La necessità di una normativa antitrust più rigorosa ed efficace, negli Usa come nella Ue è evidente da tempo e probabilmente la spinta decisiva viene proprio dall’effetto “techlash”, il crescente scetticismo verso le big tech, maturato con evidenza negli ultimi tre anni.
E così, mentre oltreoceano a Federal Trade Commission, con un comunicato dell’11 febbraio 2020 ha messo nel mirino le cosiddette “killer acquisition” e chiesto alle cinque grandi aziende tecnologiche – Alphabet (Google), Amazon, Apple, Facebook e Microsoft – “di fornire informazioni su acquisizioni precedenti non denunciate alle agenzie antitrust ai sensi della legge Hart-Scott-Rodino (HSR)”, la nuova Commissione europea a guida Von Der Leyen sembra convinta della necessità di una revisione delle regole della concorrenza.
Potrebbe dunque essere vicina al tramonto l’era dell’autoregolazione della Big Tech ma perché ciò accada, oltre a una legislazione tesa a valorizzare l’aspetto della responsabilità e del rispetto dei diritti umani dovrà innescarsi un meccanismo virtuoso di condivisione e reciproco enforcement tra Autorità, soprattutto in ambito data protection, tutela della protezione industriale e antitrust.
Quel che è certo è che il vento sta cambiando, negli Usa, in Europa e non solo. Vediamo perché.
Cosa prevede la legge HSR negli Usa su acquisizioni e fusioni
La legge Usa Hart-Scott-Rodino stabilisce che, qualora le parti siano intenzionate a effettuare “stock purchase” (azioni) o “asset purchase”(asset attivi), oppure intendano procedere con la fusione di due o più società, debbano darne notifica alla Commissione Federale per il Commercio (FTC) e alla Divisione Antitrust del Dipartimento di Giustizia (DOJ), prima di finalizzare le suddette operazioni d’acquisto o di fusione.
Ciò, tuttavia, avviene non in via generale ma solo al ricorrere di determinati prerequisiti relativi al valore della transazione e alla dimensione commerciale delle parti coinvolte nella stessa.
La nuova soglia minima prevista dalla HSR è di 94 milioni di dollari rispetto alla precedente di 90 milioni e a quella ancora prima di 84,4 milioni.
Detto questo, lo scopo perseguito dell’attuale richiesta della FTC emerge dalle dichiarazioni rese dalla stessa, ovvero:
- approfondire la propria comprensione dell’attività di acquisizione di grandi aziende tecnologiche, partendo dalle modalità con cui queste aziende segnalano le loro transazioni alle competenti autorità, fino all’analisi della potenziale portata anticoncorrenziale delle medesime operazioni apparentemente al di sotto al di sotto del limite HSR
- “imparare” dai precedenti e, partendo dalla migliore comprensione dei mercati tecnologici, valutare se ulteriori transazioni debbano essere soggette agli obblighi di notifica HSR.
Le killer acquisition nel mirino dell’Antitrust Usa
La FTC si riferisce, principalmente, alle presunte “killer acquisition” o “acqui-Hire” in modalità “Pac-man” messe in atto dai BigTech: una strategia, ormai piuttosto consolidata, almeno sin dai tempi della Standard Oil (forse la prima multinazionale negli USA), che le grandi società, “sfruttando abilmente le maglie larghe della normativa antitrust”, mettono in atto per acquistare “giovani” potenziali concorrenti prima che diventino nel tempo una minaccia più grande. Una sorta di marketplace delle startup.
Uno scenario che, a quanto emerge, potrebbe coinvolgere oltre 400 acquisizioni, avvenute tra il 2010 ed il 2019 per importi singoli inferiori a 80 milioni di dollari. Probabilmente verranno coinvolte acquisizione come quella di ClusterK o Graphiq, utilizzate nei servizi Web di Amazon; quella di Parse, con Facebook, o di Sparrow, per Google. Nomi piuttosto ignoti ai più.
La più recente è, invece, quella Looker in favore di Google che, a giugno dello scorso anno, ha annunciato l’acquisizione dell’azienda tech specializzata in Big Data analytics e software di business intelligence. E Looker è sicuramente in buona compagnia nel vasto ecosistema di BigG.
Pare che la FTC sia interessata anche all’acquisizione di Waze da parte di Google: un’operazione questa da 1,1 miliardi di dollari risalente al 2013 già precedentemente analizzata e non contrastata.
