Be Real, essere reali, è il sintagma che meglio qualifica lo stato di “ambiguità identitaria” del soggetto contemporaneo, di cui la generazione Z diviene emblematica conferma.
“Essere reali” è, al contempo, aspirazione del soggetto e prescrizione al soggetto, una formula in grado di edulcorare l’imperativo al dover essere del soggetto con la disposizione al voler essere del soggetto. Be Real, prima di attualizzarsi nella forma concreta dell’omonimo social media, si rileva in quanto traccia generazionale disseminata in tutte le forme di innovazione digitale connesse alla sfera della socializzazione.
“Essere reali” si conferma come la priorità discorsiva che investe e accomuna differenti generazioni. Le impronte lasciate da questo costrutto e dalla sua più significativa proposizione – sii autenticamente te stesso – segnalano la percorrenza di un tracciato articolato e mutevole, entro il quale il soggetto contemporaneo ha l’opportunità di rilocalizzare la propria posizione e percorrere il proprio tragitto a ritroso. Raggiunta una soglia-limite, una quantità improduttiva e potenzialmente autolesiva dei processi di accumulazione dei (s)oggetti-segno (Baudrillard, 2014), il capitalismo cognitivo (Vercellone, 2006) sperimenta con successo forme di reversibilità produttiva, offrendo al soggetto l’opportunità di smarcarsi dai luoghi della sovrapproduzione – TikTok, Facebook e Instagram – per condurlo nei siti produttivi della deflazione.
Be Real, la piattaforma “anti-finzione”
Facebook e Instagram hanno collaudato un modello di socializzazione di tipo incrementale, volto cioè a favorire – attraverso una codificazione sistematica degli input di socializzazione (post, like, condivisioni, emoticon etc.) – l’aumento indiscriminato del numero di interazioni. Al contrario, Be Real persegue una strategia del decremento.
Se da un lato Facebook e Instagram assumono un criterio di socializzazione quantitativo, dall’altro Be Real adotta un criterio di valutazione qualitativo: a una riduzione strutturale delle connessioni e delle interazioni complessive del soggetto (l’utente), pare debba seguire – in termini inversamente proporzionali s’intende – un aumento del grado di “autenticità” (realtà) delle azioni, e quindi delle rappresentazioni, prodotte dal soggetto. Non a caso, l’enunciato a partire dal quale Be Real legittima la propria presenza sul mercato dei social media è il seguente: “Be yourself, Be Real” (Sii te stesso, Sii reale).
Be Real si propone di catturare – sono queste le parole dei suoi promotori – “momenti di vita vera e quotidiana”. Esso nasce come piattaforma “anti-finzione”; si prefigge di “riportare un po’di realtà sul web”. In apparente opposizione a quanto accade negli ambienti come Facebook, Instagram e TikTok, il soggetto (l’utente), ricorrendo a Be Real, tenta di ridurre drasticamente l’output della propria attività produttiva:
- La quantità di “amici” da poter aggiungere non è indiscriminata; essa dovrebbe corrispondere, almeno grossomodo, a quelle relazioni affettive o amicali caratterizzate da un grado di socialità e coinvolgimento costanti.
- Non è concesso pubblicare, e quindi condividere, la propria attività quotidiana in qualsivoglia momento della giornata: è la stessa applicazione a segnalare, attraverso una notifica, la finestra temporale entro la quale pubblicare l’azione che il soggetto compie in quel dato momento.
- Tutte le immagini condivise scompaiono il giorno successivo.
- Non è possibile applicare filtri e apportare modifiche alle immagini pubblicate.
- L’applicazione attiva un doppio scatto: la telecamera anteriore ritrae il volto del soggetto, mentre la telecamera posteriore, al contempo, cattura il contesto e l’azione nei quali il soggetto è impegnato.
