L’emergenza coronavirus si sta in parte mitigando ma, mentre le aziende manufatturiere riaprono, si riavvia la produzione, è possibile andare a correre e recarsi dai parenti e dai congiunti, bambini e adolescenti rimangono principalmente a casa, ancorati alle loro abitazioni, dal momento che le scuole non riapriranno fino a settembre. Dei bambini e delle loro esigenze ci si è sostanzialmente dimenticati.
Eppure, basterebbe constatare i dati di una ricerca relativa a 2.330 bimbi tra i 6 e 10 anni di vita, alunni di scuole elementari cinesi, per accorgersi della delicatezza della loro condizione; riportata sul JAMA (Journal of American Medical Association) Pediatrics, questa ricerca indica sintomi depressivi nel 22% e disturbi d’ansia nel 19% fra loro.
Bambini incollati agli schermi, i rischi
Mentre i genitori lavorano, nei loro contesti professionali oppure al domicilio in smart working, i figli si incollano molto agli schermi. Non va affatto trascurata la differenza di risorse fra le famiglie: non è evidentemente uguale abitare in una villa con ampio giardino oppure in un minuscolo appartamento senza balcone. In genere, televisioni e dispositivi digitali divengono il principale riferimento, sia per la didattica a distanza sia per l’intrattenimento. Si pone perciò una distinzione da sottolineare fra i bambini e gli adolescenti: se i ragazzi delle scuole superiori e spesso anche quelli delle scuole medie usufruiscono efficacemente della didattica a distanza in un modo non poi così diverso da quello degli studenti delle università telematiche avendo dimestichezza con i propri smartphone, non per niente facile risulta la posizione dei bambini faticosamente appiccicati agli strumenti digitali.
Riportavo in un precedente articolo l’allarmato parere della Società Italiana di Pediatria circa i rischi per lo sviluppo cognitivo e affettivo nei bambini fino a otto anni quando si tratta di rimanere davanti agli schermi oltre un paio d’ore al giorno
Senza dubbio, la sicurezza e la salute fisica sono prioritarie. Senza la salute fisica, ricoverati in ospedale o addirittura intubati in terapia intensiva, vengono meno le condizioni per la salute psichica e per lo sviluppo della propria soggettività. Per questo sono state chiuse già a febbraio le scuole, veicolo di contagio che avrebbe lambito famiglie e insegnanti, a volte in età avanzata e a rischio di gravi patologie respiratorie.
Didattica a distanza, i limiti per i nidi e scuole dell’infanzia
La didattica a distanza, tuttavia – avviata tra mille difficoltà e spesso senza i mezzi necessari se non la buona volontà di docenti e famiglie – a livello dei primi anni delle scuole primarie e ancor più delle scuole dell’infanzia o degli asili nido, arranca enormemente nel rimpiazzare la relazione con i docenti che non è soltanto volta alla divulgazione di nozioni da apprendere ma anche e soprattutto ad ampliare le esperienze relazionali con adulti di riferimento in ambito extrafamiliare. Vi sono scuole dell’infanzia che radunano almeno una volta al giorno l’intera classe, con l’insegnante che raccomanda ai bimbi in tenera età di spegnere il microfono e inizia a leggere una storia tratta da un libro per bambini ogni giorno nuovo. Altre scuole dell’infanzia inviano settimanalmente ai genitori, in Whatsapp, la consegna che consiste nella realizzazione di un lavoro; una volta inviate, le piccole opere vengono raccolte e pubblicate sulle pagine Facebook e Instagram della scuola. Altre scuole dell’infanzia hanno optato per ridurre al minimo i contatti che constano soltanto in occasionali saluti affettuosi da parte delle insegnanti ai bambini e ai loro genitori. Evidentemente, tali linee educative si collocano su un continuum che va da un’adesione fiduciosa allo spirito della didattica a distanza sino a un rifiuto dato dal considerarla finanche nociva per quella fascia di età a una molteplicità di posizioni intermedie.