Le informazioni richieste dalla Federal Trade Commission si concentreranno sui documenti relativi alle strategie di acquisizione aziendale, sugli accordi di voto e di nomina dei Consigli di Amministrazione, su quelli per assumere personale “chiave” da altre società e sulle alleanze post-impiego, le cosiddette “employment clauses”, potenzialmente idonee ad impedire il passaggio delle competenze a società rivali.
Sono certamente comprese anche le informazioni relative allo sviluppo e ai prezzi dei prodotti post-acquisizione; se e come sono stati integrati gli asset acquisiti e come sono stati trattati i dati acquisiti.
“The orders will help the FTC deepen its understanding of large technology firms’ acquisition activity, including how these firms report their transactions to the federal antitrust agencies, and whether large tech companies are making potentially anticompetitive acquisitions of nascent or potential competitors that fall below HSR filing thresholds and therefore do not need to be reported to the antitrust agencies,” si legge in una nota della FTC.
“The FTC has a statutory right under the HSR Act to review acquisitions and mergers over a certain size before they are consummated, and the study will help the Commission consider whether additional transactions should be subject to premerger notification requirements”.
Nel frattempo, una cinquantina tra stati e territori statunitensi, guidati dal Texas, hanno già annunciato nel settembre dello scorso anno un’indagine sul “potenziale comportamento monopolistico” di Google.
Lo scetticismo degli osservatori
Nei confronti della attuali dichiarazione della FTC, accanto alle reazioni di favore come quelle riportate dal NYT, dei dirigenti di piccole aziende come Sonos e PopSocket, non sono mancate le voci “disilluse”.
Queste in particolare sono suffragate dai precedenti casi, primo fra tutti quello di Microsoft, protrattosi per oltre 10 anni, dal 1990 fino al 2002 e dagli esiti piuttosto “leggeri”. O quello che ha coinvolto il colosso americano della telefonia AT&T e il gigante dei media Time Warner (la Corte federale d’appello degli Stati Uniti ha respinto definitivamente le accuse di violazione della concorrenza, che il dipartimento di Giustizia e soprattutto l’amministrazione Trump avevano mosso nei confronti della suddetta fusione). La gestione del contenzioso si è rivelata poco altro che una costosa ed inutile distrazione di risorse umane e finanziarie.
È interessante la posizione di Mark McCareins, codirettore del programma JDMBA di Kellogg e professore di diritto commerciale specializzato in questioni antitrust alla Kellogg School of Management della Northwestern University. Secondo McCareins le grandi aziende tecnologiche hanno assimilato a tal punto le normative antitrust da renderle preziosi strumenti di business.
“If the companies have created documents that reflect consciously taken positions, which can’t be justified for legitimate business reasons but instead have been hatched to memorialize strategies for the purpose of hurting a competitor, then that’s a problem”, sostiene in un’intervista riportata dal sito KelloggInsight . “But we don’t know yet if those types of documents exist. These are really expensive battles to fight, and government agencies do have finite resources.”
Lo “spezzatino” delle big tech non è una soluzione
Le grandi aziende, a suo dire, hanno da tempo intuito la necessità di precostituirsi un certo corredo probatorio anche documentale a prova di verifiche “antitrust”. Al centro del diritto antitrust statunitense, sin dalle origini, viene posto il consumatore: è pertanto estremamente complesso dimostrare che questo possa essere danneggiato da servizi “percepiti come preziosi” e “gratuiti” ancorché forniti da pochi grandi player.
“Simply because a firm becomes large and has innovated better than its competition does not in and of itself lead to the conclusion that an antitrust violation has occurred” prosegue.
Sanzioni pecuniarie e “spacchettamenti” delle grandi aziende tecnologiche, stile Big Tech “Breaking Up”, come proposto dalla candidata presidenziale Elizabeth Warren, specie nel panorama attuale, non convincono parte degli esperti che ritengono non possano contribuire efficacemente a risolvere i problemi legati alle “concentrazioni di potere” e all’alterazione delle regole della concorrenza.
Herbert Hovenkamp, professore presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università della Pennsylvania, è convinto che le proposte della senatrice Warren nei fatti contribuiranno più a proteggere le tecnologie vecchie che non i consumatori ed i lavoratori. E’ quanto emerge dal suo articolo su The Regulatory Review.
