psicologia

Ansie da coronavirus, nel digitale una (prima) soluzione

I disturbi mentali scatenati dall’isolamento coatto trovano una valvola di compensazione nell’utilizzo di strumenti tecnologici. Ecco come la pandemia farà da spinta all’acquisizione di digital skill da parte della popolazione

Pubblicato il 02 Apr 2020

Roberto Pozzetti

Psicoanalista, Professore a contratto LUDeS Campus Lugano, Professore a contratto Università dell'Insubria, autore del libro 'Bucare lo schermo. Psicoanalisi e oggetti digitali', già referente per la provincia di Como dell'Ordine degli Psicologi della Lombardia

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E’ il digitale l’antidoto principale a stati d’animo negativi, ansie e patologie mentali che l’azzeramento di rapporti sociali e affettivi può provocare. Vediamo come il Coronavirus sta delineando una diversa cultura digitale a partire dai nuovi panorami psicologici in via di definizione.

Coronavirus e attacchi di panico

Come clinico, dedico fra l’altro energie alla cura di esseri umani che soffrono di attacchi di panico. Si tratta di una quota parte niente affatto marginale della mia pratica quotidiana, da molti anni. Dopo alcune precedenti esperienze, quando ero ancora un giovane psicoterapeuta, sono divenuto consulente della LIDAP (Lega Italiana contro il Disturbo d’ansia, d’agorafobia e da Attacchi di Panico) nell’autunno del 2001; da tempo, sono membro del Comitato Scientifico di questa organizzazione radicata su buona parte del territorio nazionale. In questo contesto associativo e in altri ambiti istituzionali, ho maturato dunque una certa competenza nel settore.

Gli attacchi di panico costituiscono in effetti un importante problema clinico che ha conosciuto un’ampia diffusione a iniziare dagli anni Ottanta e che non accenna a estinguersi; è andato, per certi versi, a soppiantare nel linguaggio comune un termine molto in voga in precedenza quale “esaurimento nervoso” e a sovrapporsi, a volte impropriamente, a quello di ansia. Il panico fa in effetti parte della vasta famiglia dei disturbi ansiosi ma non coincide né con l’ansia né tantomeno con l’angoscia.

I professionisti della salute mentale tendono a trovarsi d’accordo nel considerare fenomeni specifici degli attacchi di panico una serie di disturbi corporei come difficoltà respiratorie con fame d’aria o sensazione di soffocamento, tremore, sudorazione, sensazioni di irrealtà con derealizzazione e depersonalizzazione, tachicardia con impressione di morte imminente e svenimenti. Questi fenomeni si presentano insieme, contemporaneamente, in un modo debordante la dimensione di un unico sintomo circoscritto; per questo, si parla del panico nelle specie di un vissuto di crisi più complessiva, di un generale attacco di panico. Viene operata una distinzione, che vale altrettanto per l’isteria, fra il sintomo e l’attacco: vi è l’isteria che si presenta nella forma del sintomo isterico localizzato in un preciso organo del corpo e l’isteria che appare con le stigmati dell’attacco isterico; analogamente, nel novero dei disturbi d’ansia, vi è il sintomo fobico strettamente correlato con un oggetto preciso e il più esteso e catastrofico attacco di panico.

A fianco ai disturbi citati poc’anzi, che sono dunque principalmente corporei, nei casi di attacchi di panico irrompono pensieri terrorizzati imperniati su tre tipi di intenso timore: la paura di morire, la paura di impazzire, la paura di perdere il controllo.

Anche un unico attacco di panico costituisce qualcosa di traumatico, un evento spartiacque, un episodio che segna una discontinuità nell’esistenza. Dopo un attacco di panico, si instaura la paura della paura, la paura di avere un altro attacco di panico, il panico di venire sommersi dal panico.