Ho letto con interesse un contributo sulla scarsa democraticità della didattica a distanza e sul galoppante problema del digital divide, a firma di Antonio Guadagno. Inoltre, secondo dati ISTAT, è sprovvisto di dispositivi digitali adeguati il 12% delle famiglie con minorenni in età scolare sul territorio nazionale e la cifra sale fin circa al 20% di queste, nel Mezzogiorno. Altro importante e sottovalutato problema sta nella disponibilità di un unico dispositivo per la connessione a Internet, via computer o smartphone che sia: quando in famiglia vi sono due o tre figli, come organizzare la partecipazione alle lezioni? In alcuni nuclei familiari si è proceduto all’acquisto di nuovi computer; in altri si sta propendendo, invece, per far partecipare i figli adolescenti alle lezioni in diretta al mattino o nel primo pomeriggio, lasciando la disponibilità del dispositivo digitale ai figli in più tenera età soltanto nei ritagli di tempo. I bambini si trovano, dunque, ad avere spesso un rapporto con gli strumenti di apprendimento analogo a quello degli allievi delle università telematiche; tuttavia, se questi metodi basati sul vedere e l’ascoltare lezioni nel momento della giornata più opportuno si dimostrano efficaci per adulti avendo offerto l’occasione a lavoratori e mamme di reinserirsi nel mondo universitario riqualificandosi professionalmente, non lo sono altrettanto con bimbi dei primi anni della scuola primaria. Una lezione di mezz’ora, registrata su Vimeo, ascoltata a tarda ora, quando le palpebre iniziano a chiudersi, ha degli evidenti limiti. Limiti di attenzione, data la stanchezza maggiore per un bimbo di 7-8 anni in quell’orario rispetto al mattino; limiti ancor più palesi sul piano relazionale in quanto risulta più difficile instillare nell’ambito di una videolezione passione, Eros, desiderio di sapere, senza la vicinanza dei corpi. A volte, i bimbi si collegano per lezioni in diretta in modo simile a quanto capita quotidianamente agli allievi di liceo ma incontrano delle difficoltà: connessioni instabili, linea che cade, difficoltà di rientrare nella stanza virtuale, scarsa dimestichezza dei nonni con i quali trascorrono le giornate (peraltro con il rischio di contagiare proprio loro che si trovano nella fascia d’età maggiormente a rischio) nel supportarli attivamente quanto all’utilizzo della tecnologia digitale, attenzione e interesse poco costante in un modo peraltro compatibile con l’età.
Va precisato che molti istituti comprensivi si sono attivati, grazie a fondi ministeriali, per fornire dispositivi digitali alle famiglie malauguratamente più disagiate in termini economici così come a quelle con diversi figli in età scolare. Vengono consegnati in comodato d’uso ai nuclei familiari.
I gruppi Whatsapp composti da genitori di bambini che frequentano le scuole primarie, nei quali sono attive soprattutto le mamme, non tardano a infervorarsi in dibattiti e diatribe fra i sostenitori dei metodi di insegnamento basati sulle registrazioni e i fautori della didattica a distanza da svolgersi in diretta per favorire una maggior interazione, analoga a quella che avviene fra ginnasiali e liceali.
Diversi docenti narrano di uno sforzo di chiarificazione e appianamento quando spiegano alcuni concetti nelle lezioni online. Evidentemente, l’assenza dei feedback corporei e posturali da parte degli allievi espone maggiormente al dubbio di una comunicazione ardua da comprendere. Sprona a precisare, a puntualizzare, a rendere ancor più rigoroso ma al contempo anche semplice il proprio discorso.
Il dramma degli alunni con disabilità
Maggior stanchezza dopo una giornata trascorsa in buona parte online viene riscontrata da tutti gli attori di questa situazione inedita: insegnanti, allievi, genitori che si prodigano per affiancare i bambini nell’utilizzo degli strumenti digitali e nell’apprendimento mentre si ingegnano nel proprio lavoro. Stanchezza riportata anche da molti colleghi clinici, in seguito alle sedute svolte in videochiamata. Stanchezza che non è soltanto dovuta all’affaticamento della vista per essersi soffermati a lungo dinanzi ai dispositivi digitali.