Della stessa idea anche Fiona Scott Morton, economista ed esperta di antitrust di Yale SOM che in un articolo del luglio scorso sul Washington Post evidenzia quanto invece “le agenzie dovrebbero riflettere attentamente sulla fonte del potere di mercato di ciascuna piattaforma e capire quale rimedio – antitrust o altro –creerebbe concorrenza in quel mercato”.
Non ultimo il problema irrisolto della capacità di lobbying dei giganti del tech: Google spende diversi milioni di dollari in attività di lobbying; Amazon e Jeff Bezos dirigono addirittura il “Washington Post”, una tech company più che un “giornale” per qualcuno; Facebook non si lascia molto indietro.
Le mosse dell’Europa
La pratica delle cosiddette “killer acquisition” in modalità “Pac man” anche in Europa non è una novità.
Insieme a molti Stati europei, tra cui Francia, Italia, Germania e Austria – protagoniste di diversi procedimenti nei confronti di Google e Facebook – la commissaria UE e Vice-Presidente Margrethe Vestager, si è fatta ampiamente apprezzare per diverse iniziative molto concrete, tra cui il veto negativo sulla fusione Alstom-Siemens. Si aggiungono, inoltre, le diverse azioni rivolte ai protagonisti della Silicon Valley: Google, certamente, ma anche Apple condannata a restituire all’Irlanda 13 miliardi di euro; Amazon, che nel 2017 è stato sanzionato per un totale di 250 milioni, Facebook al quale è stato imposto un esborso di 110 milioni di euro per informazioni “depistanti” sull’acquisizione di Whatsapp nel 2014 e Qualcomm nel 2018, che per abuso di posizione dominante, si aggiudica quasi un miliardo di sanzione pecuniaria. Queste tra le più note.
Il netto rifiuto reso dai Commissari europei Margrethe Vestager, Thierry Breton e Vera Jourova, il 17 febbraio scorso, alle “tiepide” rassicurazioni di Mark Zuckerberg (che, basti questo, definisce la sua piattaforma a metà fra un giornale e una compagnia di telecomunicazioni), in occasione della sua visita a Bruxelles, è certamente un segnale incoraggiante. Il suo un Libro Bianco intitolato “Tracciare la via da seguire: regolamento sui contenuti online” è stato decisamente rispedito al mittente perché ritenuto troppo basso in termini di responsabilità e regolamentazione.
“Finora siamo stati delusi da come le piattaforme Internet si stanno autoregolando (…). Vogliamo che il mercato funzioni correttamente” ha spiegato il commissario all’industria Thierry Breton. “Nel caso, siamo pronti ad agire rapidamente, anche se i tempi sono stretti, entro la fine dell’anno”.
In più occasioni Margrethe Vestager si è dichiarata fermamente decisa ad aggiornare le regole risalenti al 1997 e le premesse, sin qui dalla stessa realizzate, lasciano spazio a sensazioni senza dubbio positive.
“Le attuali regole non sono al passo con la globalizzazione e con gli effetti che le big tech determinano sui mercati”, ha detto Vestager.
“Molti mercati funzionano in modo piuttosto diverso rispetto a 22 anni fa. Abbiamo sviluppato e perfezionato le tecniche che possiamo usare per definire i confini del mercato e i tipi di prove che utilizziamo”, così la stessa Vestager, durante la conferenza annuale Chillin’ Competition di Bruxelles del 9 dicembre 2019.
Una strategia completamente condivisa anche da Ursula von der Leyen, attuale Presidente della Commissione UE per la quale “L’Europa è chiamata a difendere la propria sovranità e quindi deve essere capace di proteggere la propria industria, i propri servizi e in ultima analisi i propri cittadini ed è necessaria anche una revisione delle regole della concorrenza”.
Dal mese di gennaio, intanto, è in vigore il Regolamento 2017/2394 che mira ad uniformare e rafforzare i poteri delle diverse autorità nazionali responsabili della protezione del consumatore.
“Se sapessi quello che so ora su Google, sarei stata più coraggiosa” ammette Margrethe Vestager. “Si tratta di essere all’altezza delle proprie responsabilità”, almeno finché si resta nei confini europei.
