role platforms with market power, such as Amazon, do not distort competition.”, afferma la Vestager, “Data on the activity of third party sellers should not be used to the benefit of Amazon when it acts as a competitor to these sellers. The conditions of competition on the Amazon platform must also be fair. Its rules should not artificially favour Amazon’s own retail offers or advantage the offers of retailers using Amazon’s logistics and delivery services. With e-commerce booming, and Amazon being the leading e-commerce platform, a fair and undistorted access to consumers online is important for all sellers”.
La scelta condizionata dell’utente
Procediamo alla disamina delle condotte poste in essere da Amazon che sono attualmente oggetto di censura da parte della Commissione Europea Antitrust. Tutto prende inizio, come anticipato, dallo studio, da parte dell’Autorità europea, delle clausole applicate ai venditori indipendenti di terze parti che decidevano di affidarsi alla celeberrima piattaforma digitale per vendere i propri prodotti. Ciò che è saltato immediatamente agli occhi dei commissari, una volta iniziata l’indagine, è stato il conflitto di interessi che caratterizzava l’intera piattaforma e lo sfruttamento dei dati ottenuti dai rivenditori al fine di influenzare la scelta dei propri utenti consumatori. Come anticipato, Amazon ha acquisito e consolidato negli anni un doppio ruolo: quello di gestore della piattaforma digitale e quello di venditore di prodotti della stessa tipologia dei propri sellers (appartenenti, peraltro, a categorie del tutto eterogenee: dal sacco della spazzatura al cavetto HDMI). Molti venditori hanno notato in prima persona come, una volta che un determinato prodotto diventa di particolare interesse all’interno delle ricerche e vende bene, Amazon introduca in maniera quasi automatica il proprio, a un prezzo più basso, collocandolo allo stesso tempo in modo preferenziale sia all’interno della piattaforma che nei risultati di ricerca. In sintesi:
- Amazon, individuato l’interesse dell’utenza all’acquisto di un determinato prodotto, provvede al posizionamento strategico, tramite la funzione “prodotti sponsorizzati”, del proprio prodotto concorrente, ad un prezzo simile o più basso;
- In secondo luogo, tramite l’utilizzo dell’algoritmo di ricerca, restituisce all’utente, quale miglior risultato, il prodotto dotato del bollino “Amazon’s Choice” (letteralmente, la scelta di Amazon), ossia il prodotto ritenuto di eccellenza dalla piattaforma, che, nella maggior parte dei casi, risulta anch’esso appartenente al brand proprietario Amazon Basics;
- Ma non basta: il prodotto a marchio Amazon comparirà ancora molte volte sia all’interno della prima pagina di ricerca, sia, nel caso in cui si decida di cliccare su un articolo concorrente, all’interno della sezione “Articoli simili”, rinvenibile subito sotto la descrizione del prodotto.
Ciò premesso, è chiaro, già ad un primo e poco approfondito approccio, quanto Amazon non possa essere e non debba essere considerata in alcun modo un territorio neutrale all’interno del quale tutti i venditori possano vantare gli stessi diritti. Secondo quanto emerso, inoltre, da indagini condotte anche a livello nazionale dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (o “AGCM”), Amazon avvantaggerebbe, nei propri motori di ricerca, i venditori che usufruiscono del servizio di logistica offerto dalla stessa. Il prodotto migliore, quindi, sarebbe esclusivamente quello che apporta maggiori benefici economici alla piattaforma e non, invece, quello dalla qualità maggiore, come dovrebbe essere all’interno di un sistema di selezione e ricerca basato sul merito.
Si tratta delle cosiddette condotte di “self-preferencing”, tramite cui Amazon, stando a quanto riportato da AGCM, “sarebbe in grado di sfruttare indebitamente la propria posizione dominante nel mercato dei servizi d’intermediazione sulle piattaforme per il commercio elettronico al fine di restringere significativamente la concorrenza nel mercato dei servizi di gestione del magazzino e di spedizione degli ordini per operatori di e-commerce (mercato dei servizi di logistica), nonché potenzialmente nel mercato dei servizi d’intermediazione sui marketplace, a danno dei consumatori finali!. Le stesse rimostranze erano state espresse dalla Commissione Europea già nel 2017, nell’analisi delle condizioni contrattuali applicate da Amazon agli editori o ai soggetti terzi che decidevano di pubblicare i propri e-books sulla piattaforma Kindle. Compito primario della Commissione UE oggi, quindi, è quello di capire e dimostrare quanto e come la competizione all’interno della piattaforma sia alterata dall’uso spregiudicato di algoritmi “discriminanti” e, conseguentemente, accertare l’esistenza di una situazione di abuso di potere dominante, nei confronti dei consumatori e dei venditori.
