Forse ci siamo. Il “forse” è d’obbligo perché la grande mobilitazione dei procuratori statali americani e delle agenzie federali contro i giganti del tech è un inizio promettente, ma non ancora decisivo. Questo ritrovato fervore antitrust verso le grandi piattaforme tecnologiche (Google, Amazon, Facebook, Apple) dovrà fare i conti con i giudici ai quali spetta l’ultima parola. E il potere giudiziario americano, a partire dalla augusta Corte suprema, è ancora saldamente radicato in una cultura giuridica non propriamente propizia a iniziative stentoree in salsa trustbuster.
Se si vuole assecondare la riuscita delle iniziative istituzionali occorre pertanto intaccare lo zoccolo duro di un attaccamento tenace dei tribunali federali alla dottrina della Scuola di Chicago consolidatosi ormai durante quaranta anni. Operazione non semplice questa che non ha visto finora moltissimi studiosi disponibili ad intraprenderla e assecondarla.
Il rilancio del paradigma antitrust
Ma vieppiù passaggio necessario perché come spiega Jonathan B. Baker, autore di un importante saggio dedicato proprio al rilancio del paradigma antitrust (The Antitrust Paradigm. Restoring a Competitive Economy, Harvard, 2019) non si è autorizzati a fare troppo affidamento sulla politica. Se da una parte è vero, infatti, che il Partito Democratico si manifesta sensibile verso i temi della concorrenza, la destra populista rimane invece tiepida se non ostile. Né è praticabile un ritorno all’indietro, all’antitrust strutturalista degli anni Sessanta, poiché le iniezioni di analisi economica nella decisione dei casi di concorrenza non appare un processo reversibile: nostalgie per un approccio più discrezionale all’antitrust non sono né plausibili né degne di incoraggiamento: pertanto la scuola di Chicago va battuta sul suo stesso terreno.
Il precedente: il caso Microsoft
Semmai, si tratta di lavorare di fino nell’alveo degli strumenti economici e delle leve processuali per promuovere un atteggiamento dei giudici più favorevole e benevolo verso le denunce di comportamenti anticoncorrenziali. Certo una cause célèbre vi è stata, nientemeno che il caso Microsoft; e tuttavia non sembra che la stessa abbia fatto scuola. La chiave di volta diviene allora quella di disseminare la giurisprudenza di presunzioni che agevolino al giudice il compito di riconoscere l’illecito, o quantomeno di ammettere una parziale inversione dell’onere della prova: è il convenuto che dovrà dimostrare la coerenza del proprio comportamento con la logica dell’efficienza economica per sbarazzarsi dell’accusa di indulgere in pratiche monopolistiche.
Come? Ad esempio, nel caso di concentrazioni orizzontali, i giudici dovrebbero richiedere alle parti dell’operazione la prova che un alto livello di concentrazione obbedisce a finalità innocue e presumere senza se e senza ma che l’acquisizione di un’impresa in erba integri invece un illecito. Circa gli effetti del coordinamento, soprattutto quando supportato da algoritmi, essi dovrebbero essere ritenuti negativi allorché le imprese operino in più mercati e l’uso del supporto tecnologico consenta loro di raggiungere un allineamento dei prezzi in tempi rapidissimi, a maggior ragione quando sia difficile o improbabile l’ingresso di un nuovo entrante. Quanto alle pratiche riconducibili al concetto di esclusione, esse dovrebbero venire colpite dalla presunzione di illiceità quando i rivali più significativi siano tagliati fuori, o anche solo quando ad essere bersagliato sia un solo concorrente di un’impresa dotata di potere di mercato. Se questi comportamenti difettano di anche solo una plausibile giustificazione economica la presunzione dovrebbe divenire insuperabile.
Il mondo dei GAFA
Guardando più da vicino proprio il mondo dei GAFA, delle grandi piattaforme high tech, Baker suggerisce un approccio allo stesso tempo severo ma realistico. Le acquisizioni, per cominciare, di concorrenti che si sono distinti in innovazione dovrebbero essere vietate allorché il mercato annovera solo poche imprese attive e dotate di intraprendenza creativa. Questo vale a maggior ragione se a compiere l’acquisizione sia un’impresa dominante, la quale prende come bersaglio un soggetto che non è sua attuale concorrente ma che potrebbe diventarlo.
Sì, lettore, hai capito bene: Instagram, Whatsapp etc.; le acquisizioni che hanno fatto scalpore nel mondo delle grandi piattaforme, ebbene secondo questa dottrina non sarebbero state autorizzate.
Ancora, i comportamenti escludenti da parte di un’impresa dotata di potere di mercato nel mondo dell’innovazione tecnologica dovrebbero essere colpiti con particolare durezza quando comportino la marginalizzazione dei pochi rivali che insistono su qual campo di gioco. Esempi? Un’impresa dominante che ha accesso ai big data dei clienti di propri rivali può sfruttare questo sapere per sottoporre offerte personalizzate senza temere ritorsioni sui prezzi. O ancora può rendere difficile la migrazione dei clienti alzando gli switching costs a tutto danno dei propri rivali. Oppure ricorrere alla collaudata tecnica dei prezzi predatori, un tema che è tornato agli onori delle cronache grazie a Lina Kahn, ma che dovrebbe essere messo a fuoco per Baker quando sia evidente l’intento di negare ai rivali un’efficiente economia di scala o addirittura di escluderli.
Veterano di molte esperienze all’interno delle istituzioni federali preposte all’antitrust e alla concorrenza, Baker non è un puro economista accademico. La sua riflessione si pone perciò tanto più all’attenzione per lo sforzo costante di intaccare la Scuola di Chicago senza mantenersi sulle sole generalità. Certo il suo contributo è tutto pensato all’interno del sistema americano, rendendo la sua incidenza sul dibattito europeo minore. Anche con questo caveat però la sua lettura si impone come un must, stagliandosi nella letteratura più recente per l’ampia portata di un’offensiva con i piedi molto per terra ai bastioni finora inespugnati della Scuola di Chicago. Posner: sei avvertito!