Ora avrà l’occasione giusta per dimostrarlo: Google per il tramite del suo avvocato Christopher Thomas, al suono del paventato “diritto ad ottimizzare l’esperienza dell’utente” si difende con il ricorso ai sensi degli articoli 261 e 263 del TFUE chiedendo, in via principale, l’annullamento della decisione C (2017) 4444 della Commissione, del 27 giugno 2017 con la quale venne imposta a carico di Google una sanzione di 2,4 miliardi di euro per abuso di posizione dominante nel servizio Shopping.
E l’esito del contenzioso potrebbe costituire un’ottima opportunità sia per valorizzare il processo di revisione ed enforcement delle normative (già in atto), sia al contrario per la definitiva presa d’atto della sua attuale ed evidente inadeguatezza.
Ad oggi, sebbene le prime udienze debbano già essere intervenute, non ci sono aggiornamenti e il sito della Corte definisce il caso semplicemente “pendente”.
L’impugnazione peraltro sembrerebbe solo la prima di una serie di altri ricorsi che Google avrebbe in programma a partire dal prossimo anno.
Un confronto tra le normative antitrust Ue e Usa
Su entrambi i fronti dell’Atlantico, le istanze per autorità più determinate e un generale riequilibrio del potere economico, sono apparse insite nel processo di revisione delle attuali politiche sociali ed economiche.
È un fatto che l’evoluzione tecnologica e digitale contribuisce, prepotentemente, ad evidenziare limiti ed urgenze delle attuali norme antitrust. Soprattutto il potere poliedrico assunto dalle grandi aziende tecnologiche mette in chiaro risalto il divario rispetto alla portata e alla capacità dei governi di regolarle in modo significativo e di gestire le conseguenze negative che da esse derivano.
Oltre gli Stati Uniti e l’Europa, anche la commissione australiana per la concorrenza è attiva sul fronte Google e Facebook. E anche il gruppo di lavoro sulle autorità garanti della concorrenza dei paesi cosiddetti BRICS ha evidenziato in due rapporti il medesimo trend per altri Paesi nel mondo. A settembre 2019, lo Stigler Center ha pubblicato il suo rapporto focalizzato proprio sulle piattaforme digitali e le sfide poste per l’antitrust, la protezione dei dati, la democrazia e i media. Anche il Giappone ha reso note le sue Linee Guida.
L’antitrust Usa e quello europeo sono considerati molto differenti sebbene colpiscano gli stessi comportamenti. Ma come sostiene anche il giornalista Riccardo Sorrentino in un recente articolo del Sole24ore, la differenza è più che altro nel metodo: un approccio economico da una parte e giuridico dall’altro.
Ed è in questo contesto che la politica di concorrenza globale sta promuovendo il cambio di prospettiva (anche se rispetto all’Europa, negli USA mancano ancora proposte politiche formali) piuttosto atteso da più parti.
Può risultare utile, in tale frangente, ripercorrere brevemente le origini delle rispettive normative antitrust, al fine di comprenderne meglio le dinamiche attuali specie laddove declinate in ottica di maggiore collaborazione internazionale e di convergenza delle medesime normative.
Le fonti regolatorie USA sono rappresentate da quattro atti normativi principali.
Sherman Act, Clayton Act, Federal Trade Commission Act e Hart-Scott-Rodino Antitrust Improvements Act del 1976.
Le radici del diritto antitrust statunitense risalgono alla fine del XIX secolo principalmente per contrastare la formazione dei “trust”. Nel 1890 fu emanato ed introdotto lo Sherman Act e nel 1914 il Clayton Act. Inoltre, attraverso il Federal Trade Commission Act, sempre nel 1914, venne istituito l’organo indipendente Federal Trade Commission (FTC), affiancato dalla divisione antitrust del Department of Justice (DOJ), creata dieci anni prima.
Nel 1976 si aggiunge il provvedimento noto come Hart-Scott-Rodino Antitrust Improvements Act.
È chiaro sin da subito che il diritto antitrust statunitense nasce per assicurare l’efficienza dei mercati e sviluppa sin da subito ampie capacità di analisi economica.
In Europa, il Trattato di Parigi e il Trattato di Roma (art. 81 e 82 in primis) possono essere considerati i primi fondamenti giuridici del diritto antitrust europeo. Entrambi i Trattati fondativi della Comunità Economica Europea (CEE) ambiscono alla creazione di un mercato comune dove promuovere la libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone.