Il perché della paura: da Kierkegaard a Freud

Se la psicoanalisi si è sempre occupata dell’angoscia, argomento già trattato da filosofi come Kierkegaard che sollevava attraverso la singolarità dell’esperienza dell’angoscia una sorta di obiezione al sapere assoluto e alle categorie delle storie specifiche del maestro Hegel, più recente e più clinico è l’interesse per il panico. Freud distingueva la paura che ha un oggetto preciso di cui si ha timore, lo spavento nel trovarsi impreparati di fronte a un pericolo e l’angoscia come preparazione che protegge dallo spavento. Un attacco di panico è come uno spavento, come un fulmine a ciel sereno e ce ne accorgiamo oggi con l’impreparazione davanti alla pandemia di coronavirus.

Come avviene la guarigione dal panico? A volte grazie a un percorso analitico o psicoterapeutico, altre volte con il trattamento psicofarmacologico oppure spontaneamente cioè senza neppure indirizzarsi a un professionista della salute mentale, il panico tende a trasformarsi verso una fobia più localizzata e circoscritta. Gli attacchi di panico si stemperano e si mitigano attraverso la costruzione spontanea di fobie. Si va da un terrore senza nome, per citare un concetto dello psicoanalista inglese Bion, a paure di oggetti precisi e circoscritti. Dal momento che si constata un miglioramento nella direzione della sintomatologia fobica, va precisato che si riscontrano allora spesso tre tipi di fobie.

Le tre principali tipologie di fobie

La prima è l’agorafobia, ovvero letteralmente la paura della piazza, la paura di luoghi affollati (i cosiddetti non luoghi, come li ha chiamati l’antropologo parigino Marc Augé) quali i centri commerciali, i treni, le linee della metropolitana, le stazioni o gli aeroporti e dell’allontanarsi da una base sicura. Ci riferiamo dunque al concetto di base sicura, per dirla con concetti che John Bowlby ha tratto dall’analista ungherese Imre Hermann, studioso di quello che chiamava “aggrappamento”. Queste ricerche di Hermann si trovano pubblicate, sin dal 1943, nel volume “L’istinto filiale”. Tali elaborazioni giunsero infatti in Inghilterra anzitutto attraverso il contatto con l’analista Michael Balint il quale vi si trasferì da Budapest, portandovi alcune delle innovazioni della scuola ungherese di psicoanalisi.

La seconda forma di sintomatologia fobica si organizza sul versante claustrofobico con la paura di luoghi dai quali è impossibile allontanarsi, come aerei, metropolitane, treni, ascensori. Chi soffre di claustrofobia si trova marcatamente messo alla prova in un momento di restrizione degli spostamenti come quello attuale, dovuto al coronavirus. Avverte agitazione nel rimanere quasi continuamente in casa e cerca di trovare qualche escamotage per avere diritto a uscire, anche soltanto brevemente.

La terza via di evoluzione del panico sta nello sviluppare un’intensa ma comunque più circoscritta paura della solitudine ovvero di trovarsi da soli, in casa o in un viaggio. Rimanendo da soli in casa, come purtroppo capita per difendersi dal contagio virale, non di rado si inizia a vivere con allerta l’eventuale irruzione di ladri, si teme ogni sorta di rumore, si ha la fantasia che l’abitazione sia popolata di fantasmi o di strane e bizzarre presenze. Ancora per Freud, l’angoscia concerne il venir meno di legami libidici individuali mentre il panico riguarda un livello collettivo in cui ciascuno si preoccupa soltanto per sé in uno sbriciolarsi dei legami sociali.

Ricordo come il panico, per Freud, concerne proprio la cessazione dei “legami emotivi” quando “la paura è cresciuta al punto da porsi al di sopra di tutti i riguardi e di tutti i legami.” Allora “ognuno si preoccupa soltanto per sé medesimo senza tener conto degli altri”.

Più digital skill in era di isolamento

Come non accorgersi di quanto vi sia stato un generale upgrade delle competenze digitali da parte di chi si è trovato chiuso in casa per intere settimane, al fine di coltivare comunque i legami emotivi, i legami affettivi, i legami sentimentali? Persone che avevano scarsa dimestichezza con i dispositivi digitali si sono attivate nel pubblicare e visualizzare delle stories sui social così come nello svolgere videochiamate di coppia, con il gruppo familiare oppure con il gruppo di amici più cari.

