Sempre più frequentemente l’opinione pubblica si interroga sul delicato rapporto tra ragazzi e nuove tecnologie.
Da una parte si sottolineano le potenzialità insite in questi strumenti capaci di aprire nuove prospettive per la persona, dall’altra le si guarda con un comprensibile scetticismo dovuto ai rischi sempre maggiori che si sollevano attorno a un loro utilizzo incorretto.
Come in ogni cosa la verità sta nel mezzo, e l’attenzione non andrebbe portata tanto sullo strumento, quanto sull’utilizzo che se ne fa e sulla consapevolezza che ne accompagna l’adozione.
Il contesto in cui nascono queste nuove abitudini di comportamento e di pensiero è comunque molto particolare perché caratterizzato da alcuni elementi di novità rispetto al passato che non vanno sottovalutati.
Su due in particolare di questi credo possa avere senso soffermarsi a fare una breve riflessione.
Il primo elemento è che tutto va sempre più veloce.
Un esempio molto concreto lo abbiamo guardando quanto tempo le tecnologie hanno impiegato nel corso della storia a raggiungere 50 milioni di utenti: il telefono 75 anni, la televisione 13, internet 4 e molto meno (si parla di settimane) tutto ciò che sul web o online oggi viene veicolato.
Il secondo punto è che c’è una tendenza sempre maggiore a fidarsi degli sconosciuti.
Quando andiamo al ristorante, decidiamo di comprare un libro, scegliamo un albergo, un viaggio e così via, leggiamo recensioni scritte da persone che non conosciamo e da quelle ci facciamo influenzare in maniera determinante per orientare il nostro tempo, denaro e scelte di vita.
Nulla di male a priori in queste due tendenze – cioè il fatto che tutto si velocizza e che si dia più confidenza a chi non si conosce – purché si resti consapevoli di quanto accade e capaci di gestirne le conseguenze senza scivolare in derive di eccessiva superficialità.
Se gli adulti, almeno sulla carta, dovrebbero essere sufficientemente tutelati in questa direzione, il problema non può non porsi per i ragazzi di oggi e di domani, che nascono immersi in un contesto che ha regole completamente differenti da quelle in cui siamo cresciuti noi e che non devono diventare esageratamente straniere per chi ha il compito di educare, sostenere, arricchire, tutelare e formare le nuove generazioni.
Ad oggi, di fatto, convivono nello stesso ecosistema due specie antropologicamente differenti. La generazione odierna, quella digitale, e la generazione precedente cresciuta senza tablet, cellulari, schermi touch&screen, internet e social.
La diversità, lo sappiamo, è una potenziale occasione di arricchimento reciproco, e se ben gestito questo passaggio generazionale potrebbe creare nuovi ibridi curiosi e affascinanti capaci di chissà quali cose nuove.
Tuttavia, affinché questo processo virtuoso avvenga, la “vecchia” generazione deve riuscire nel compito di mantenere entro un limite tollerabile il gap che la divide dai cosiddetti nativi digitali.
Se questo gap diventerà eccessivo, verranno perdute importanti occasioni formative e lasciate sole le nuove leve alla scoperta di tecnologie per loro troppo potenti.
Quando lessi anni fa il libro “L’età ibrida”, di Ayesha e Parag Khanna, mi colpì un dato molto curioso: il 58% dei nati tra gli anni 80 e gli anni 2000, se obbligati a rinunciare a una cosa tra olfatto e connessione online, dichiarano di fare a meno della capacità di sentire gli odori.
Un numero inaspettato, certo raccolto su una cultura diversa da quella italiana, ma che non può certo non smuovere riflessioni tra loro anche contrastanti.
Ma dopo i comprensibili giudizi morali ed etici su questo tema, credo che debba in tutti subentrare una consapevolezza nuova sul fatto che il mondo, che ci piaccia o meno, sta andando in questa direzione.
Internet e le nuove tecnologie sono e saranno sempre più percepiti come parte del nostro corpo: estensioni vitali al pari dei 5 sensi che ci orientano nello stare in vita.
Così come il bastone è inteso per una persona non vedente, capace di orientarlo nello spazio e condurlo nella strada corretta, oggi parrebbe essere per internet. E chissà che domani questo ruolo non verrà ricoperto dai nuovi occhiali tecnologici o dai vestiti che indosseremo con microchip al loro interno per misurare parametri vitali e strabiliarci attraverso altre nuove scoperte ad oggi inimmaginabili.
Il gap di cui parlavo prima, insomma, è destinato ad aumentare se noi per primi non iniziamo a interessarci di ciò che cattura i ragazzi di oggi. Siamo noi a dovere imparare la loro lingua e non viceversa, e dobbiamo compiere questo sforzo per non lasciarli da soli davanti al potere delle nuove tecnologie, affascinante quanto potenzialmente devastante.
Un ragazzo di 10 anni oggi, attraverso un qualsiasi smartphone può in 2 click andare a vedere un video pornografico e pensare che la sessualità normale sia ciò che vede in quel filmato: con quali modelli crescerà? Con quali standard dovrà confrontarsi nel suo immaginario? Quale rapporto svilupperà con la sessualità?
A 10 anni sarà in grado di comprendere tutto quello che accade attorno a lui e dargli un senso compiuto?
O forse la nostra struttura psichica necessita del tempo per potersi sviluppare?
Certo che risulta complesso dare del tempo alla crescita oggi, in un contesto che – come dicevamo prima – di tempo ne lascia sempre meno, esaltando la velocità (di diffusione, di connessione, di crescita, etc.) al posto delle normali tempistiche di sviluppo.
In un click si diventa amici e con un altro diffondiamo urbi et orbi quello che abbiamo pensato poco prima, magari in maniera distratta e superficiale.
Con un click si abbandona una pagina web che ci annoia e con un altro condividiamo per scherzo una notizia privata riguardante un’altra persona, che diventa in pochi minuti virale e non più controllabile.
Già, tutto va più veloce. Ma il pensiero talvolta ha bisogno di tempo.
E prima occorrerebbe pensare, poi agire compiutamente e a ragione veduta. Si potrà sbagliare o meno, ma almeno ci abbiamo provato consapevolmente.
Oggi succede il contrario: prima si fa, spinti dall’immediatezza dei social, dopo ci si accorge di quanto fatto.
Di chi è la colpa? Non lo so, ma almeno una parte della responsabilità di quanto sta succedendo è di noi genitori, educatori, insegnanti, adulti, che dovremmo accettare la sfida dell’entrare nel nuovo mondo che avanza e non starne al di fuori.
Magari proprio facendocelo raccontare e spiegare da loro e prendendo le nuove tecnologie come pretesto conversazionale capace di rinforzare e rigenerare la relazione tra le due generazioni.
Solo dopo che avremo imparato da loro qualcosa sul nuovo che avanza, magari potrà essere il nostro turno per raccontare cosa del passato potrà essere utile in questo viaggio nel futuro.