Un insormontabile problema si pone per circa un terzo degli alunni con disabilità, come emerge da un questionario relativo alla didattica a distanza somministrato nel mese di aprile dall’Università di Bolzano, dall’Università LUMSA, dall’Università di Trento e dalla Fondazione Agnelli. Lo presenta Dario Ianes, docente di Pedagogia e Didattica Speciale all’Università di Bolzano e co-fondatore del noto centro studi Erickson di Trento. Viene riferito un numero di insegnanti corposo che ha risposto al questionario: per l’esattezza 3.170; si tratta per un significativo 84% di insegnanti di sostegno. Ben il 36% delle risposte degli insegnanti indica che, nella loro esperienza, non vi sono più notizie di almeno un alunno dal momento della chiusura della scuola; l’interruzione della continuità di un’interazione, non soltanto nozionistica, ha determinato in una percentuale non certo esigua una totale assenza di contatti fra docenti e alunni, con speciale problematicità per i casi di disabilità. Oltre la metà degli insegnanti, esattamente il 51%, stima che i propri alunni stiano avendo un’involuzione a livello comportamentale ma ancor più palesemente in termini di autonomia, apprendimento e comunicazione, come viene riportato dal 62% di coloro che hanno risposto.
Molti minori non possono dunque seguire con agio le lezioni online. Si pone palesemente il problema del digital divide, delle discriminazioni fra condizioni diverse e di un’Italia a due velocità tanto da divaricare ulteriormente la forbice della disparità economica e culturale. Per questo, Roma Capitale si è recentemente attivata muovendo un appello agli operatori dei servizi di telefonia mobile invitandoli a offrire gratuitamente ai cittadini della regione dei Gigabyte utili a fronteggiare il protrarsi dell’allerta coronavirus e ad attenuare il divario digitale. Inoltre, la vivacità e il dinamismo degli scambi con i compagni di scuola coetanei sono impossibili da sostituire con dei momenti di condivisione che pure il digitale offre attraverso le varie piattaforme utilizzate dalle scuole.
Alcuni, come Franco Lorenzoni, propongono di sostituire il termine didattica a distanza con quello più verosimile di didattica d’emergenza rivolta ai bambini. Credo sia sempre preferibile proporre pochi sproni attraverso le risorse digitali, in uno scenario emergenziale, anziché dissolvere ogni contatto con i minori e i loro genitori.
Troppe ore trascorse dinanzi agli schermi, ricevendo informazioni a una velocità e con una complessità superiore alle potenzialità elaborative dei bambini, rischiano di passivizzarli. Vi è il pericolo di un sovraccarico di immagini che potrebbero risultare nocive, a lungo andare I genitori più sensibili colgono i segnali di sofferenza dei loro figli. Non di rado emergono manifestazione regressive: si disimparano alcune competenze coltivando meno le proprie capacità, si allenta un agio relazionale con un incremento di timidezza o inibizione, si smarrisce il rapporto con alcune regole basilari di civiltà offerte strutturalmente dal calarsi entro ambiti istituzionali. Altre volte, i fattori di rischio della situazione si colgono attraverso dei disturbi come l’insonnia o il sonno poco riposante e inframmezzato da fenomeni clinici come il pavor nocturnus e incubi oppure ancora dinanzi a episodi del cosiddetto binge eating disorder (termine tradotto in italiano come disturbo da alimentazione incontrollata) e ad abbuffate bulimiche. Ancor più palesi sono le vere e proprie manifestazioni sintomatiche quali il pianto, il viso triste e assente, la rabbia esplosiva e irrefrenabile.
