Virtual & Augmented reality

Arte digitale, l’immersività reinventa la spettacolarizzazione culturale

Le nuove applicazioni di immersività, pesante e leggera, aprono nuovi scenari di spettacolarizzazione che generano importanti ricadute economiche per il mondo dell’arte e della cultura. Come orientarsi in questo panorama, nell’era dell’Immersive Art Experience

Pubblicato il 10 Gen 2022

Giulio Lughi

Consulente in media digitali, già professore nell'Università di Torino

teamlab

L’immersività applicata all’arte e ai prodotti culturali sta suscitando grande interesse non solo nel pubblico generalista, ma anche negli ambienti specialistici. I tradizionali campi del cinema e dell’arte si trovano ad affrontare la concorrenza di un’ampia galassia di applicazioni: Virtual Reality, Augmented Reality, Mixed Reality, Extended Reality, Enhanced Reality, Hybrid Reality, 3D Graphics, 360° Photo/Video, Real Time Experience, Immersive Experience eccetera.

Le nuove applicazioni immersive aprono nuovi scenari di spettacolarizzazione che generano importanti ricadute economiche. Ecco come orientarsi in questo variegato panorama, dove l’intento è realizzare l’Opera totale in grado di coinvolgere tutti i cinque sensi, mentre nuove forme di spettacolarizzazione si stanno facendo largo sul mercato.

Opera totale e reincanto tecnologico

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Arte e cultura oltre la realtà virtuale

Finora il settore ha puntato l’attenzione soprattutto sulla Virtual Reality (VR), ma recentemente si sta facendo largo il settore delle Immersive Art Experience, che propone un tipo di esperienza digitale completamente diversa. Proveremo ad individuare un criterio molto semplice, ma anche molto efficace, per valutare i due campi: la distinzione fra immersività pesante e immersività leggera.

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Immersività pesante e leggera

Il campo dell’immersività è caratterizzato da una sterminata varietà di applicazioni, spesso indistinguibili tra loro se non per il gusto di moltiplicare le etichette o per la necessità delle aziende di individuare e sedurre nuovi segmenti di mercato.

Per mettere ordine in questo variegato settore è invece opportuno individuare dei criteri semplici ma efficaci, che mirino a spiegare non tanto le specifiche di particolari soluzioni tecnologiche, quanto piuttosto l’impatto sull’utente, sulla sua capacità di fruire esteticamente dello spettacolo digitale, sulla effettiva possibilità che possa “portare a casa qualcosa” in termini di esperienza emozionale e culturale, nonché sulla redditività dei diversi formati.

In questa prospettiva, mi sembra un buon criterio distinguere la immersività “pesante” dalla immersività “leggera”:

  • nella prima, il corpo è appesantito da apparati tecnologici come visori, guanti, sensori eccetera come nella Virtual Reality;
  • nella seconda, il corpo è invece libero di muoversi nell’ambiente mediato, come nelle Immersive Art Experience.

Una distinzione importante che marca la differenza fra un approccio tecnologico, in cui l’attenzione è focalizzata solo sulle apparecchiature e sul software, e un approccio socio-culturale, in cui l’attenzione è focalizzata sulla effettiva fruizione del prodotto culturale.

L’immersività “pesante” e quella “leggera” rispondono a due interrogativi: cosa vuole lo spettatore digitale? Ingabbiarsi dentro apparecchiature invasive, o muoversi liberamente per assaporare il piacere dell’esperienza estetica?

Dalle riflessioni sulla cultura digitale, emerge il tema della “tecnologia trasparente all’utente”. Dalle prime farraginose interfacce con schermi a fosfori verdi e righe di comando, lo sviluppo della civiltà dei computer ha sempre puntato sulla possibilità di offrire all’utente un’esperienza il più possibile “naturale”, fino alla geniale teorizzazione di Donald Norman [1]: “La tecnologia migliore è quella che non si vede, perché è tanto semplice da usare da diventare ‘trasparente’. Il computer, invece, è ancora intrusivo, frustrante, fin troppo visibile ed esigente: si tratta ancora di un oggetto progettato da tecnologi per tecnologi. Le cose non devono per forza andare così, ma bisogna ripartire da zero, iniziare con gli apparecchi più semplici, centrati sugli esseri umani, dove la tecnologia informatica scompare dietro le quinte per lasciare spazio ad apparecchi adatti a compiti specifici e in grado di conservare tutta la potenza necessaria senza eccessi di complessità”.