A partire da queste funzionalità, Be Real persegue un modello di produzione iconografica improntato sulla “decrescita”, ancorando la propria posizione di mercato al target tematico dell’autenticità, dell’essere reali: produrre meno immagini di sé; condividerne solamente una al giorno e su esclusiva sollecitazione della piattaforma; escludere la possibilità di ritoccare le immagini con filtri. Sono queste le modalità interattive che dovrebbero consentire al soggetto di preservare e rivelare la propria autenticità. Tali specificità applicative, nell’ambito dell’interazione, traducono lo scopo strategico di Be Real: permettere al soggetto di riapprodare finalmente alla “realtà”.
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L’ego messo a dieta su Be Real
Da ciò ne deriva una prima conclusione: nel momento in cui il Capitale intercetta dei punti di saturazione nei luoghi dell’interazione digitale (nei siti della produzione), esso si mobilita per articolarne e gestirne il deflusso: se il problema è individuato in una sovrabbondanza dell’ego (Augé, 2009), al soggetto non può che corrispondere un’efficace e seducente soluzione dietetica. Be Real è la prova della reversibilità che, in termini quantitativi e qualitativi, può essere attivata nei luoghi di socializzazione digitale.
Poste tali premesse, uno sguardo critico, attento alle mistificazioni discorsive che la logica del mercato impone, è chiamato a confutare l’ambigua e degradante traduzione di “realtà” prodotta da Be Real, soprattutto se quest’ultima sussume, all’interno delle proprie pratiche discorsive, uno statuto di verità e autenticità assimilato da milioni di utenti. In questa prospettiva, il presente contributo avverte l’urgenza di stabilire un’adeguata definizione di realtà, una definizione che sia in grado di ristabilire il luogo, i criteri e i requisiti più adeguati al concetto di “reale” nelle forme del vissuto quotidiano.
Un’adeguata definizione di realtà per comprendere le mistificazioni discorsive del digitale
In antitesi alla concezione di “reale” presupposta da Be Real, il vero del vissuto quotidiano corrisponde altresì all’agire che non è soffocato dall’attesa di doversi condividere. L’autenticità è il tratto peculiare della realtà solo quando non subisce la costrizione di doversi “sdoppiare da sé”, per farsi simultaneamente rappresentazione di sé. Nell’esperienza agita, il vero è rintracciabile unicamente quando l’esperienza stessa non è deformata dall’aspettativa della propria evidenza estetica. Il vero si dilegua nel momento in cui l’agire non è più un tutt’uno con sé stesso, giacché una parte di esso è già in procinto di trasmigrare nel luogo della propria esposizione, prima ancora che si posi, come dato fatto, nella propria conclusione. Con scatto e autoscatto, la conduzione dell’azione nella propria realizzazione è paradossalmente preceduta da un focus sull’immediata traduzione dell’agire nella propria rappresentazione. L’immagine non ancora conclusa del sé rappresentato tende un costante agguato alla coscienza del soggetto, costringendo quest’ultima a fissarsi sulla rappresentazione ben prima che il soggetto concluda l’azione. La coscienza vive nel perenne stallo anticipatorio della propria immagine.