Passiamo ora ad alcuni accenni relativi al metodo di trattamento degli stessi attacchi di panico. Le principali operazioni da compiere nella cura psicoanalitica di pazienti con anamnesi di panico, oltre a un eventuale invio dallo psichiatra per il trattamento farmacologico, sono tre.

Come trattare i sintomi da panico

La prima, già implicita in quanto scritto poco sopra, consiste nel sostenere lo sviluppo spontaneo delle fobie aiutando il paziente a capire dove avviene il panico, in quali luoghi e situazioni. Passare da un panico generalizzato e non localizzato a una fobia circoscritta si dimostra già un cambiamento che permette un enorme sollievo.

Una seconda azione sta nell’individuare la figura di uno o più accompagnatori, fra le persone care e di cui si fida, che possano affiancare il paziente negli ambiti critici; contesti claustrofobici o agorafobici divengono affrontabili se vi si viene accompagnati e ci si sente sostenuti dal partner, da un genitore, da un amico, dal figlio o figlia. Molte volte, la semplice disponibilità di un accompagnatore, anche attraverso la reperibilità sui social, rassicura e incoraggia nello svolgimento dei passaggi della vita di ogni giorno.

La terza e più intima operazione sta nel cogliere che gli attacchi di panico, anziché essere soltanto un disfunzionamento dell’organismo, rivelano qualcosa di significativo e di orientante per il soggetto. Se si ascolta un paziente e si lavora sulle libere associazioni relative al panico, emerge un’altra scena: la scena dell’inconscio. Affiora attraverso i disturbi ma anche attraverso le formazioni dell’inconscio (sogni, lapsus, fantasticherie, voci riconosciute come proprie a differenza delle allucinazioni che si caratterizzano per un misconoscimento tale da attribuirne l’origine a qualcun altro o a qualcos’altro) volte a indicare l’occasione di una ricostruzione della propria esistenza. L’inconscio è anzitutto il luogo di un desiderio a iniziare dal celebre concetto di Freud, scritto a chiare lettere nella sua “Interpretazione dei sogni”, del sogno come appagamento di un desiderio appunto inconscio.

Coronavirus: non angoscia ma fobia

L’effetto della pandemia di coronavirus non è l’angoscia perché l’angoscia è appunto individuale anziché collettiva e, soprattutto, correlata con il desiderio. E’ questa la tesi di Lacan: l’angoscia è primariamente un segnale del desiderio. Non c’è invece desiderio, neppure desiderio inconscio, nella paura di contrarre il Covid-19.

La paura relativa al coronavirus non ha le caratteristiche di una fobia ben precisa perché il virus è qualcosa di invisibile e difficilmente individuabili ne sono i portatori. Non a caso, vi era meno terrore quando, nel mese di febbraio, si credeva fosse un problema soltanto dei cinesi: era stato individuato il capro espiatorio nella figura dell’asiatico, simile in questo agli untori della peste descritta dal Manzoni. Da inizio marzo, non si sa chi ci potrebbe contagiare: un italiano, un runner, un giovane che ha molti contatti intimi, un uomo di colore, una donna dell’Est Europa, forse? La conseguenza, incitata dal ragionevole ma incalzante messaggio «Io resto a casa», è la paura dei contatti con gli altri o comunque dei luoghi affollati e, dunque, il ritiro sociale analogo a quello di chi vive forme estreme di attacchi di panico che lo conducono a rifugiarsi nella propria abitazione.

L’allarme percepito dai bambini

Uno degli elementi più toccanti dell’emergenza coronavirus sta nell’allarme che vivono i bambini. Lo stanno vivendo, più che per loro stessi, per i propri genitori, per i propri nonni, per le proprie baby sitter. Sono infatti sovente informati della scarsa contagiosità e della mortalità fortunatamente esigua fra i minorenni e dell’elevato rischio di contrarre perniciose polmoniti bilaterali nelle persone non più giovani.

