qualità del lavoro

Big quit, ora sono le persone a “scegliersi” il lavoro: come le aziende possono adeguarsi

Quello delle “Grandi dimissioni” è un fenomeno complesso che ha diverse ragioni, ma nella sua ultima manifestazione si collega a un altro tema: la difficoltà delle imprese a trovare lavoratori qualificati. Ma ci sono alcune esperienze che ci dicono che non è impossibile affrontare il problema

Pubblicato il 02 Mar 2023

Massimo Colucciello

fondatore e CEO PA Advice

south working

Allora non era un fenomeno passeggero. La tendenza sempre più diffusa a lasciare il lavoro continua e si conferma anche in Italia.

Secondo il Ministero del Lavoro, infatti, nei primi nove mesi del 2022 ci sono tate 1,66 milioni di dimissioni volontarie: il 22% in più sullo stesso periodo del 2021 (quando furono 1,3 milioni), che a sua volta già registrava un aumento del 13,8% rispetto al 2019 (quando furono 950 mila).

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Sono i dipendenti a scegliere il lavoro

Si tratta di un trend che ha anche un’altra complicazione, perché oltre a essere sempre di più le persone che lasciano volontariamente il lavoro, sono sempre meno i giovani che si offrono per un posto di lavoro. Tanto è vero che in Lombardia nel mondo degli imprenditori gira una leti motiv: fino a qualche anno fa i colloqui si chiudevano con “le faremo sapere” detto dal reclutatore, mentre oggi finiscono con un “grazie dell’offerta di lavoro, vi farò sapere” detto dal candidato. Su questo c’è anche un libro, scritto nel 2020 da un giuslavorista scomodo e profondo come Pietro Ichino, che racconto come sarebbe iniziata un’epoca in cui sarebbero stato i dipendenti a “scegliersi il lavoro”.

Negli Stati Uniti, dove il fenomeno è nato e dove sono bravi a dare i nomi alle cose, l’hanno chiamata “The Big Quit” o “the Great Resignation”. In Italia lo abbiamo tradotto con “Grandi Dimissioni”, ma più prosaicamente e forse con una eccessiva enfasi si dice che siamo entrati nell’era della “fuga dal lavoro”.

Un diverso approccio al tempo e alla vita

In realtà si tratta del cambio di un’era e di prospettiva, di un diverso approccio al tempo e alla vita che è più evidente negli under 40, è esploso negli under 30 e diventerà travolgente per le generazioni successive. E non si tratta solo di una questione di retribuzioni o carriera, ma è un mix complesso di fattori che ci interroga sul senso stesso del lavoro, come anche sulle prospettive e le conseguenze economiche e sociali che ne derivano. Soprattutto, si tratta di un grande interrogativo sulla vita delle imprese, perché le dimissioni improvvise provocano la perdita di talenti chiave, la riduzione della produttività e il costo di formare nuovi dipendenti, che tra l’altro sono difficili da trovare. A tutto questo, però bisogna dare risposta.

Ovviamente si tratta di un fenomeno complesso che ha diverse ragioni, ma nella sua ultima manifestazione si collega ad un altro tema: la difficoltà delle imprese a trovare lavoratori qualificati. I numeri sono impressionanti, con circa un’azienda su due che non trova i profili ricercati e circa 500.000 lavoratori qualificati che non ci sono.

Un approccio possibile per affrontare il problema

Fortunatamente ci sono alcune esperienze che ci dicono che non è impossibile affrontare il problema, ma a patto di una chiara diagnosi preventiva. E un approccio “multiplo”. Da una parte la questione della formazione. Complice la rapida evoluzione delle tecnologie, oggi è sempre più difficile trovare le skills necessarie ai processi produttivi. Per questo serve un sistema di istruzione efficiente e moderno, allineato con le esigenze del mercato del lavoro. Senza dimenticare di un orientamento e indirizzamento dei giovani verso gli studi più consoni e mestieri più richiesti. Ma, una volta che si comincia a lavorare, serve anche un sistema di formazione continua per i lavoratori (lifelong learing) da costruire insieme tra enti pubblici e aziende.