Scatto e autoscatto, azione e riflessività
Poiché «la coscienza, in quanto facoltà dell’intelletto, esercita la sua funzione nella costruzione identitaria non più a partire dallo scopo del soggetto agente in quanto differente dall’oggetto, bensì a partire dallo scopo del soggetto come corrispondente all’oggetto, e dunque come prodotto realizzato da sé medesimo» (Imbriglia, 2022), l’agire del soggetto è sottoposto alla pressione costante della propria riflessività. La riflessività si posa sulla rappresentazione statica di sé (l’autoscatto) e della propria azione (lo scatto), ma così facendo cattura ciò che già è rapito, poiché sottratto alla naturale percorrenza del proprio agire, un agire già fissato entro la cornice dell’immagine. Nello scatto e nell’autoscatto, la riflessività anzitutto investe la rappresentazione dell’azione e, solo per rimando, l’agire stesso. L’azione, nonostante preceda la propria rappresentazione, ne diviene sorprendentemente surrogato. L’agire resta propedeutico all’azione, ma solo da un punto di vista meccanico, cinetico. L’azione in quanto oggetto di riflessione e conoscenza è del tutto subalterna alla propria rappresentazione. La rappresentazione sovrasta l’azione a tal punto che quest’ultima, l’azione, è solo una frazione – la necessaria componentistica – di una produzione seriale di rappresentazioni. È l’azione ad appartenere alla rappresentazione. L’azione è tale perché non può essere assunta prima e al di fuori della rappresentazione, ma può essere desunta solo dopo o entro la rappresentazione. Ha luogo, in termini cognitivi, un rovesciamento tra azione e rappresentazione, fra causa ed effetto, fra atto e agito. La rappresentazione è in grado di inghiottire l’intera datità del reale. L’azione assume significato e validità solo in quanto contenuta, preceduta e introdotta allo sguardo altrui dalla rappresentazione; se privata della propria rappresentazione, essa non può vantare alcuna autonomia, nella misura in cui la rappresentazione espropria all’azione la relativa coscienza. In questo stato l’azione non è altro che perdita di senso, dispersione, la drammatica attestazione di incompiutezza del soggetto e del relativo disorientamento; per converso, la rappresentazione non riveste più una funzione accessoria rispetto alla propria azione, bensì ne diviene premessa necessaria. Non si opta, in alcuni casi, per la rappresentazione, ma si fa, perennemente, in vista della rappresentazione. È la rappresentazione ad esercitare la sua propedeuticità nei confronti dell’azione.
La caccia spietata all’autenticità
La caccia spietata all’autenticità non consente certo di scovare il vero nella propria immediatezza, giacché l’atto sospeso nello scatto è tenuto costantemente in presa dalla propria osservazione; tale osservazione è, a sua volta, tenuta in presa dall’imminente osservazione altrui. All’agire, che da sempre è legato a un’aspettativa, non è concesso di sottrarsi per un solo momento dall’aspettativa di sé, poiché la messa in posa, il relativo scatto e la conseguente condivisione sociale ne dipendono aprioristicamente. E tale dipendenza è evidentemente amplificata nell’idea, ormai estesa e acquisita, di poter individuare un sé spontaneo nel perimetro della messa in posa, entro la cornice della propria raffigurazione. Non si tiene in conto che la messa in posa è già, di per sé, una deviazione calibrata dal disimpegno, una preclusione della distrazione e del distoglimento del pensiero dal proprio sé: il soggetto non potrà mai affrancarsi dalla propria messa in posa e dal prodotto che da essa deriva.
Riguardo ai tentativi di stabilire una più onesta e moderata prossimità allo stato di “autenticità” – un genere di condizione ideale, quella dell’autenticità, che invero non è mai esistita, ma che si assume, convenzionalmente, come traguardo verso cui tendere – si potrebbero considerare, in quanto ipotesi meritevoli di un’approfondita riflessione, due eventuali opportunità: la prima ipotesi immagina la possibilità di intercettare un “frammento” di autenticità nell’istante in cui l’oggetto della rappresentazione (il soggetto) non è consapevole di essere catturato nel fermo immagine dello scatto. Nella seconda ipotesi, il frammento di verità potrebbe essere colto nella frazione temporale entro cui il soggetto ritratto, consapevole della presenza di un osservatore, è letteralmente distratto, temporaneamente “assente”, inconsapevole della cattura adoperata dalla macchina in un dato momento. Inconsapevolezza e distrazione sono due ineludibili requisiti del reale, poiché consentono all’osservatore di sfiorare il coinvolgimento sincero dell’attore nella propria esclusiva azione, la quale azione resta del tutto estranea all’osservazione e alla conseguente rappresentazione. La rappresentazione lascerebbe intravedere squarci di verità solo negli istanti in cui il soggetto è effettivamente disinteressato all’azione dell’osservatore.
