A seguito delle rituali fasi di accertamento, sono stati emessi i primi provvedimenti restrittivi nei confronti dei rivoltosi che hanno assediato il Campidoglio degli Stati Uniti d’America circa un anno fa: la “pistola fumante” che ha permesso di risalire alla loro identità è rappresentata dai post pubblicati sui social, come un “trofeo” a testimonianza della partecipazione agli eventi. Lo stesso strumento avrebbe forse potuto essere usato meglio nella fase di prevenzione dei fatti di quella tragica giornata – preannunciati da diverso tempo prima – e per arginare l’estremismo che ne è stato alla base.
Social e politica, nel silenzio delle leggi il caos sta vincendo
I fatti
È passato poco più di un anno dalla protesta organizzata dei sostenitori di Trump, attirati dall’ideologia di estrema destra in grado di polarizzare la diffusione di affermazioni complottistiche fatte circolare sull’ingiusta sconfitta di Trump, già alla luce dei primi risultati forniti dal sistema di certificazione dei voti elettorali da parte del Congresso.
Come fatto inedito nella storia politica degli USA – tradizionalmente considerati emblema della democrazia moderna – i rivoltosi, infatti, al grido “Save America Rally”, sono riusciti a paralizzare il funzionamento del Congresso nel cuore apicale della sua sede istituzionale, determinando un imprevedibile caos che ha richiesto, anche mediante l’ausilio della forza armata, l’immediata attivazione di operazioni di sicurezza al massimo livello di allerta a presidio di “bersagli” sensibili, potenzialmente aggrediti dai fautori della protesta.
Le frequenti manifestazioni pro-Trump organizzate per protestare contro il risultato elettorale sono sfociate nella rivolta finale come epilogo inevitabile di un clima politico aspro che sarebbe prevedibilmente degenerato in una qualche forma di violenza concreta, alla luce dei numerosi riscontri da tempo circolanti tra i posti pubblicati sui social media pro-Trump prima della manifestazione.
La risposta di Facebook e la risposta istituzionale
Nell’immediatezza dei fatti, soltanto Facebook, agendo tempestivamente, aveva già disposto “in tronco” la sospensione di Trump dalla piattaforma proprio a seguito dei noti fatti di violenza collegati alla comunicazione aggressiva dell’ex Presidente nel fomentare le reazioni di protesta dei suoi sostenitori, generando un inedito “contenzioso” social sottoposto anche al sindacato dell’Oversight Board, istituita da Zuckerberg come “Corte Suprema” con il compito di valutare, in sede di reclamo, la “legittimità” dei provvedimenti di cancellazione disposti dal social network.
La risposta “istituzionale” ai gravi fatti accaduti, pur con colpevole ritardo, comincia ora a materializzarsi (grazie al supporto “involontario” dei colossi del web), determinando l’avvio delle prime indagini nell’ambito di un iter processuale ancora lungo e dai risvolti imprevedibili, senza peraltro escludere possibili “colpi di scena”: non solo diverse persone sono già state formalmente accusate di crimini legati alla rivolta, ma sembra addirittura emergere anche un possibile coinvolgimento – attualmente al vaglio degli investigatori – della polizia del Campidoglio, che, per motivi ancora poco chiari da accertare, potrebbe aver consentito ad alcuni attivisti ribelli pro-Trump di entrare indisturbati all’interno della sede istituzionale del Parlamento, vandalizzare e lasciare l’edificio.
Gli arresti grazie al fattore social
In particolare, facendo valere un solido quadro indiziario, più di 100 persone sono state arrestate per le rivolte del Campidoglio.
Anche in questo caso, però, il fattore “social” è stato decisivo per le attività investigative delle forze di polizia che sono riuscite ad identificare i responsabili proprio grazie alle “tracce” lasciate all’interno delle piattaforme telematiche, che si sono presto trasformate da efficaci strumenti di amplificazione comunicativa dei tumulti, come valvola di sfogo delle proteste, a vera e propria “trappola” utilizzata per incastrare i promotori della rivolta.
