Sempre più ricerche (*) mettono in luce una correlazione tra la frequenza di utilizzo dei social media e le forme di impegno civile nelle proteste. Questi comportamenti possono andare dalla pura espressione delle proprie opinioni al vero e proprio attivismo online.
I risultati di questi studi confermano da un lato che le discussioni politiche online ed il flusso costante di informazioni conducono a numerose forme di partecipazione e dall’altro che i social media possono amplificare le tradizionali forme di protesta off line.
Di fatto però l’utilizzo dei social media non sembrerebbe correlato in eguale misura a tutte le tipologie di protesta. Pare ad esempio fortemente legato alla presenza nelle manifestazioni in strada e al dialogare con i mass media ma non alla sottoscrizione di petizioni. I social media quindi sono validi strumenti per alcune forme di attivismo piuttosto che altre.
In tutto il mondo, in contesti politici culturali e politici molto differenti fra loro, hanno avuto il loro momento di celebrità, però con risultati infine diversi da quelli auspicati dagli attivisti e che inizialmente sembravano promettere: il movimento Occupy ha ottenuto un grande successo nel tematizzare le diseguaglianze, ma di fatto non ha avuto effetti nel cambiare le politiche che le causano.
Le politiche di austerità in Europa continuano nonostante le numerose proteste e occupazioni, incluse quelle in Spagna e Grecia; in Turchia le proteste di Gezi Park non hanno incrinato la figura e il potere di Erdogan. In Iran, la rivoluzione verde, non ha spodestato il neoeletto presidente di allora, Ahmadinejad; il movimento messicano Yo Soy 132 – soprannominato “primavera messicana” – ha portato nelle elezioni del 2012 decine di migliaia di studenti nelle strade, focalizzando la protesta sugli argomenti scomodi al governatore del Messico candidato presidente e protetto dai media broadcast, che alla fine comunque è stato eletto. Infine la primavera araba che ha avuto esiti diversi da paese a paese, di fatto caratterizzata dall’avere tematizzato nella sfera pubblica interna e quella internazionale le pesanti violazioni dei diritti umani che stavano subendo le popolazioni (dati emersi dall’analisi delle conversazioni online). In alcuni casi sono riusciti a far cadere e fuggire all’estero il presidente, ma poi sono seguite giunte militari, o sanguinosi scontri interni, o guerre civili o il caos più completo con l’emergere di frange ancora più totalitarie, integraliste, fanatiche e criminali.
Di fatto esistono alcune potenzialità nei movimenti di protesta online, ma da considerarsi efficaci per lo più nel breve periodo: riescono a porre l’attenzione di una sfera pubblica nazionale e internazionale su una questione specifica, possono bypassare la censura oppure possono configurarsi utili nel coordinamento e nella logistica delle manifestazioni.
Un episodio tangibile nel recente passato si ritrova anche nel sollevamento dell’opinione pubblica mondiale alla luce della strage avvenuta nella redazione parigina del giornale satirico Charlie Hebdo.
Le bacheche dei social network sono state letteralmente invase da una ondata emozionale che ha portato, nei primi giorni di Gennaio del 2015, a condividere milioni di matite sui profili degli utenti al fine di esprimere la solidarietà nei confronti delle famiglie delle vittime ma soprattutto per ribadire l’importanza e l’inarrestabile perseveranza della libertà di espressione contestando il gesto degli attentatori islamici. A distanza di qualche settimana però, scemato l’attaccamento dei cittadini nei confronti del diritto di esprimersi, nulla è cambiato. Di più, alcuni capi di stato fra gli stessi che hanno marciato al fine celebrare la pace, ad oggi continuano indisturbati la loro lotta contro la rete e la possibilità di avere un pensiero autonomo.
Troppe volte vengono poi sovrastimate le possibilità di anonimato attraverso canali che hanno pur sempre una natura commerciale, e dunque in ultima istanza, legate al profitto.
Pochi forse si ricorderanno del giornalista economico Shi Tao. Secondo “Reporter sans frontières” (Rsf) nel 2005 Yahoo aveva infatti fornito alle autorità cinesi le informazioni per risalire alla sua identità. Il blogger venne “condannato a dieci anni di prigione per aver permesso al sito web di ‘Rsf’ di pubblicare una traduzione di un messaggio interno del Partito Comunista cinese, la comunicazione avvertiva dei rischi che a livello sociale avrebbero comportato degli arresti durante il quindicesimo anniversario della strage di Piazza Tienanmen.
E ad oggi anche i regimi meno tecnologizzati hanno imparato come rispondere all’interno di una sfera pubblica aperta. Le strategie includono: cause legali contro i dissidenti di più alto profilo ed interventi legislativi ad hoc per restringere le libertà ed aumentare i controlli; demonizzazione dei nuovi media per disincentivare i loro supporter a prestare fede all’informazione alternativa; il blocco di server, dei social media e dei vari canali; ingaggio di sostenitori e troll con il compito di fare controinformazione e di rendere gli spazi online di difficile navigazione.