L’obiettivo cardine è superare le divisioni dello spazio economico europeo per dar luogo “a un mercato progressivamente più integrato, dove le imprese fossero libere di competere”. Partire quindi da una visione unitaria condivisa interna per poi promuoversi efficacemente anche verso l’esterno.
La successiva introduzione del Regolamento n. 1/2003, in sostituzione del Regolamento n. 17/1962, che fino a quel momento aveva regolato l’applicazione delle norme comuni sulla concorrenza, modificò in maniera piuttosto significativa, l’applicazione delle prime regole di concorrenza risalenti al 1957. E trattandosi di Regolamento, e dunque ad applicazione diretta, ciò avvenne sia a livello nazionale (Corti e Autorità nazionali) che comunitario all’interno del National Competition Authorities (NCAs). Il diritto di matrice giurisprudenziale che ne è derivato, ancora oggi, assume un ruolo di assoluto rilievo, affiancando e “orientando”, la concreta applicazione delle fonti normative nel frattempo intervenute.
Il diritto antitrust europeo, almeno nei suoi intenti originari, è prevalentemente volto al presidio dell’omogeneità dei prezzi e delle condizioni di vendita nell’alveo ristretto degli Stati Membri piuttosto che a velleità di natura economica generale. L’obiettivo principale appare essere quello “dello sviluppo di un mercato interno (unico) competitivo”.
Conclusioni
“Competition encourages companies to offer consumers goods and services at the most favourable terms. It encourages efficiency and innovation and reduces prices. To be effective, competition requires companies to act independently of each other, but subject to the competitive pressure exerted by the others”, così si legge in una nota della Commissione UE.
E così invece si esprime il cofondatore di Microsoft, Bill Gates, in un’intervista a Village Global, riflettendo sulle passate decisioni cruciali prese in merito al suo sistema operativo mobile: “In the software world, particularly for platforms, these are winner-take-all markets.” – “It’s amazing to me that having made one of the greatest mistakes of all time, and there was this antitrust lawsuit and various things, that our other assets like Windows and Office are still very strong, so we are a leading company,” – “If we had gotten that one right, we would be the leading company, but oh well”.
Come è possibile – in una società digitale dove la persistente “datification della società” rende i dati un fattore di creazione di valore, e dunque prerequisiti essenziali per l’ingresso nel mercato – tentare la riconciliazione tra le due precedenti posizioni? L’una espressione della visione istituzionale e l’altra dello spirito imprenditoriale ma entrambe mosse dal generale principio della libera iniziativa economica.
Come sarà possibile centrare l’obiettivo ineludibile della giusta promozione dei diritti e delle libertà fondamentali come anche del progresso sociale e tecnologico? Il giusto equilibrio tra controllo e promozione?
Google gestisce ricerca e contenuti supportati da pubblicità, Apple vende dispositivi, Amazon si occupa di e-commerce, Facebook gestisce social media supportati da pubblicità. I modelli di business sono talmente diversi e gli interessi coinvolti talmente vasti ed importanti che i fronti di contrasto alle presunte violazioni – comprese le normative antitrust – non potranno esimersi, per potersi dire realmente efficaci, da valutazioni estese ed azioni esecutive combinate.
Il Rapporto finale dell’indagine conoscitiva sui Big Data condotta in Italia congiuntamente dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e dal Garante per la Privacy ha reso evidente quanto “la diffusione di un’economia basata sui dati abbia un impatto sia sulle dinamiche competitive che si realizzano all’interno di singoli mercati, sia sull’organizzazione e la fisionomia della catena del valore di interi settori economici”. Dagli “effetti di rete”, a quelli derivanti dalle economie di scale e di scopo, all’eventuale presenza dei “switching costs” – ovvero quegli impedimenti di natura tecnica o economica che limitano la facoltà di scelta sui vari fornitori generando i noti fenomeni di lock-in – ognuno di questi aspetti dimostra a suo modo l’attuale inefficacia degli attuali modelli di regolamentazione e tutela del mercato.
E la capacità di scelta degli individui ne esce fortemente compromessa.
L’era dell’autoregolazione della Big Tech potrebbe dunque volgere presto al termine se si riuscirà a realizzare quella che Luca Bolognini, Avvocato europeo dei dati, co-fondatore dello studio ICTLC – ICT Legal Consulting e presidente dell’Istituto Italiano per la Privacy e la Valorizzazione dei Dati definisce una sorta di “immanenza sostanziale delle tutele giuridiche nell’era digitale”.