Le cifre relative a quanto avvenuto in Cina sono molto nitide e ne hanno contezza i bambini stessi. La rivista scientifica Jama ha pubblicato un report, in data 24 febbraio, relativa alla situazione del virus sul territorio cinese alla data del giorno 11 febbraio. Sul totale dei contagiati – all’epoca del report circa 25 mila, al momento in cui scriviamo molte decine di migliaia in più – soltanto lo 0,6% concerne bambini fino a 10 anni e tutti questi bimbi cinesi hanno superato il virus, senza morirne né riportare esiti gravi. Non sono un virologo e mi mancano, dunque, i rudimenti per leggere e comprendere questo dato comunque confortante.

Fatto sta che moltissimi bambini sanno bene quanto gli adulti sono esposti al virus. Solitamente, gli adulti rimangono allertati per il propagarsi dei vari virus negli asili nido e nelle scuole; stavolta sembra piuttosto il contrario. Hanno avuto una diffusione appunto epidemica iniziative come quella denominata andràtuttobene basata sul far disegnare ai figli un arcobaleno e scrivere il suddetto hashtag oppure quella dell’accendere un lumino come espressione di un sostegno virtuale nei confronti di chi ha contratto il coronavirus e del personale ospedaliero che sta operando, qui in Lombardia, con molto impegno nella cura dei pazienti. Diversi amici e pazienti che lavorano in aziende ospedaliere lombarde mi hanno parlato della loro paura nello svolgere la propria professione a stretto contatto con questi malati, purtroppo con scarse protezioni e tutele.

Le dinamiche della paura secondo Freud

Mi pare che uno dei fattori critici dell’attuale pandemia sia proprio l’esposizione al rischio di coloro che dovrebbero curare e rassicurare: i bambini sono allertati per i propri genitori, i pazienti sono preoccupati per i propri medici, le mamme per i pediatri dei propri figli. In Lombardia, ormai chiunque ha almeno un proprio caro, adulto, ricoverato in ospedale per il coronavirus oppure posto in quarantena preventiva senza peraltro venire sottoposto a un tampone per accertare la patologia. Il vacillare dei punti di riferimento genitoriali e più estesamente adulti si dimostra predisponente l’insorgenza del panico come nell’esempio che portava Freud, nel testo “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” della caduta in battaglia del comandante in capo dell’esercito e del susseguente panico generalizzato che si va a propagare nelle truppe.

Come stanno dunque le persone con pregressa esperienza di attacchi di panico, dal punto di vista del loro equilibrio, dinanzi alla debordante contagiosità del Covid-19?

In generale, il problema non si è affatto dissolto. Il timore del coronavirus presenta molte fra le caratteristiche del timor panico: anzitutto, a differenza di un pericolo immediato e ben visibile, il virus non è un oggetto visibile e non si sa con certezza chi siano i portatori del virus stesso; inoltre, il terrore del coronavirus non è un fenomeno d’angoscia soggettivo e singolare ma costituisce un problema collettivo come è tipico del panico.

Rispetto alle tre tipologie di casi clinici, i soggetti con tratti agorafobici sono evidentemente quelli meno colpiti psicologicamente dalle conseguenze del coronavirus in quanto tendono a sentirsi a loro agio nella propria abitazione.

Come già scritto sopra, molto in difficoltà risultano invece i pazienti con marcata claustrofobia i quali stentano a tollerare le imposizioni e le restrizioni, soprattutto quelle che impediscono di andarsene da un ambiente soffocante. Dunque trovano spesso occasioni per sottrarsi alle normative restrittive ed escono di casa per svariati motivi che vanno da impegni di lavoro pur non improcrastinabili, da visite mediche non inderogabili al dedicarsi al podismo, magari senza essere mai stati dei runner, fino alla ormai celebre passeggiata per portare il cane a zonzo.