Ma possiamo risalire ancora più indietro: la contrapposizione fra leggero e pesante è infatti presente lungo tutta la storia dei media.

Immersività nella settima arte: il cinema

Risaliamo alla nascita del cinema. Da una parte abbiamo il cinema ipotizzato da Edison, che obbligava lo spettatore a chinarsi sopra una specie di scatolone munito di visore, il kinetoscopio; dall’altra il cinema dei fratelli Wright, in cui lo spettatore è comodamente seduto in sala assiste allo spettacolo.

Nel settore dei videogiochi, si è passati dall’esperienza delle Arcades, locali pieni di apparecchiature che obbligano il giocatore a rimanere attaccato alla macchina, alle recenti modalità di gioco dei pervasive games (come ad esempio Ingress o Pokémon Go).

Nel campo stesso dell’arte, accanto all’esperienza vincolante dell’osservare il quadro alla parete del museo, si passa alle forme libere delle installazioni performative site specific. E ancora, più in generale, tutto il mondo del digitale sta transitando dall’esperienza vincolante del desktop stand alone, a quella libera e dinamica del mobile-locative.

Se consideriamo questa linea di tendenza, le tecnologie invasive sembrano dunque perdere terreno nella loro capacità di entrare nella vita delle persone, di modificare effettivamente le nostre abitudini di intrattenimento, crescita culturale e piacere estetico:

  • sono caduti nel dimenticatoio gli occhialini polarizzati che pochi anni fa sembravano dover
    inaugurare l’epoca del cosiddetto cinema 3D;
  • è ancora vivo il ricordo del fallimento dei Google Glasses, nonostante non manchino i tentativi di ritentare l’avventura, da Snapchat, a Rayban Facebook Stories  al continuo rinvio da parte di Apple del lancio dei suoi visori.

Resta la Virtual Reality: è davvero la frontiera futura dello spettacolo e dell’immagine digitale? O dobbiamo aspettarci anche qui un ridimensionamento?

Immersività pesante: la Virtual Reality

Innanzitutto, bisogna ricordare che la Virtual Reality non è una killer application degli ultimi anni, ma nasce – in forme praticamente identiche a quelle di oggi: casco, guanti, sensori eccetera negli anni Novanta del Novecento, come testimonia una esauriente bibliografia sia tecno-sociale [2] sia filosofica [3].

Da allora la tecnologia del virtuale immersivo ha fatto passi da gigante, soprattutto per quanto riguarda la fluidità del movimento e la definizione delle immagini: non si è avverata, invece, la profezia che la Virtual Reality si sarebbe impadronita di tutto il campo dello spettacolo visuale, e soprattutto del cinema. Profezia che ha accompagnato tutte le fasi di entusiasmo-depressione (almeno tre) che hanno caratterizzato lo sviluppo di questa tecnologia negli ultimi trent’anni, sempre sulla spinta della necessità dei grandi player dell’elettronica di consumo e dei media digitali di ampliare il proprio business vendendo hardware oltre che software.

I mondi virtuali hanno sempre scatenato le fantasie futuristiche più azzardate, e ciclicamente riappaiono sulla scena dei media per svanire poco dopo. Come scrivevo già nel 2010 a proposito di Second Life, il mondo virtuale che aveva suscitato aspettative fantascientifiche molto simili a quelle che oggi accompagnano il Metaverso di Mark Zuckerberg: “Sta accadendo ciò che è accaduto a suo tempo con la Virtual Reality immersiva, quella basata su caschi dotati di schermo interno (head-mounted display) guanti con sensori di posizione (data gloves), sistemi per gestire il ritorno di forza, ecc. Uno scenario che nei primi anni ’90 del Novecento sembrava destinato a sostituire il cinema ed altri territori dello spettacolo e della cultura, ma che di fatto non ha mai occupato quello spazio generalista che le era stato vaticinato allora, ritirandosi invece in territori specialistici di nicchia, come l’addestramento di piloti di macchine complesse (aerei, carri armati, ecc.), di chirurghi in sala operatoria, di sminatori e artificieri […]”.