Gli schermi nella psicanalisi
Qual è, per la psicoanalisi, la funzione dello schermo nella formazione dell’io di un infante? Che cos’è, in effetti, l’immagine virtuale? Anzitutto, studiando questo argomento fra gli psicoanalisti ante litteram, virtuale in Aristotele è quanto va situato in potenza anziché in atto. Lo schermo è un doppio, un doppio del proprio corpo. Virtuale è il potenziale avverarsi del sogno di abbattere i limiti, rischiarando quanto è impossibile toccare in atto. Quanto è virtuale non è necessario né impossibile, per dirlo con categorie della logica aristotelica. Virtuale non è neppure il possibile, invocato da Gilles Deleuze per respirare anziché soffocare. La propria immagine costituisce, secondo la nota teoria di Lacan dello stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, fattore di giubilo ma anche di alienazione. Giubilo perché il bambino che giunge a riconoscersi nella superficie riflettente; attraverso una messa alla prova di quanto vede allo specchio, facendo delle smorfie e delle moine, capisce di essere proprio lui quel piccolo essere umano ivi riflesso e ne trae un effetto euforizzante, energizzante non privo di riferimento allo sguardo amoroso dell’adulto che lo sorregge nei suoi confronti. In questi termini, la figura materna sembra quanto mai indispensabile dal momento che, come Winnicott aveva notato, il volto materno si dimostra il primo specchio in grado di rinviare un riconoscimento al bimbo il quale tenderà a sorridere alla forma del volto materno dicendole in questo modo di sì, acconsentendo a degli scambi intersoggettivi con lei. Alienazione in quanto l’immagine implica serve il rischio di una infatuazione deleteria per sé stessi, di smarrire la propria essenza umana in quest’alterità; il mito di Narciso, il quale adora la propria immagine rispecchiata nelle acque sino ad abbracciarla in un gesto inconsapevolmente orientato dalla passione suicidaria, risulta in questo paradigmatico. L’alienazione si verifica anche nei confronti di tutta una serie di altre immagini che possono venire proposte dagli schermi: si pensi a questo proposito alle ragazzine nella fascia d’età puberale volte ad alienare il cuore della propria essenza cercando di aderire all’immagine filiforme di attrici e modelle tanto da sottoporre il proprio corpo a un dimagrimento di stile anoressico.
Quale differenza fondamentale passa, soprattutto per un bambino, fra ascoltare una lezione seduto al proprio banco nel consueto gruppo-classe e ascoltarla vedendo docenti o compagni nello schermo? Per rispondere almeno in parte a tale interrogativo, dovremmo preliminarmente capire qualcosa di cos’è la percezione di un’immagine allo schermo e di cos’è la percezione di una voce. La percezione non è mai qualcosa di uguale per tutti, non si basa su una realtà omogenea e ugualmente riconoscibile da tutti. Il campo percettivo rimane filtrato da quel poco di realtà da ciascuno di noi incontrato, dal momento che il legame singolare con il proprio inconscio deforma la percezione della realtà stessa. Allucinazioni, allucinosi, pseudoallucinazioni, illusioni sono i nomi tipici di una classificazione psichiatrica che riesce soltanto in parte a rendere conto dell’unicità delle percezioni, finendo non di raro per rubricare tali fenomeni in classi nosografiche specifiche della psicopatologia.
Classificazioni che si rivelano talvolta di scarso aiuto nella conduzione di una cura. Di fronte a queste insolite percezioni o dispercezioni, la clinica psichiatrica non tarda a interrogare il paziente il quale, letteralmente, è colui che ne patisce; lo interroga per chiedergli di motivarle, di spiegarle, tralasciando il fatto più evidente: l’imporsi di un elemento percepito appare ben lungi dal dimostrare l’esistenza del soggetto che la percepisce. Ne sono un esempio eclatante le vere e proprie allucinazioni, in tutta la loro potenza e virulenza, nelle quali il soggetto risulta ammutolito, atterrito, annichilito, incapace di dirne qualcosa né tantomeno di associarvi dei vissuti e dei discorsi che non siano mere cantilene e stereotipati ritornelli prelevati dal campo sociale.