Digitale contro la solitudine

Chi soffre della paura di rimanere in condizioni di solitudine si trova parimenti alle prese con un momento di intensa inquietudine. Dover rimanere in casa da solo per molto tempo, per numerose ore al giorno, senza sapere con certezza quando tale fase di isolamento finirà espone a recrudescenze del panico. Non sono allora affatto rari gli episodi di instabilità umorale, con momenti di crollo emotivo e crisi di pianto.

La rivista scientifica The Lancet ha pubblicato in data 26 febbraio uno studio dell’Università londinese King’s College riguardo agli impatti psicologici delle quarantene attuate per contrastare la diffusione di Ebola e SARS in dieci nazioni, fra cui Canada, Senegal, Liberia e Cina. Una ventina di studi concordano sul riscontrare indici stressogeni soprattutto per chi soffre già di disturbi mentali, anche lievi. Un elemento sottolineato come altamente stressogeno concerne la mancanza di chiarezza della situazione. Questo dato concorda con l’esperienza che riportano diversi fra i pazienti che ricevo tuttora, a volte con videochiamate nella room di Whereby a proposito del non sapere quando la pandemia di coronavirus si affievolirà né quando le attuali misure restrittive verranno attenuate o sospese.

La grande impresa soggettiva sta nell’attraversare questo incontro con un evento inedito e così privo di senso senza farsi sconvolgere. Angoscia, inquietudine, noia o tristezza sono reazioni sane, purché rimangano a un livello gestibile.

Viviamo in una società liquida, nella quale la ricerca della singolarità e l’individualismo regnano sovrani. Un rischio relativo al coronavirus è di renderci ancora più soli, come monadi isolate. Per salvaguardare la nostra salute, dobbiamo astenerci dal socializzare. Niente strette di mano. Tutti siamo alla ricerca delle mascherine, introvabili, esaurite in ogni farmacia. Siamo nella società del “paradigma immunitario”, descritta da Roberto Esposito, in cui l’altro rischia di essere vissuto sempre più come minaccioso; prima era l’islamico o l’arabo a venire percepito come un potenziale terrorista, pochi mesi fa erano le persone di origine cinese a venire additate come pericolose, ora la caccia al capro espiatorio dilaga fino alla ricerca del cosiddetto “paziente zero” e l’untore può essere ovunque e chiunque.

Il digitale costituisce in questo momento sicuramente anzitutto una risorsa che ci permette di coltivare i legami affettivi e di avanzare a livello lavorativo ma anche un fattore invischiante quanto all’incessante ronzio di notizie circa il coronavirus rispetto alle quali risulta ardua la cernita fra notizie attendibili e fake news.

L’ansia da bombardamento di news

Stigmatizziamo quest’ultimo punto relativo all’essere costantemente connessi in cerca di notizie sul virus e su eventuali metodi di trattamento oppure alle frequenti notifiche ricevute sullo smartphone che presentano affinità con il bollettino di guerra o con gli aggiornamenti sugli attentati terroristici. Questo bombardamento di dati mette in uno stato di perenne allerta, di stress, di tensione nel quale si rimane frastornati dal susseguirsi di notizie inquietanti e non di rado persino contrastanti fra loro.

D’altro canto, il digitale offre degli spazi di distrazione fondamentali e ci aiuta a conservare dei legami in un momento di reclusione di fatto forzata dagli assillanti Decreti, dalle ordinanze così come dai posti di blocco attivati dalle Forze dell’Ordine in nome del sommo bene comune.

Attraverso il digitale, molti hanno modo di coltivare contatti con i loro partner, diversi nonni videochiamano i loro nipotini, molte famiglie attenuano la sofferenza intrinseca alla separazione, gli adolescenti si riuniscono per cimentarsi con i videogiochi, i ventenni svolgono aperitivi virtuali, i colleghi proseguono nelle proprie attività con lo smartworking e le conference call, le lezioni scolastiche si svolgono su Google Hangouts Meet o Classroom, o su Vimeo, i convegni si effettuano con i meeting su Webinair.