Un’analisi confermata oggi, nel 2021, anche da due tra i maggiori esperti in questo settore, Simone Arcagni e Adriano d’Aloia: “[…] oggi siamo di fronte ad un fatto incontrovertibile: nonostante le previsioni fatte alcuni anni fa da parte di ambienti sia produttivi sia tecnologici, i dispositivi di Realtà Virtuale non hanno fatto breccia nel mercato; non c’è stata l’auspicata diffusione di sale dedicate alla Realtà Virtuale, lasciando così sguarnito un mercato che pure sarebbe in grado di produrre e distribuire contenuti.
La Realtà Virtuale come medium di intrattenimento non sta avendo successo (neanche nel più dinamico settore del gaming). Per contro, […] gioca un ruolo decisivo nella creazione degli ambienti immersivi e interattivi di prossima generazione che sono stati sviluppati in diversi settori industriali (dall’industria automobilistica all’aeronautica), nei contesti di simulazione (utilizzi militari, medici, chirurgici, scientifici) […]” [2].

Se poi pensiamo alle applicazioni della Virtual Reality in campo artistico e culturale, è chiaro che si tratta di un settore che non dispone dei budget necessari per sviluppare – se non per gusto pionieristico, o per seguire la moda – costosi progetti di Virtual Reality. Ma accanto alle ragioni economiche ci sono motivazioni sociologiche e culturali, in quanto proprio la “pesantezza” dei visori e di altri dispositivi invasivi risulta penalizzante rispetto alla “leggerezza” e libertà di movimento richieste dall’esperienza estetica.

È per questo motivo che nel settore artistico e culturale si stanno sperimentando soprattutto quelle forme miste (Augmented Reality, Mixed Reality, Extended Reality, Enhanced Reality, Hybrid Reality eccetera) che diluiscono l’impatto “pesante” della Virtual Reality aprendosi a modalità di fruizione immersive e tridimensionali più vicine all’esperienza “leggera” dell’utente.

Se si prova a lanciare la stringa “VR failure” sul motore di ricerca di Google si ottengono centonovanta milioni di voci: un chiaro segnale della distanza fra il polso dell’utenza di base e i proclami entusiastici dei fornitori di tecnologia o dei media non specializzati. Ciò nonostante, il fascino dei visori e dei dispositivi invasivi è ancora molto forte a livello istituzionale, come si può vedere dalle iniziative della Biennale di Venezia, del MEET – Digital Culture Center, del MIAT – Multiverse Institute for Arts and Technology.

Ma nonostante queste importanti presenze, la Virtual Reality non esaurisce il campo dell’immersività: infatti, nuove forme di spettacolarizzazione si stanno affacciando sul mercato.

Immersività leggera: le Immersive Art Experience

Si è svolto a Lucca agli inizi di ottobre, nell’ambito di LuBeC 2021, il “primo meeting internazionale sull’immersività: arte, tecnologia, comunicazione”, un convegno denso e articolato sul tema la cui caratteristica peculiare è stata di sganciarsi dalla preminenza della Virtual Reality per considerare invece le diverse forme di immersività nei loro aspetti specifici, e in funzione delle loro diverse finalità comunicative. In particolare è stato dedicato ampio spazio alle Immersive Art Experience, una forma di spettacolo digitale che sta incontrando grande successo a livello internazionale.

Le Immersive Art Experience nascono come evoluzione del videomapping, la proiezione notturna su facciate di edifici, di solito storici o di rilevante interesse architettonico, di immagini dinamiche luminose che giocano con gli elementi strutturali degli edifici (finestre, frontoni, modanature eccetera).

