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Atlas: la distopia dell’IA e la lotta per l’umanità



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Il film di fantascienza “Atlas” del 2024 esplora il tema dell’intelligenza artificiale e del suo rapporto con l’umanità. La protagonista Atlas, una giovane donna, si trova a fronteggiare un androide ribelle creato dalla madre, in una distopia in cui l’uomo deve collaborare con l’IA per sopravvivere

Pubblicato il 6 nov 2024

Marco Ongaro

Cantautore, librettista, saggista



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Atlas è un film di fantascienza del 2024 diretto da Brad Peyton, con Jennifer Lopez protagonista, presente su una delle piattaforme più in voga nell’Internet. Si tratta, come ormai è tradizione, di una distopia. Le utopie non rendono, vedi il Megalopolis di Francis Ford Coppola, così denso di lieto fine utopico da incrementare pericolosamente il tasso glicemico degli spettatori in una fantasmagoria di buone intenzioni mal mantenute. Le utopie non rendono, ma pure le distopie se la passano male.

Il tema dell’intelligenza artificiale nelle distopie moderne

E di cosa può trattare oggi una distopia se non dell’Intelligenza Artificiale. La diffusione di pellicole sul tema è tale da far pensare a un passaparola non tanto suggerito da interessi economici cinematografici quanto da convenienze commerciali in stretto ambito IA. Insomma il coro appare teso a prendere in esame il massimo timore al riguardo, cioè che i robot prendano il sopravvento sugli umani e li combattano per eliminarli dalla faccia della galassia, per poi più o meno sottilmente scongiurare quel timore in favore di una nuova collaborazione tra le macchine e l’umanità.

Robot selvaggio, l’IA e l’imperativo degli sceneggiatori

Basta vedere il trailer del lungometraggio animato Robot Selvaggio di Chris Sanders per rendersi conto che l’imperativo per gli sceneggiatori impegnati su questo fronte è dimostrare che possono esserci sì Intelligenze Artificiali malintenzionate, ma che il genio umano le può combattere grazie ad altre Intelligenze Artificiali nelle quali sia stato iniettato in qualche maniera il seme dell’empatia, il valore della cooperazione, la palpitante idea dell’amore. Il Robot Selvaggio alleva ochette orfane in odor di brutti anatroccoli e conquista la fiducia degli spaventati animali dell’isola su cui è naufragato prima che i suoi cattivi colleghi la invadano con la loro spietata insensibilità corporativa. L’eroe viene disattivato e gli viene cancellata la memoria, ma i suoi sistemi verranno ripristinati grazie al suo amore per l’ochetta adottata. Non abbiate paura bambini, esistono robot molto buoni, se li si ama.

La trama di Atlas e il suo antagonista

Il concetto che Atlas sembra voler trasmettere è sostanzialmente lo stesso, pur essendo destinato, forse, a menti meno infantili. L’umanoide cattivo Harlan, che un tempo era il “fratello” di Atlas in quanto progettato dalla di lei madre, si ribella, commette matricidio e punta a colpire duramente l’umanità in virtù di un ragionamento invero scioccherello: entrando nella mente della piccola Atlas ha potuto rilevare le tendenze innate degli umani all’autodistruzione, dunque decide che è necessario distruggerli prima che distruggano sé stessi. Un po’ come se un naturalista decidesse di sterminare tutti gli scorpioni per salvarli dalla loro tendenza a uccidersi quando li si mette alle strette.

Inutile dire che l’androide, nell’esprimere questa idea balzana, ribalta gli occhi un tempo pervasi da una dolcezza da babysitter nei riguardi di Atlas bambina, mostrando ora uno sguardo vacuo imputabile alla malvagità, a dimostrazione che non è più lui, non è l’oggetto intelligente creato dalla scienziata, ma un robot delirante per essere stato coinvolto troppo presto in un’interazione umana cui non era preparato. Dunque l’umanoide non può essere cattivo, se lo è vuol dire che è “impazzito” come la maionese mal mescolata.

L’IA e la solita scappatoia dei buoni sentimenti

Sorvolando sulla stolidità del movente interno al film, mero pretesto per il procedere dell’intreccio, possiamo apprezzare la riposante banalità del vero messaggio della pellicola: se c’è un’Intelligenza Artificiale stupida e cattiva, l’essere umano può crearne una più intelligente e più buona che lo aiuti a cavarsela anche stavolta.

Il nuovo formato di Intelligenza Artificiale con cui Atlas si trova a interagire si chiama Smith, un nome proprio che, scelta significativa, è anche il più comune dei nomi propri nell’universo anglosassone. I robot possono essere come noi: generici, familiari, qualsiasi. Non è che il nome della protagonista sia meno suggestivo. Atlante regge sulle sue povere spalle il peso del mondo, nel caso di Atlas la colpa per aver involontariamente, per umanissima gelosia verso la madre, corrotto l’androide di famiglia facendolo diventare il massimo nemico dell’umanità. E il cognome di Atlas è Shepherd, che significa “pastora”, come la Tour Eiffel di Guillaume Apollinaire, per cui la si presume orientata a ricondurre all’ovile umani e robot grazie al suo interfacciarsi, stavolta virtuoso, con Smith. Nomi come destini in una vicenda che segue tutte le norme del “Viaggio dell’eroe” imperversante nei film di genere anche nella odierna Hollywood.