Di fatto i regimi si sono accorti che i blocchi totali della rete sono controproducenti, sia per ragioni economiche ma anche perché esistono molti canali alternativi. Internet poi è una cassa di risonanza globale che è praticamente impossibile da silenziare ed è perciò che hanno dovuto ricorrere a nuove forme di controllo e manipolazione, utilizzando le stesse armi degli attivisti, mascherandosi loro stessi da attivisti.
Un altro limite dei movimenti online è quello denominato “slacktivism”: la tendenza a cliccare un link o un like piuttosto che intraprendere azioni concrete. Tuttavia – come già spiega Howard Rehingold per gli smart mob ed evidenziato da Charles Tilly -, i movimenti sociali diventano significativi quando dimostrano valore, unità, numeri e impegno. Il valore è legato alla giustezza della causa, l’unità è un segnale di determinazione, i numeri indicano la massa critica di persone a sostegno e l’impegno è indicatore delle potenzialità a perseverare nel tempo una potenziale azione di disturbo. Mentre l’effettivo impatto dei movimenti online, delle loro azioni simboliche dipende in realtà da molte altre variabili, incluse le opportunità politiche, le capacità dei governi di reprimere e la coesione delle élite.
Dagli studi sembra che il vero elemento che giochi a sfavore delle proteste online sia il tempo. I movimenti di protesta scaturiscono da un evento e occasione pubblica di forte impatto, un suicidio simbolico, un atto di violenza da parte delle forze dell’ordine. La presa da parte di alcune persone di un luogo significativo può seguire una risposta dei media broadcast modulata in maniera diversa (più o meno ampia, più o meno coerente con i fatti); si scatena un’informazione virale in rete (di diffusione dei contenuti dei media di massa o in risposta a questi). Si passa ad un’azione più estesa e di massa concreta nelle strade e nelle piazze.
Tutti gli esempi sopra riportati dimostrano come sia di rapida accensione l’interruttore delle speranze, di tutta la popolazione mondiale che auspica da tempo alla concretizzazione del grande potenziale di democratizzazione del pianeta legato ai nuovi media. Nel tempo però altre forze hanno prevalso, quelle politiche piuttosto che in casi più estremi quelle dei regimi coadiuvati da uomini armati e da intelligence informatica che hanno alla fine preso il sopravvento.
Il breve tempo nel quale si sono trovati a prendere delle importanti scelte strategiche ed operative, non ha permesso ai movimenti online di maturare un percorso di lungo corso come i vecchi movimenti tradizionali, per cui si sono ritrovati spesso privi di legami forti, fiducia e protezione reciproca, esperienze e identità comunitarie forti.
Al forte impatto iniziale, al grande entusiasmo, al flusso esponenziale di contenuti e informazioni, sono spesso seguiti poi disorientamento organizzativo, divisioni e scissioni interne, nonché un ritorno alla sfera privata e isolata a fronte di un clima repressivo dotato di nuove capacità di controllo, collaudate proprio nel combattere questi movimenti.
Quello che forse non scompare è la voglia di resistere, dovrà trovare nuovi canali e nuove strategie, finché i regimi non troveranno nuovi mezzi adatti per reprimere le loro istanze.
A prova di questo continuum di resistenza, propongo un filmato prodotto e diffuso dai giovani manifestanti della rivoluzione verde in Iran del 2009 scaturita a fronte di pesanti sospetti, se non certezze, di brogli elettorali: Bella Ciao Iran.
*Fonti
Sebastian Valenzuela (2012), Protesting in the age of social media: Information, opinion expression and activism in online networks, 5th Latin American Public Opinion Congress
Rasmus Kleis Nielsen (2013), MUNDANE INTERNET TOOLS, THE RISK OF EXCLUSION, AND REFLEXIVE MOVEMENTS—OCCUPY WALL STREET AND POLITICAL USES OF DIGITAL NETWORKED TECHNOLOGIES, The Sociological Quarterly 54 (2013) 159–228
Zeynep Tufekci (2014), SOCIAL MOVEMENTS AND GOVERNMENTS
IN THE DIGITAL AGE: EVALUATING A COMPLEX LANDSCAPE, Journal o f International Affairs, FallAVinter 2014, Vol. 68, No. 1
Shahla Ghobadi, Stewart Clegg (2015), “These days will never be forgotten …”: A critical mass approach to online activism, Information and Organization 25 (2015) 52–71
Rodrigo Sandoval-Almazan, J. Ramon Gil-Garcia (2014), Towards cyberactivism 2.0? Understanding the use of social media and other information technologies for political activism and social movements, Government Information Quarterly 31 (2014) 365–378