Soprattutto, di fronte a un fenomeno di tali dimensioni e tale rottura come quello del “Big Quit” è necessario allargare l’inquadratura e immortalare il contesto socioculturale in cui siamo. Il punto è che la pandemia ha accelerato e portato alla luce un fenomeno carsico impetuoso, specie nelle giovani generazioni. La sindrome YOLO (You Only Live Once), che è anche una tendenza culturale, incoraggia le persone a prendere rischi e a seguire i propri sogni, anche se questo significa lasciare il proprio lavoro. Molti individui, infatti, sono disposti a rischiare il proprio benessere finanziario e professionale per inseguire le proprie ambizioni personali.

Una questione di qualità

Si tratta di una rivoluzione culturale intorno al “valore-lavoro” e al peso che si dà, specie tra le giovani generazioni, alla qualità della vita. Dopotutto il lungo apprendistato alla flessibilità (anzi, al precariato) è stato interiorizzato dagli under 40 e, avendo capito che un posto di lavoro non è per sempre, sanno che si può cambiarlo anche per scelta. Avendo capito quali sono le regole gioco, adesso le usano a loro favore. Si tratta di una tendenza da cui non torneremo più indietro.

Certamente il fenomeno del Big Quit esiste anche per la mancanza di soddisfazione professionale. Ma la prima componente è la frustrazione personale, umana, l’impossibilità di coniugare vita privata e vita lavorativa, di potersi prendere uno spazio, di crescere internamente all’aziende, di non avere prospettive, di lavorare un ambiente poco stimolante o poco collaborativo.

Entrare nell’ottica dell’ingaggio e della partecipazione

È partendo da qui che le imprese possono contrastare il Big Quit, adeguandosi ai tempi. L’aumento della retribuzione e dei benefici per i dipendenti può certamente essere un fattore determinante per rendere il lavoro più attraente e incoraggiare i dipendenti a restare. Ma bisogna investire in programmi di formazione e sviluppo, promuovere un ambiente di lavoro positivo e collaborativo che incoraggi la comunicazione aperta e l’ascolto delle preoccupazioni di tutti. Inoltre, le aziende devono, per aiutarli a crescere professionalmente e sentirsi più soddisfatti del loro lavoro. Non basta più il welfare aziendale, che pure resta indispensabile, fatto di buoni pasto, libri di testo per i figli e polizza sanitaria. Si deve uscire dal contesto redistributivo, dell’erogazione del reddito via servizi ed entrare nell’area dell’ingaggio e della partecipazione. Bisogna parlare di persone, sentimenti e inclinazioni. Non di lavoratori, mansioni e cartellino da timbrare.

Conclusioni

Per fare questo, insomma, bisogna cambiare prospettiva. E, last but not least, non bisogna dimenticare la questione dell’organizzazione del lavoro: lo smart working è ormai tra noi e le imprese che lo rifiutano a priori risulteranno sempre meno attraenti, specie per chi è più qualificato. A oggi, soprattutto, per le imprese come per i dipendenti, non conta la quantità o il luogo dove si svolge un lavoro, ma gli obiettivi che si riescono a ottenere. Insomma, quella che era una transizione, con il Covid ha accelerato fino a diventare la realtà.

Perché la pandemia ha rivelato quanto si sia abbassata la soglia di tolleranza verso una vita che non rende felici, a partire dalla dimensione lavorativa. Un fenomeno che esisteva già prima, ma che ora è definitivamente esploso e che mette in discussione il senso stesso del lavoro. Anche perché la trasformazione digitale del lavoro, gli algoritmi, spingono le persone a un maggiore ingaggio cognitivo e un maggiore contributo umano. Questa è la prospettiva futura del lavoro. È un cambio di paradigma su cui dobbiamo riflettere. Subito e tutti.

E, chi può prenda delle contromisure. Altrimenti il Big Quit diventerà “Giant Quit”.

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