La cosiddetta “pistola fumante”, a sostegno della tesi investigativa su cui si fonda attualmente l’accusa, sarebbe rappresentata dal contenuto dei post condivisi sui social media – spesso citati nelle denunce notificate ai presunti responsabili – da numerosi utenti che, nel testimoniare in diretta la propria partecipazione attiva alla rivolta come atteggiamento di “vanto” ritenuto privo di rilevanza penale, hanno voluto pubblicare – più o meno consapevolmente – gli aggiornamenti della protesta ritraendosi direttamente sulla “scena del crimine”, come rilevato dalla pubblicazione di foto e video oggetto di costante monitoraggio del relativo flusso comunicativo veicolato online che ha consentito di formulare, come capi di imputazione, gravi addebiti di responsabilità.
Non solo, quindi, gran parte dei promotori delle protesta si sono fatti inquadrare dalle telecamere delle emittenti televisive accorse sul luogo per raccontare i fatti di cronaca, indossando peraltro costumi appariscenti (e quindi facilmente riconoscibili), unitamente ad armi (come scudi antisommossa e bastoni) nonché in alcuni casi, anche badge identificativi, ma, al contempo, migliaia di follower si sono riversati nei luoghi dei tumulti, rendendo virali le relative azioni online.
In tale prospettiva, grazie ad una sinergica collaborazione pubblico-privata, persino l’FBI, in cerca di prove da acquisire, ha rivolto un formale appello ai media digitali per fornire informazioni utili in grado di identificare le persone coinvolte negli atti di violenza, unitamente alle attività promosse dal Dipartimento di Polizia Metropolitana di DC, che, utilizzando anche i canali social, ha richiesto assistenza nella ricostruzione dei citati fatti, pubblicando una serie di foto utili per facilitare le operazioni.
In danno dei rivoltosi non si prospettano soltanto ripercussioni di carattere giuridico per le condotte penalmente addebitate a loro carico, ma ulteriori gravi implicazioni da negativa reputazione sociale, al punto da determinare persino la perdita del lavoro conseguente all’adozione di provvedimenti di licenziamento, nonché – più o meno spontanee – dimissioni da parte di coloro che hanno partecipato alla rivolta, le cui azioni risultino documentate sui social.
Conclusioni
In relazione a tale vicenda, non vi è dubbio che gli attuali esiti delle attività investigative realizzate dalle forze dell’ordine derivino dalla capacità di monitorare il flusso comunicativo online, al netto delle criticità che hanno impedito di bloccare tempestivamente una rivolta già da tempo pianificata e annunciata sui social e facilmente prevedibile, che avrebbe dovuto richiedere una più agevole prevenzione in grado di preparare al meglio la resistenza organizzata, evitandone gli ulteriori sviluppi, a dimostrazione del rilevante impatto dei social – e in generale dell’ambiente digitale – anche sulle concrete dinamiche delle indagini che possono essere utilizzate per facilitare le operazioni di identificazione dei responsabili.
Se si fossero, infatti, monitorati da subito, come prioritario obiettivo investigativo, i post condivisi online dagli utenti, prestando notevole attenzione ai contenuti immessi sui social media, sarebbe stato forse possibile anticipare gran parte di ciò che è successivamente accaduto, soprattutto rispetto alle più gravi e negative conseguenze provocate dall’insurrezione al Campidoglio, considerata la “punta dell’iceberg” di un dilagante fenomeno di estremismo online sempre più insidioso nella sua efficace capacità di destabilizzare gli standard democratici e incrementare il livello di proselitismo ideologico grazie ad un sistema di polarizzazione dei contenuti che tende a privilegiare, proprio nell’ambito di fertili comunità ideologicamente interconnesse che proliferano progressivamente, gli orientamenti più radicali e sovversivi probabilmente in grado di stimolare, con un elevato livello di coinvolgimento, le emozioni degli elettori e aggravare il livello di sfiducia e confusione dell’opinione pubblica.