L’intento dunque è convincerci che se un pericolo può esserci nell’allevare Intelligenze Artificiali sempre più evolute e in grado di apprendere dai loro creatori anche le loro peggiori abitudini, esiste pur sempre una scappatoia grazie ai buoni sentimenti, patrimonio dell’umanità, che lo scienziato riuscirà a infondere negli androidi al fine di eliminare tale pericolo.

IA a scopo bellico: le contraddizioni di Atlas

Ma una diversa riflessione emerge alla coscienza nel vedere gli umani usare nel film ogni tipo di dispositivo automatico, di fatto intere sezioni specifiche di Intelligenza Artificiale soprattutto a scopo bellico, per contrastare il nefasto operato di una singola Intelligenza Artificiale guastata. Com’è che quelle sezioni automatiche obbediscono agli esseri umani invece di ribellarsi a loro volta e scegliere di sostenere la loro “specie” riconoscendosi “cellule” dell’automatismo superiore chiamato “androide”? Forse il problema viene a crearsi quando l’Intelligenza Artificiale esce dalla sua parcellizzazione standardizzata per concorrere a costituire un tutto unico denominabile individuo.

Perciò Siri, Alexa, Sky e compagnia bella non sono passibili di impazzimento sebbene nominabili come individui a sé stanti. Sono ancora al livello di sottospecie, realtà elettroniche programmate a imitare il linguaggio delle persone senza esserle, connessioni prive di spontanea reciprocità, d’indipendenza di azione e reazione. Senza input se ne stanno nel loro limbo neanche apparentabile al sonno. Solo gli androidi sognano pecore elettriche.

Viene da chiedersi perché l’essere umano senta il bisogno di creare individui che lo replichino anziché approfittare di scampoli d’intelligenza staccati, tenendoli scomposti e frazionati, lontani da un’organizzazione d’insieme che solo in quanto tale potrebbe, nelle paure collettive, nuocere al loro creatore. In un mondo sovrappopolato, egli insiste nell’anelare a ulteriori entità individuali, nuove parvenze di coscienza indivisibile. Neanche fosse affetto da una solitudine inestinguibile.

Nessuno teme che i droni si rivolgano contro i loro possessori tornando indietro per colpirli, perché i droni non possiedono una soggettività, nemmeno quella paragonabile all’istinto di un gabbiano. Se un computer si blocca per un conflitto interno, lo si resetta senza per questo mettere in subbuglio l’universo. Raggruppando invece tutte le componenti elettroniche di un’Intelligenza Artificiale fino a offrirle un barlume di autonomia, si teme subito che quell’essere, ideato tanto simile a noi, ci si rivolti contro proprio perché è tanto simile a noi. Questa è coda di paglia. La madre delle paure ancestrali è la malafede.

Dialoghi tra Atlas e Smith

Le frasi scambiate tra il sistema di Intelligenza Artificiale Smith e la donna Atlas sono in linea con tale equivoco: «Sono come te. Rispondo agli stimoli, penso e faccio scelte». «Ma tu sei programmato». «Siamo tutti programmati». «Non siamo altro che la migliore versione di voi». «Le persone deludono sempre» e via di questo passo.

Ma l’IA non è un individuo, è un modello seriale la cui unica personalità attribuita è l’interazione con quel particolare essere umano. Essere umano che vuole influenzarlo immettendo dati senza essere disposto a subire altrettanto. Il “link neurale”, il ponte tra noi e l’IA teorizzato nel film per sfruttare la capacità di apprendimento dell’IA, non lontano dai più recenti obiettivi sperimentali di Elon Musk, è il cablaggio che permette l’inserimento nel Bot di tutti i conflitti e gli errori del potenziale umano. La sfiducia che Atlas nutre nei confronti di Smith è pari a quella che Dio può aver provato quando ha visto come l’umanità si comporta. Che razza di immagine e somiglianza mi sta rimandando costui? In definitiva, la nostra paura dell’androide è paura di noi stessi, paura che lui metta in noi ciò che noi abbiamo messo in lui.

Il grande complesso d’inferiorità dell’uomo di fronte alla sua creatura

Il grande complesso d’inferiorità dell’umano al cospetto della sua creatura, cui conferisce il potere di apprendere e ragionare più velocemente e meglio, è alla base della sua inquietudine nei confronti della macchina. È il terrore di aver creato un altro dio, un individuo più potente di lui. Ma è possibile che l’uomo sia più potente di Dio? Il rapporto è lo stesso. L’altro lato della medaglia del sentirsi inferiore è la mania di grandezza che implica l’insubordinazione dell’uomo contro il suo creatore, la superbia narrata nei vari miti dal principio dei tempi e delle religioni. È una questione di superiorità e inferiorità, sempre di potere si tratta. L’uomo teme la propria cattiva coscienza, replica sé stesso nella speranza di migliorarsi e al contempo ha paura che il meglio di sé lo schiacci imitandone il peggio. Che tenerezza.

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