Il “Buy Box” e l’assegnazione del “Prime label”
Oggetto di specifica indagine da parte della Commissione sono le pratiche adottate da Amazon al fine di favorire, in modo artificioso, all’interno della piattaforma, i rivenditori che si affidano ai servizi di logistica e consegna forniti dalla stessa (da qualche tempo, infatti, Amazon ricopre il ruolo anche di società di consegna dei prodotti). In particolare, la Commissione intende comprendere quali sono i criteri adottati dalla società al fine di selezionare i vincitori del c.d. “Buy Box” e, conseguentemente, abilitare i rivenditori ad offrire i propri prodotti agli utenti Prime all’interno del programma di fedeltà di Amazon Prime.
Tale “Buy Box” consente sostanzialmente nella possibilità, per gli utenti, di aggiungere degli oggetti offerti da uno specifico rivenditore direttamente al carrello degli acquisti. Essere selezionati per il “Buy Box”, stando a quanto riportato dalla Commissione, sarebbe di cruciale importanza per i rivenditori terzi che usano la piattaforma, in quanto tale funzionalità genera, nella maggior parte dei casi, la quasi totalità dei ricavi connessi alla vendita di quel prodotto. Non solo: come anticipato, non sono pienamente chiare nemmeno le modalità tramite cui i rivenditori possono raggiungere gli utenti Prime. Conquistare la fiducia e l’attenzione di tali utenti, difatti, è di importanza assolutamente strategica, essendo gli stessi oggi sempre di più e generando, questi, molte più vendite rispetto agli utenti non Prime.
Antitrust e tolleranza zero verso le Big Tech
Amazon, tuttavia, non è la sola Big Tech ad essere finita nel mirino delle Autorità a garanzia della concorrenza e del mercato, sia nazionali che europee, anzi: il 2020 è stato proprio l’anno nel quale si è tenuto lo storico “processo” alle grandi società del digitale (qui ne abbiamo parlato in modo approfondito). A livello nazionale, inoltre, sono state numerosissime le prese di posizione da parte delle singole Autorità Garanti a livello globale, che hanno segnato una netta presa di posizione nei confronti dei colossi digitali.
Antitrust Ue su Facebook e Google
Ricordiamo la nota indagine Ue su Facebook e Google, in ordine alle modalità di raccolta, elaborazione, utilizzo e monetizzazione dei dati personali. E le tre sanzioni miliardarie a Google.
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Italia su Google
L’Antitrust italiano ha aperto un’inchiesta su denuncia di Iab, che accusa Google di condotte anti-concorrenziali. Motivo: Google non condivide più informazioni e asset con operatori terzi. Ma lo fa per adeguarsi al Gdpr. Il futuro della pubblicità online si giocherà sul filo di concorrenza e privacy
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Germania su Apple e Amazon
Il Bunderskartellamt del Ministero Federale dell’Economia e dell’Energia ha aperto un’indagine congiunta nei confronti di Apple e Amazon. Ciò che si contesta è la creazione, da parte delle due società, di un’intesa abusiva finalizzata ad impedire a soggetti terzi di vendere, sul marketplace di Amazon, prodotti a marchio Apple: in tal modo, l’unica “avente diritto” alla commercializzazione di prodotti Apple sulla nota piattaforma di e-commerce sarebbe Apple stessa. I rivenditori terzi sarebbero così drasticamente tagliati fuori da una notevole fetta di mercato. Tale strategia è nota come “brandgating”, da considerarsi del tutto illecita quando non abbia quale obiettivo la commercializzazione illegale di merci, ma esclusivamente quello di favorire, senza giusta ragione, un partner commerciale sopra gli altri;
Stati Uniti su Google
Negli Stati Uniti, anche Google si trova ad essere bersaglio di un’azione congiunta della Federal Trade Commission e dal Dipartimento di Giustizia, avente ad oggetto le modalità tramite le quali il colosso del web procede alla regolazione del mercato della pubblicità online (punto, questo, al vaglio anche dell’italiana AGCM) e colloca il proprio motore di ricerca. In relazione a quest’ultimo aspetto, in particolare, le Autorità contestano a Google l’uso di accordi di distribuzione lesivi della concorrenza, tramite i quali la stessa pagherebbe le altre compagnie milioni di dollari per preferire il suo motore di ricerca all’interno dei loro prodotti e delle ricerche web. I consumatori sarebbero così in qualche modo “costretti” ad accettare le condizioni e i termini stabiliti da Google, ivi incluse quelle riguardanti il delicato trattamento dei propri dati personali;
Stati Uniti su Big tech
Non sfuggono allo scrutinio delle Authorities nemmeno le pratiche scorrette di acquisizione massiva poste in essere, negli anni, da parte delle Big Tech, al preciso fine di conservare il proprio monopolio su determinate fette di mercato e servizi, eliminando la concorrenza alla radice, prima ancora che acquisisca dimensioni e rilevanza tali da poter divenire realmente competitive.