Le Immersive Art Experience sono il trasferimento del videomapping in ambienti chiusi, organizzate in ampi locali (spesso post-industriali) dove pareti, soffitti e pavimenti diventano schermi per proiezioni a grande scala di immagini e video con accompagnamento musicale surround. Sono allestimenti spettacolari con largo impiego di effetti digitali multimediali, a volte interattivi, tematizzati principalmente su nomi di artisti di grande richiamo, blockbuster del turismo e del merchandising artistico (Caravaggio, Klimt, Modigliani, Monet, Van Gogh eccetera).

Inizialmente, a partire dagli anni Dieci, le Experience venivano organizzate soprattutto in ambienti museali, e quindi dovevano essere adattate all’edificio scelto. La parte progettuale ed artistica era condotta da team locali, con tecnologie proprie oppure veniva fornita da grandi soggetti industriali in grado di fornire know-how, organizzazione e tecnologia per mostre “chiavi in mano”, come l’australiana Grande Experience, o la belga Exibition Hub, o l’italiana The Fake Factory, specializzate nella produzione e diffusione di mostre multimediali e multi-sensoriali.

Verso la fine del decennio, invece, sono sorte delle vere e proprie istituzioni stabili dedicate a queste forme spettacolari. A Parigi nel 2018 è stato inaugurato l’Atelier des Lumières, una sede fissa dove possono essere proiettate Experience diverse, una sorta di post-cinema multitasking e multidimensionale, percorribile e senza sedili, in cui tutte le superfici, soffitto e pavimento compresi, possono essere inondati di immagini e video con accompagnamento musicale.

L’Atelier fa capo a Culturespaces Digital, organizzazione che ha fondato successivamente altri centri d’arte digitale a Bordeaux, Baux-de-Provence, New York, Amsterdam, Dubai, Jeju in Corea del Sud.

La tendenza ad allestire sedi stabili per le Art Experience sembra oggi dominante, tanto è vero che anche Grande Experience si è mossa in questa direzione, mentre in Italia è in allestimento Immersiva Livorno, il primo centro espositivo multisensoriale italiano.

Non solo spettacolarizzazione di opere note

Le Experience viste finora spettacolarizzano opere di grandi maestri del patrimonio culturale classico, ed hanno quindi – oltre a quello estetico-emozionale – un intento formativo-documentale; accanto a queste, si sviluppano iniziative che utilizzando le stesse tecnologie puntano invece allo sviluppo di opere creative originali.

È il caso di teamLab, progetto giapponese che propone autorialmente un’esperienza visiva globale, con evidenti contaminazioni con la dimensione ludica dei parchi a tema e di divertimento. Ha sede a Tokyo, dove ha fondato il primo museo digitale, ma ha esportato le sue attività a Parigi, Torino, Helsinki, New York e in tutte le parti del mondo, sia con mostre temporanee sia con sedi permanenti; le sue opere sono esposte in quasi tutti i maggiori musei di arte contemporanea, e sono proposte sul mercato da gallerie
specializzate.

L’esperienza offerta da teamLab è immersiva e coinvolgente anche sul piano sociale e
comportamentale
: nelle sue installazioni famiglie intere si sdraiano a terra per farsi percorrere dai flussi luminosi; i bambini colorano disegni che vengono immediatamente digitalizzati e appaiono in movimento sulle pareti degli scivoli dove i bambini stessi giocano; si è avvolti da antiche pitture giapponesi, si entra in stanze di specchi con proiezioni di figure evanescenti: una sorta di luna-park emozionale sganciato da qualsiasi finalità didattica, cognitiva, interpretativa e finalizzato esclusivamente all’esperienza estetica-emozionale.

Impatto economico e turistico dell’immersività nell’arte

Grande Experience ha prodotto finora 215 mostre in 32 lingue in 165 città, per un totale di oltre 20 milioni di spettatori. Exibition Hub si attesta su 90 mostre in 56 città per oltre 10 milioni di spettatori. Culturespaces ha 14 sedi, 5 milioni di visitatori, 400 collaboratori. Di teamLab abbiamo solo dati parziali, ma probabilmente i volumi complessivi sono ancora superiori.