Il panico, già nella lettura che ne dava Freud, ha questa caratteristica dell’irrompere nel momento in cui si dissolvono i legami affettivi, i legami libidici che tengono unito un collettivo. Quando vengono meno i punti di riferimento, si scatena una paura irragionevole, ciascuno viene colto dal timor panico e ritira su di sé tutto l’investimento affettivo, tutto lo slancio libidico preoccupandosi soltanto per se stesso e per la propria mera sopravvivenza. Senza la libido, senza qualcosa del desiderio, l’essere umano si trova gravato dall’onere dell’inquietudine, schiacciato dall’agitazione, smarrito, spaesato, spaventato, terrorizzato; in breve, in assenza di legami, viene colto dal panico.

Non a caso, il trattamento del panico nei gruppi di auto-aiuto, costruiti sul modello del self-help Alcolisti Anonimi, si dimostra spesso efficace. Ho avuto occasione di apprenderlo anzitutto grazie alla suddetta pratica professionale come consulente della LIDAP; quest’esperienza mi ha permesso di accorgermi di quanto fossero diffusi e non senza efficacia i forum su Internet volti a creare una comunità virtuale di esseri umani affetti dal panico, ben prima della diffusione di social network come Facebook.

Non è forse proprio per questo motivo che una delle reazioni più spontanee dinanzi alla pandemia di coronavirus è stata quella di una solidarietà generalizzata, diffusa sul web, nel tentativo di ricreare un’umanità senza apparenti divisioni? Si abbattono le differenze di credo religioso, non è affatto in voga la bagarre fra i vari partiti in nome di una coesione bipartisan, si accolgono con entusiasmo medici provenienti da sistemi socio-economici diversi come quello cinese o cubano oppure ancora venezuelano, si stemperano le rivalità fra tifoserie calcistiche.

Ritrovare il senso della collettività

Tutto questo in nome di una ritrovata unità collettiva che è proprio volta a ergere un baluardo tanto rassicurante quanto illusoriamente ottimistico nei confronti di un nemico invisibile, impalpabile come il coronavirus. Presumibilmente, appena la pandemia finirà, questo clima di collaborazione si dissolverà, i conflitti esploderanno ancora e ciascuno si chiuderà di nuovo nel proprio guscio ristretto.

In questa circostanza, ci si accorge di quanto la virulenza del Covid-19 non sia superiore a quella dei progressivi smantellamenti compiuti nei confronti della sanità pubblica in Italia e di quanto vi sia l’esigenza di un ancoraggio stabile da reperire nelle istituzioni socio-sanitarie e nel personale medico-infermieristico dei nostri ospedali. Un appello accorato si leva verso le istituzioni secolari. Si riscopre la preghiera e la fede religiosa. Il panico da coronavirus porta a riconoscere come eroi i clinici delle istituzioni pubbliche impegnati a curare i malati a costo di rischiare essi stessi il contagio e di sfidare le proprie umane paure.

L’attacco di panico è correlato con l’attacco al legame, con la dissoluzione dei legami. Il virus, in tutta la sua perniciosa trasmissibilità, si presta ampiamente ad attaccare ogni legame. Una carezza, un contatto delle mani, un bacio, un abbraccio per non parlare di un’intimità erotica sono fattori di rischio. Non ci si può fidare a dare una carezza ai propri figli per timore di contagiarli, i nonni non hanno occasione di stringere fra le braccia i nipotini per il terrore di contrarre da loro un virus che potrebbe risultare esiziale per persone anziani, i giovani fidanzati devono rinunciare ai baci appassionati e ai momenti intensi nei quali i loro corpi erano avvinghiati, marito e moglie si trovano a vivere l’intimità come fossero dei morigerati educandi.

Le interazioni umane si prosciugano e divengono asettiche. Le relazioni perdono di calore e si riducono all’indispensabile. Ognuno si focalizza sul proprio corpo e sui segnali di incipiente malattia che questo sembra lanciare. Un colpo di tosse diviene il segnale di un’incipiente polmonite interstiziale, uno starnuto l’indice di un attacco febbrile dovuto al virus, una lieve nausea una reazione del corpo volta a respingere il Covid-19.

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