Messa in posa e autorappresentazione: essere sé stessi non è più spontaneo e rivelatorio
Nel verso opposto, se l’azione del soggetto immortalato nell’autoscatto e nello scatto è orientata all’esclusiva autorappresentazione, ed è dunque la rappresentazione a costituirne la destinazione finalistica, l’azione è corrotta dall’aspettativa dello sguardo proprio, dello sguardo altro e dai rispettivi giudizi. In tal senso, la messa in posa è già di per sé performativa e l’azione ad essa connessa preserva una correlazione, per quanto spoglia o camuffata essa sia, con una soglia standard di appetibilità sociale, la qual soglia resta ineludibile, nonostante l’eliminazione dei filtri e delle modifiche applicabili all’immagine. La messa in posa è il luogo in cui la coscienza è inevitabilmente impegnata su di sé; in tal senso Be Real è un “veicolo” che, al pari dei suoi predecessori (Facebook, Instagram…), non consente alla coscienza di disimpegnarsi da sé. In questi luoghi la coscienza non trova mai ristoro: la coscienza, nell’istante dell’autoscatto e dello scatto è, tutt’al più, uno stato d’allerta, un affanno, il tentativo maldestro di setacciare un sé che di autentico non ha nulla. Be Real legittima un artificio estetico – la messa in posa e i conseguenti (auto)scatti – sulla base di un bisogno costruito: essere realmente se stessi.
Le immagini che il soggetto ha di sé e del proprio agire quotidiano non solo sono replica (Lyotard, 1979), cioè altro da sé, ma sono effetto di un’istanza prima elaborata, poi perfezionata e alla fine indotta (Marcuse, 1999); se l’immagine di sé (il selfie) e l’immagine della propria azione (contenuta nello scatto esterno) sono entrambe replica, dunque un falso, la necessità che a monte le giustifica – sii autenticamente te stesso – non ha nulla di spontaneo e rivelatorio; la sua insorgenza non è certo riconducibile a un sé “incontaminato”. Tale esigenza – essere realmente se stessi – sorge, si estende e si consolida solo a seguito dall’effettiva possibilità tecnica di realizzarla. Il bisogno non precede certamente il “mezzo” che consente ad esso di realizzarsi, ma segue ad esso; non ne costituisce la causa, bensì l’effetto.
La necessità di condividere due immagini – la prima “interna” (l’autoscatto) e la seconda “esterna” (l’immagine dell’azione compiuta) – che siano fedeli, perfettamente aderenti, al proprio sé e al relativo agire non hanno condotto alla produzione di un ambiente – il social media – adeguato al raggiungimento di tale scopo. All’opposto, è l’interoperabilità fra il social media e la relativa gateway (lo smartphone) ad offrire le condizioni socio-tecniche e interattive adeguate alla produzione di questa necessità. La radice originaria del bisogno è, al pari del suo prodotto, un artificio, un equivoco sostanzialmente fabbricato. Be Real degrada i concetti di realtà e, conseguentemente, di autenticità a una finestra temporale di due minuti, che sorprende il soggetto in un momento qualsiasi della propria quotidianità, terminata la quale lo stesso soggetto non può condividere “momenti di vita vera e quotidiana”. Appurata tale evidenza, cosa contiene l’autoscatto? Cosa restituisce?
Autoscatto: l’iper-reale a portata di mano
Scatto e autoscatto realizzano il tentativo, compiuto dal soggetto, di imitare sé stesso e l’azione da sé realizzata, fuori dalla posa, ricorrendo, inevitabilmente, alla messa in posa. Nell’autoscatto è contenuto il falso che si sovrappone al vero con soverchianti note di accentuazione psichica ed estetica. È l’iper-reale (Baudrillard, 1994) a portata di mano. I “momenti di vita vera e quotidiana” sono solo la simulazione di momenti di vita vera e quotidiana.