Se consideriamo che il biglietto d’ingresso per queste mostre si aggira intorno ai 20 euro di media, è facile valutare l’impatto economico di queste imprese, che tra l’altro danno lavoro a centinaia di persone superspecializzate.

Non solo. Accanto all’iniziativa privata si sta muovendo anche la mano pubblica. Agli inizi del 2021 la Réunion des Musées Nationaux et du Grand Palais, società pubblica francese con finalità industriale e commerciale e autonomia di spesa, ha annunciato il suo ingresso nel settore della produzione e diffusione di mostre immersive. La RMN-Grand Palais gestisce oggi 34 tra i più importanti musei francesi, tra cui il Louvre, e quindi la sua iniziativa sancisce in modo autorevole l’importanza culturale, turistica e
commerciale delle Immersive Art Experience.

Tra l’altro assume particolare rilevanza il fatto che si attribuisca al Grand Palais, una delle più prestigiose sedi espositive di Parigi, il ruolo pilota in questa sperimentazione, in quanto si tratta di una struttura permanente, fortemente connessa con il contesto turistico-culturale parigino e con le sue istituzioni. Evidentemente un investimento a lungo termine in previsione di una sempre maggiore diffusione, anche turistica e commerciale, di queste modalità di fruizione spettacolare.

Conclusioni

Se torniamo all’opposizione fra immersività pesante e leggera appare chiaro che le sale dedicate alla Virtual Reality, con i loro visori invasivi, assomigliano irrimediabilmente ai kinetoscopi sviluppati da Edison; mentre le Immersive Art Experience appaiono come le nuove sale cinematografiche allestite dai fratelli Wright: e sappiamo bene quale sia stato il modello di cinema vincente, dal punto di vista tanto commerciale quanto culturale.

In questa prospettiva, la Virtual Reality è probabilmente destinata a dare i suoi frutti migliori in ambito sperimentale, da laboratorio, dove sono indubbie le sue opportunità innovative per l’elaborazione di nuovi linguaggi espressivi e per le riflessioni filosofiche sul piano estetico e percettivo. Una funzione di medium di nicchia, che però difficilmente può ambire allo status di medium di massa quale potrebbero diventare in futuro le Immersive Art Experience.

Inoltre va detto che le Immersive Art Experience possono essere ricondotte a un concetto che percorre tutta la nostra storia culturale, dall’antichità classica a Richard Wagner e alle avanguardie storiche del Novecento: il concetto di Opera Totale, con il quale si indica un’opera d’arte in grado di coinvolgere tutti i nostri sensi, la vista, l’udito, il tatto, l’olfatto, al limite anche il gusto.

Nel mio intervento a LuBeC 2021, ho cercato di inquadrare il fenomeno nella sua prospettiva di lungo periodo, mostrando come il concetto di Opera totale possa essere applicato perfettamente alle più recenti esperienze immersive leggere.

Siamo comunque di fronte a fenomeni in fase di definizione, sperimentazioni tecnologiche che cercano il loro posizionamento sullo scenario dell’intrattenimento e della fruizione culturale. Come il cinema dei primordi si è liberato dalla dimensione sperimentale, ed è uscito dai baracconi e dai tendoni del circo per elaborare una sua autonoma capacità espressiva, così oggi il vasto campo dell’immersività sta cercando la sua strada per collocarsi nello scenario della spettacolarizzazione digitale.

Virtual Reality e Immersive Art Experience, immersività pesante e leggera, vanno considerate – nelle loro somiglianze e differenze – come tendenze sperimentali destinate a trovare ciascuna il loro posizionamento funzionale nell’universo contemporaneo della comunicazione.

Note

  1. Donald Norman, Il computer invisibile, 2000.
  2. M. Benedikt, Cyberspace: i primi passi nella realtà virtuale, 1992.
  3. T. Maldonado, Reale e virtuale, 1992.
  4. La traduzione è dell’autore dell’articolo.

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