Saranno in pochi a ricordarsi i tempi in cui il curriculum, stampato in una moltitudine di copie, si portava, chiuso in una busta bianca, presso la reception di una azienda, alla cassa di un negozio o al titolare di qualche ditta.
Oggi, la fase di job application, tanto quanto il processo di selezione, ha subito radicali mutamenti rispetto alle metodologie relative alla candidatura ed alla valutazione stessa dei candidati. La rete, ed i social network in particolare, hanno completamente modificato non solo le modalità di individuazione della risorsa affine alla posizione ricercata, ma anche la tipologia di dati che è possibili reperire sulla stessa.
Dal lato degli HR, infatti, è possibile, attraverso parole chiave, ricercare candidati partendo proprio dai social network (LinkedIn in primis); dal lato del candidato, invece, è possibile utilizzare questi stessi social come vetrina professionale.
Cosa accade quando un curriculum combacia con tutti i filtri opzionati dal recruiter?
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Si entra nella fase preassunzionale, ovvero nella fase di screening del candidato, sia da un punto di vista tecnico, sia per tutto ciò che riguarda le cosiddette soft skills.
L’importanza delle soft skills
Per soft skills si intendono tutte quelle competenze, assolutamente trasversali a qualsiasi settore o ambito professionale, che in un ambiente lavorativo sono spesso più importanti rispetto alle cosiddette hard skills, ovvero le capacità prettamente tecniche relative alla specifica professione. Per fare qualche esempio, fra le soft skills potremmo citare l’attitudine alla diplomazia, la capacità di lavorare in un team, le abilità di problem solving e di gestione dello stress, autostima e umiltà, eccetera.
Si tratta certamente di skills che vertono prevalentemente sulle modalità in cui ci rapportiamo con i colleghi, con i superiori e, in alcuni casi soprattutto, con i sottoposti.
Gli HR, che oggi si trovano a dover “gestire” una quantità di curricula nettamente al di sopra rispetto a solo una decina di anni fa, lamentano a più riprese la difficoltà di “conoscere” veramente il proprio candidato che, spesso, una volta inserito nel contesto aziendale, non performa secondo le aspettative, soprattutto da un punto di vista “relazionale”.
Il social recruiting
Ecco quindi che i social network, LinkedIn in primis (usato appunto nella fase di ricerca stessa del candidato), ma anche Facebook, Instagram, Pinterest, Goodreads, Twitter e via discorrendo, sono diventati strumenti di analisi ampiamente utilizzati nel corso del processo di selezione del profilo ideale da inserire in azienda.
Se in passato l’approccio al mercato del lavoro era passivo (consegno il curriculum e attendo una telefonata oppure, viceversa, inserisco un annuncio di lavoro e attendo i curriculum), oggi, sia per il candidato che per l’azienda, l’approccio è decisamente più proattivo.
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Il social recruiting si inserisce esattamente nel panorama di questo approccio proattivo, in quanto si tratta dell’utilizzo, come suggerisce il termine stesso, dei social network per:
- lato HR: individuare potenziali candidati e valutarne la Digital Reputation e, specularmente,
- lato candidati: utilizzare i social network e, più in generale, di tutti gli strumenti messi a disposizione dalla rete, per dare una immagine di sé quanto più commitment possibile rispetto al ruolo per cui ci si candida.
La Digital Reputation
La rete ha dato a tutti la possibilità di “comunicare”. Chi, semplicemente, attraverso i principali social network, chi attraverso canali YouTube o blog personali, ma pur sempre espandendo incredibilmente il concetto di comunicazione ed interazione fra individui.
Le reti social hanno ampliato notevolmente, per non dire illimitatamente, soprattutto il concetto di networking. Ognuno di noi, infatti, si costruisce un’identità virtuale più o meno pubblica (sulla base anche delle varie restrizioni privacy di ogni profilo) che viene analizzata dai recruiter per farsi, appunto, una “prima impressione” del candidato selezionato.
Ecco, quindi, che anche il concetto di “standing”, ovvero la prima impressione che suscitiamo negli altri (modo di porsi e vestirsi, cura della propria persona, tono di voce, sorriso eccetera) che un tempo veniva analizzato in sede di primo colloquio, oggi passa in prima battuta dall’immagine che la rete restituisce di noi.
I tre fattori analizzati per valutare la Digital Reputation dagli HR sono:
- la presenza sulla rete e sui social,
- la quantità e la qualità di interazioni telematiche e
- la reputazione online.
Già nel 2015 era emerso, dalla ricerca annuale Adecco Work Trends Study, come il 35% dei recruiter in Italia avesse dichiarato di aver escluso un potenziale candidato “in seguito alla pubblicazione di contenuti o foto improprie”.
La medesima ricerca annuale, relativa al 2019 e realizzata in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha sottolineato come la valutazione della Digital Reputation dei candidati sia ormai prassi recepita ed implementata nella normale fase di selezione del candidato. Al 2019, la percentuale di profili scartati sulla base di una web reputation non idonea è salita al 44,1%.
I motivi che hanno determinato l’esclusione del candidato dal processo di recruiting, dopo aver visualizzato i profili social, sono stati:
- tratti emergenti della personalità considerati non idonei alla professione, 59,2%;
- informazioni non coerenti con il curriculum vitae, 46,9%,
- contenuti discriminatori, 32,6%,
- commenti negativi sui datori di lavoro attuali o precedenti, 26,5% e
- network scarso e profilo poco aggiornato, 4,1%.