Nel 2020 la stessa FTC aveva annunciato l’inizio di una indagine nei confronti di Alphabet, Amazon, Apple, Facebook e Microsoft per le acquisizioni di start-up compiute negli ultimi 10 anni, accusandole non solo di violare le norme sulla concorrenza sulla base di un escamotage che non prevede l’obbligo di notificare alla FTC le acquisizioni al di sotto della soglia di 94 mln di dollari, ma, conseguentemente, di ridurre la qualità della sicurezza dei dati offerta ai consumatori. Le clausole dei contratti di assunzione del personale delle società acquisite, inoltre, vincolerebbero i dipendenti a tal punto da impedirne il passaggio a società rivali
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L’amministrazione Biden e le big tech, i dossier aperti
Il nuovo presidente come si porrà verso queste indagini? Non ci sono certezze, ma molti analisti ritengono che John Biden andrà avanti sullo scrutinio delle big tech.
I democratici, più dei repubblicani, si sono rivelati più attenti al problema del loro eccessivo potere, che secondo loro pone problemi al consumatore finale e agli equilibri sociali (vedi inchiesta recente del congresso Usa).
Molto improbabile però che attuerà cure radicali, del tipo lo “spezzatino” suggerito dalla democratica Elizabeth Warren in campagna elettorale. Un posizione molto sgradita all’ala moderata del partito, oltre che ai repubblicani; e che rischia di indebolire il peso degli Stati Uniti nella competizione globale (con la Cina soprattutto). Forse si limiterà a potenziare l’antitrust (Ftc), come da richiesta bipartisan del congresso con quel rapporto e a portare avanti le cause pendenti (vedi sopra contro Google, Facebook).
Improbabile anche che il presidente se ne occuperà subito. Nelle sue priorità dichiarate ci sono infatti il covid, la situazione economica, i cambiamenti climatici. Le questioni tecnologiche sono menzionate solo in merito alla necessità di estendere la banda larga e dispositivi informatici a zone e fasce svantaggiate del Paese (progetto de-finanziato da Donald Trump). La posizione più chiara di Biden, su questi temi, è a favore della revoca della Section 230 del decency act che de-responsabilizza legalmente gli intermediari.
Potrebbe cominciare da qui, insomma; tema caro anche ai repubblicani, anche se pure qui c’è chi lancia l’allarme temendo che ne verranno censure di Stato e limiti soprattutto alla nascita di nuovi attori social.
Un altro grosso fronte è la creazione della prima legge federale sulla privacy (come il Gdpr europeo), che pure – coordinato con l’Antitrust – limiterebbe molto il potere delle big tech basato sui data. Come vuole fare l’Europa con il Digital Services Act.
Non è finita: ai democratici (soprattutto alla sinistra di Bernie Sanders) sono cari i temi delle sperequazioni sociali e dei diritti dei lavoratori, quindi ci potrebbe essere un giro di vite sulla gig economy e sugli squilibri nei trattamenti economici all’interno delle aziende tech. Qualche giorno fa la California ha approvato la Proposition 22 che consente ad aziende simil-taxi come Lyft, Uber e di consegna cibo di continuare a trattare i lavoratori come collaboratori indipendenti, nonostante le proteste sindacali. Le aziende tech hanno vinto grazie a un mega investimento di lobby nella campagna per il voto. Ma un intervento Biden su scala nazionale potrebbe cambiare le carte.
Alessandro Longo
Conclusioni
Sebbene il risultato delle numerose indagini avviate dalle Autorità Antitrust possa vedersi solo nel corso di alcuni anni, essendo l’esito delle stesse vincolato all’espletamento di approfonditi studi e analisi che, necessariamente, richiedono il dispiego di innumerevoli risorse e tempo, non può non accogliersi favorevolmente il cambio di rotta intrapreso dalle Autorità nei confronti di società che, sinora, hanno esercitato il proprio predominio quasi senza alcun ostacolo.
Ciò non soltanto per le sanzioni che potranno conseguire alle indagini (le quali, peraltro, sinora non sono risultate particolarmente efficaci), ma soprattutto perché simbolo dell’intenzione, da parte dei Governi mondiali, di addivenire a una concreta regolamentazione del mercato digitale che, partendo dalla comprensione dei fenomeni di abuso sinora verificati, possa efficacemente prevenirli nel futuro.
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