La combinazione fra scatto e autoscatto codificata da Be Real «si rivela un artificio che letteralmente ridicolizza l’atto, il gesto stesso e lo priva della propria essenziale qualificazione, cioè la spontaneità, giacché l’enfatizzazione del gesto esibito è continuamento “surriscaldata” dall’attesa o dalla pretesa – e più in generale dall’aspettativa – del potenziale spettatore» (Imbriglia, 2022).
Conclusioni
Il reale di cui Be Real si fa promotore è un reale desertificato, entro il quale il fermo immagine prosciuga alcune fra le principali fonti dell’agire: l’improvvisazione, la contingenza, l’impensato (insito all’agire stesso) e l’imprevedibilità scaturente da queste sorgenti. La fissazione dell’intenzionalità soggettiva sul “reale – inteso come “vero” – tiene la coscienza in uno stato di perenne iper-tensione. Alla tensione non segue mai la dis-tensione: produrre quotidianamente un’immagine di sé fedele a un sé ipoteticamente “autentico” è già un infinito raddoppiamento. Lo scarto percepito dal loro inevitabile scostamento lascia la coscienza in perenne fibrillazione: esiste un sé iconico (stilizzato e performativo) che angosciosamente insegue un sé corporeo (carente e disinteressato), nonostante quest’ultimo lo preceda sempre di un istante.
Questo insanabile divario alimenta la ferocia con la quale il primo, il sé iconico, tenta di strappare sempre ulteriori brandelli di “autenticità” al secondo, al sé materiale. In questo quadro, l’iper-realtà corrisponde all’incessante tentativo, tecnico ed estetico, di colmare il complesso di inferiorità maturato dal sé dominante (il sé iconico) nei confronti del sé sottomesso (il sé materiale). È questa la più sofisticata forma di cannibalismo perpetrata dall’Io contemporaneo.
In definitiva, per quanto il soggetto si impegni nell’essere “autentico”, ciò in cui riesce meglio è l’imitazione sistematica, cioè la simulazione, del proprio sé “autentico”. Nonostante ciò, l’elevato grado di perfezionamento del falso non fa che attestare il proprio successo: la copia, nell’esattezza del proprio riflesso, è talmente attigua, prossima, all’originale da sedurne la relativa coscienza, sino a sottrargliela temporaneamente. Nel lasso di tempo in cui all’originale è sottratta la rispettiva coscienza, quest’ultimo – l’originale – involve a fonte biochimica di infinite replicazioni. L’ottimizzazione della replicabilità, per converso, non fa che ridurre il sé “autentico” a materia prima dalla quale fabbricare il falso.
Il sé “autentico” o ciò che di esso resta – ammesso sia mai esistito – è tenuto in stallo dalla propria copia entro un margine d’inazione: il soggetto è ridotto a un misero perimetro di replicabilità. Il soggetto è catturato e immesso entro un regime produttivo esclusivamente in funzione del proprio falso. Be Real, al pari dei social media che l’hanno preceduto, non decreta la fine della rappresentazione, bensì attesta la fine dell’azione, intesa anzitutto come azione politica, in grado cioè di rovesciare lo stato di realtà. Conseguentemente, la fine dell’azione segna la fine della rappresentazione, poiché non v’è più alcuna azione che sia degna di essere rappresentata.
Bibliografia
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Baudrillard J. (1994), Simulacra and simulation, University of Michigan Press
Baudrillard J. (2014), Il sistema degli oggetti, Giunti
Imbriglia A. U., L’influencer nella logica del Capitale: l’essenza clericale di una borghesia laica è stato pubblicato da Agenda Digitale.eu in data 18/03/2022
Imbriglia A. U., L’oggettivazione del soggetto. Per un’indagine critica della socializzazione digitale, I Quaderni di Agenda Digitale.eu, Gennaio-Aprile 2022 n. 10, Digital360 Editore
Lyotard J. (1979), A partire da Marx e Freud: decostruzione e economia dell’opera, Multhipla edizioni
Marcuse H. (1999), L’uomo a una dimensione, Einaudi
Vercellone C. (2006), Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, Manifestolibri