Al di là di ogni connotazione psicopatologica, questa interferenza del proprio mondo immaginario e del proprio inconscio sulla percezione si dimostra molto frequente nei confronti dell’età infantile nella quale la distinzione fra realtà e fantasia risulta in ogni caso ancor più labile di quanto avvenga negli adulti. Prendiamo perciò l’esempio della didattica a distanza con l’immagine a volte bloccata, la linea che cade e che fa perdere un’intera frase prima del ristabilirsi della connessione; consideriamo le illusioni verbali che determina, la difficoltà a distinguere le parole dell’insegnante o dei compagni a fronte di una connessione instabile e dei rumori di fondo che la contraddistinguono, rammentiamo gli equivoci linguistici e le incomprensioni che ne scaturiscono. Ce ne accorgiamo noi stessi nelle videochiamate, non sempre stabili, a volte complicate dalle barriere linguistiche quando parliamo in francese o in inglese, che vanno ad amplificare l’equivoco che regna nel campo della comunicazione umana là dove quello che si dice risulta sempre in qualche misura diversa da quello che l’altro intende. Quando si parla, non ci si comprende mai del tutto. Tale fondo di incomunicabilità umana si coglie soprattutto quando il video si impalla; senza il supporto dell’aspetto visivo, ancor più importante nei bambini i quali apprendono molto grazie ai neuroni specchio, l’interazione si dimostra difettosa, a volte addirittura misteriosa, enigmatica. È chiaro che risulta allora privilegiato a livello di didattica d’emergenza chi gode dell’opportunità di usufruire di strumenti digitali più avanzati e abita in una zona ove la connessione risulta migliore, con una quota di democraticità carente.
Conclusioni
Per molti bambini, trascorrere ore dinanzi allo schermo determina un affaticamento che sembra in linea con la stanchezza riferita da molti, pure in età adulta. Se gli adolescenti tendono a vivere con allegria, leggerezza e spensieratezza lo screen time che condividono con gli amici nelle serate tramite videochiamate, chat e videogames, per i bambini questa esperienza rischia di suscitare vissuti meno euforici. Un sentimento di abbandono pervade talvolta i bimbi e i preadolescenti nel venire lasciati dai nonni o in casa con le baby sitter mentre i genitori escono per svolgere le proprie mansioni lavorative. A questa età, si fa notare l’assenza di una relazione affettiva con i docenti fatta di abbracci al momento dell’ingresso a scuola, di carezze e tenerezze nel momento della tristezza o del pianto, di contatti epidermici, di cure corporee, di intimità. Mancano tremendamente le corse nel giardino della scuola con i compagni, le cadute, l’aiutarsi a vicenda a rialzarsi, l’oscillare sulle altalene. Nei primi anni di vita, la didattica a distanza centrata sui fiori o sulla natura non riesce a sostituire lo stare all’aria aperta, il sedersi a cerchio nel giardino della scuola dell’infanzia, l’interazione con gli animali, lo scoprire l’humus dei campi, il destreggiarsi fra gli alberi nei boschi. Apprendere avviene attraverso delle esperienze percettive, centrate sul proprio corpo, come sostiene Antonio Damasio. L’incontro corporeo con insegnanti e coetanei, ma anche con flora o fauna, costituisce una strutturazione basilare del campo percettivo. Che effetti determinerà in futuro una vita altamente sedentaria e una saturazione del campo della percezione, tale da divenire popolato di un florilegio di informazioni, da una caterva di elementi confusivi e talora bizzarri, poco appropriati per l’età della prima infanzia? Questa domanda rimane aperta, fermo restando il fatto che le occasioni scoperte a seguito dell’esperienza di didattica a distanza faranno comunque parte di un bagaglio esperienziale.
La mia tesi fondamentale è che il tempo trascorso dinanzi agli schermi nella prima infanzia sia sottratto a esperienze che la didattica a distanza stenta proprio a colmare. Stare a scuola significa radicarsi in un contesto istituzionale, abituarsi al confronto con le stramberie di ogni gruppo umano ma anche con l’acquisizione di limiti e regole e soprattutto con opportunità di crescita preziose offerte dalla poliedricità del mondo istituzionale. Permette di stare e so-stare insieme, in una comunità foriera di scintille di apprendimento: apprendimento impossibile da ridurre al mero accumulo di nozioni. Favorisce la socializzazione, abitua a far parte di un legame sociale, sprona le prime manifestazioni di affettività in ambito extrafamiliare.
La didattica a distanza svolge una funzione indispensabile all’epoca dell’emergenza coronavirus e può affiancare la didattica in presenza, mai sostituirla completamente.