Mentre sappiamo che il processo legislativo in Europa procede spedito verso l’adozione di norme piuttosto intrusive nei confronti delle big tech americane, negli USA la partita è ancora piuttosto aperta.
È notizia di qualche giorno fa che la Camera dei Rappresentanti Usa ha adottato il rapporto di David Cicilline che è un pesante j’accuse contro le piattaforme, ventilando misure che erano nell’aria da tempo.
Prima però di annunciare l’avvento di una nuova stagione di disciplina del mercato, neo-strutturalista, “à la Brandeis” bisogna andare cauti.
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Big tech e concentrazione di potere: qualcosa si muove
Lasciatemi dire prima di tutto che va dato atto a questa rivista della preveggenza dimostrata intuendo in tempi non sospetti che qualcosa si sarebbe mosso sul terreno della concentrazione di potere delle grandi piattaforme digitali. Non si tratta di recitare il miles gloriosus bensì di appellarsi alla cronaca. In Italia il tema era affrontato fino a ieri nelle università per scongiurare un qualsivoglia esito avverso alle piattaforme, mentre le autorità preposte al mercato guadagnavano tempo impegnandosi in indagini conoscitive e in dibattiti accademici senza costrutto, che portavano acqua a un tenace immobilismo.
Ora però che il treno è partito a Washington e a Bruxelles, qualcosa si muove anche qui: vedi l’istruttoria aperta su Google dall’AGCM.
Intanto negli Usa…
Attenzione però: i repubblicani non hanno votato il rapporto e i veri conti sono rinviati al Senato. Non che la destra fosse insensibile alla questione. Ma preferisce piuttosto che toccare antitrust e regolazione, rispetto ai quali non viene smentito il suo orientamento conservatore, aggredire l’immunità dei siti per il materiale che ospitano, il famoso paragrafo 230, ritenendo di avere subito molte nequizie da una Silicon Valley filodemocratica.
Non è escluso che il cavallo partito in testa arrivi sfiancato alla meta, a meno che non scatti una fattiva cooperazione transatlantica in modo da rafforzare reciprocamente le rispettive posizioni. Cosa poi pensi il presidente Biden, grande tessitore di compromessi in una sede come il Congresso che ha battuto per trenta anni, resta poco chiaro. È possibile che voglia tagliare gli artigli alla Silicon Valley senza esagerare.
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L’approccio cauto contro i monopoli del tech: il libro
Questo, del resto, è l’approccio cauto che persiste ancora molto forte nella dottrina antitrust in lingua inglese: si prenda per tutti un’autorità come Howard Shelanski.
Da prendere a riferimento c’è anche un libro davvero notevole, di cui è autore un professore franco-belga: Nicolas Petit. Titolo: Big Tech & the Digital Economy. The Moligopoly Scenario, Oxford University Press, 2020. Scritto in un inglese al contempo elegante e brillante questo libro alza di parecchio la barra del livello a cui eravamo abituati nel campo conservatore. L’Autore infatti attacca frontalmente l’ipotesi che i GAFA siano dei monopolisti. No, non lo sono: perché il loro dominio sul mercato è precario e invece della rilassatezza tipica del monopolista essi esibiscono una perenne ansia di essere scalzati da un momento all’altro da qualche impresa maverick, da mutamenti tecnologici o da sorprese regolamentari. E non è finita qui. Quand’anche lo fossero, non è scalzando il loro monopolio che si otterrebbero i risultati auspicati dai trustbusters.
Nuovi moligopoli crescono
Una qualifica più appropriata di queste imprese è quella di “moligopolio” che si verifica quando “i giganti tecnologici competono gli uni contro gli altri o contro imprese non-tech, in modo conosciuto o sconosciuto a essi”.
Che competano lo dimostra l’esperienza: lo fanno inseguendo gli altri giganti sul loro terreno (copycat innovation); oppure entrando in segmenti vergini di mercato. È vero che la strategia dei giganti non sempre è diretta: l’ingresso nei mercati dove uno di essi gode di sostanziosi effetti di rete è improbabile; più plausibile è l’ingresso in mercati vergini dove gli effetti di rete non si sono propagati e dove la partita è ancora aperta.
Ma quello che sembrerebbe un rompicapo per gli economisti svela agli occhi dell’autore contorni chiari: quelli del moligopolio appunto: monopolisti in casa, anzi trincerati come padroni delle porte di accesso, oligopolisti negli altri mercati.
Che fare
A questo punto sorge spontanea la domanda: che fare? L’autore si sente in sintonia chiaramente più con l’approccio restrittivo della Corte Suprema USA che con quello “dirigista” dell’Unione Europea rispetto alla quale dice senza complimenti che “nel complesso è facile vedere che, nel diritto antitrust europeo, la rivalità prevale sull’efficienza”.
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E allora? Nei tipping market, ossia quelli in cui, complici gli effetti di rete la strada è sbarrata ai nuovi entranti, l’antitrust ha un ruolo da giocare; non ne può rivendicare alcuno invece in quei mercati in cui i giganti competono fra di loro ad armi pari, e con loro le imprese di piccola taglia. Concentrarsi sugli untipped market presenta il vantaggio di ridimensionare la rendita monopolistica, incoraggiando i giganti a indirizzare i loro appetiti verso i mercati untipped, non pregiudicati da posizioni di forza inattaccabili, dove vantaggi a priori non vi sono per nessuno.
Ciò detto, il discorso non è ancora chiuso. L’autore dedica ampio spazio alla regolazione non economica che può giocare un ruolo a condizione che si metta bene a fuoco il risultato che si vuole ottenere. E non sempre questo è avvenuto.
Tirando le somme il professor Petit ha lanciato una sfida che merita di essere raccolta. Nel grande dibattito transatlantico che è appena cominciato sarà sicuramente una voce autorevole.