Il 38,7% degli HR sottoposti alla ricerca ha dichiarato di aver posto domande al candidato rispetto alla sua presenza sui social network durante il colloquio di selezione.
È interessante inoltre notare come il 55% dei candidati ritiene che se un recruiter dovesse basarsi unicamente sui social network potrebbe farsi un’idea non corretta su di lui/lei, mentre, invece, il restante 45% ritiene che la propria immagine social rispecchi effettivamente la sua identità.
Quindi, seppur il 55% dei candidati sembri non esserne completamente consapevole, il personal branding e l’identità digitale viene considerata abbastanza importante da ben il 46,8% degli HR e molto importante dal 24,8%.
L’aspetto che, in primis, gli HR ritengono da attenzionare è la presenza dei tratti della personalità necessari per svolgere la posizione lavorativa per cui si candidano. In questo caso è interessante notare come questo aspetto sia quello che i candidati ritengono di possedere con quasi assoluta certezza (94,1%), ma che trovi invece solo parziale riscontro negli HR (di cui il 66% dichiara di non aver riscontrato i tratti di personalità necessari nei candidati).
Il personal branding
In conclusione, dal Work Trends Study 2019, emerge l’importanza di costruire un’idonea identità digitale in quanto, le chance di essere selezionati aumentano per chi, in fase di ricerca lavoro, adotta una strategia di “auto marketing” sul lungo periodo (ovvero non limitata ai mesi di ricerca lavoro) volta a presentarsi sui social con uno standing professionale.
Per i recruiter, la fase di valutazione dei tratti della personalità dei candidati attraverso i social network (soprattutto Facebook, Instagram e Twitter) va di pari passo con quella relativa alle hard skills menzionate nel curriculum vitae.
Alcuni suggerimenti per curare al meglio il proprio personal branding:
- per ciò che concerne LinkedIn è consigliabile scegliere una foto profilo professionale. Corretto dare una un’immagine della propria personalità, ma senza essere eccessivamente informali. Per ciò che concerne gli altri social il suggerimento è sempre lo stesso: sobrietà;
- dettagliare le proprie esperienze lavorative senza lasciar spazio a dubbi, o peggio, generando incongruenze con il proprio CV. L’omissione di un ruolo ricoperto che, invece, può emergere dal curriculum vitae, da altri social (una foto fra ex colleghi) o dalla rassegna stampa (pensiamo, per esempio, ad una partecipazione ad un convegno nelle vesti di quella società che viene poi sponsorizzato sulla rete) può generare immediatamente una sfiducia da parte del recruiter;
- curare il proprio network di contatti. Che non significa avere quanti più contatti possibili, ma avere contatti “di qualità”, afferenti al settore di riferimento, con cui interagiamo di sovente;
- gestire positivamente critiche o commenti non graditi;
- chiedere referenze a chi ha lavorato con noi in passato (superiori, ma anche colleghi e, soprattutto, clienti). Le LinkedIn recommendation meritano una breve digressione in quanto sono l’attestazione scritta delle nostre competenze da parte di professionisti che, nel vero senso della parola, “ci mettono la faccia” e si espongono per noi. Quello che dovrebbe emergere da queste referenze non è la competenza in skill che sono facilmente attestabili in altro modo (per esempio quelle linguistiche attraverso le certificazioni ufficiali), bensì l’attestazione di tutte quelle soft skill sopraelencate che sono certamente più ostiche da verificare per un HR (per esempio la capacità di lavorare in team, l’empatia, il problem solving, la capacità di accontentare un cliente eccetera). La richiesta di recommendation su LinkedIn, trattandosi di feedback pubblici, protegge altresì da tutte quelle spiacevoli situazioni in cui, dopo aver lasciato un’azienda, ci si possa trovare a poter ricevere un feedback negativo da parte di ex datori di lavoro inaspriti dalla dipartita di una valida risorsa verso nuovi orizzonti;
- scegliere con attenzione le disposizioni della privacy. Se da un lato un profilo completamente “chiuso” (coperto da privacy) non aiuta gli HR a conoscere il candidato, dall’altro è consigliabile selezionare una lista di contatti ristretta con cui condividere quei post o quelle Instagram stories che riteniamo essere “compromettenti” o che in ogni caso non coincidono con l’immagine professionale che si vuole promuovere di sé;
- non offendere né discriminare gli altri. Non condividere contenuti offensivi o che possano ledere la privacy altrui. Attenzione anche a errori grammaticali e volgarità;
- attenzione alle foto scattate all’interno dei locali aziendali. Oltre al rischio di divulgare informazioni confidenziali, alcune policy aziendali interne prevedono il divieto di divulgare attraverso i social network informazioni inerenti all’azienda;
- evitare post ed affermazioni a carattere politico e religioso: fermo restando i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti relativi al diritto di critica ed alla libertà di manifestazione del proprio pensiero, è consigliabile evitare di esporsi su tematiche che possano non collimare con quelle di un qualsiasi lettore, anche un recruiter;
- non utilizzare i social durante l’orario di lavoro.
Per i candidati, in definitiva, avere una gestione quanto più trasparente, sobria e professionale (a differenza che si tratti di social o professional network) dei propri social network potrebbe essere un’ottima opportunità per dare agli HR una buona prima impressione di sé, già prima di aver sostenuto il colloquio.