Molto si potrebbe dire (e si è detto) a proposito della chiusura dei profili dell’ex presidente Trump da parte di alcuni social, ma a prescindere dalle valutazioni di merito su quanto accaduto, ciò che qui conta è che l’hanno fatto davvero, e senza grandi problemi. Da un momento all’altro, il presidente degli Stati Uniti si è trovato privo del principale megafono di cui un comunicatore può oggi disporre.
Non è questione sulla quale ci si possa permettere di non riflettere. Certo, rilevare che il potere di Amazon, Apple, Google, Facebook e Microsoft non solo dal punto di vista economico, è in costante crescita, è un po’ come scoprire l’acqua calda.
Ci sono però, e il ban di Trump lo dimostra, prove muscolari, a tratti anche piuttosto sfacciate, che questi colossi non mancano di fornire, quasi a volere rivendicare per sé stessi il diritto a giocare in un campionato diverso dagli altri, in una sorta di regime autarchico, tendenzialmente impermeabile a tentativi di regolamentazione esterna.
Marketing e pubblicità alla base dell’oligarchia delle Big tech
Le risorse economiche delle Big Five (soprattutto per quel che riguarda Google e Facebook) dipendono essenzialmente dalla pubblicità e dal marketing, mentre la loro capacità di influenzare l’opinione pubblica deriva dall’enorme mole di informazioni di cui dispongono e dal potere di erogare e sospendere una serie di servizi che, anche in quanto gratuiti, sono assurti a componente essenziale del nostro vivere in società.
Alle radici di questo meccanismo, quindi, ci sono la pubblicità e il marketing, strumenti indispensabili per produrre ricchezza, risorsa fondamentale per esercitare potere ed influenza.
Ed è proprio sul marketing e la pubblicità che si sta da tempo giocando una partita importantissima, il cui scopo sembra mirare ad accentrare ancora di più le risorse, in quello che si appalesa sempre più chiaramente come un sistema oligarchico.
Una prima rivoluzione, ormai alle porte, riguarda l’imminente tramonto dei cookie di terze parti. Il riassetto delle attività di tracciamento online, non a caso da più parti definito “cookie apocalypse”, entro il 2022 dovrebbe consentire a Google e Apple (produttori dei principali browser) di consolidarsi come intermediari indispensabili nei confronti di chiunque intenda sfruttare il potere dell’informazione per indirizzare i propri contenuti pubblicitari in modo efficace.
I “nemici” diventano partner
Non è questa l’unica manovra che sembra indicare la volontà dei grandi operatori di convergere verso comuni linee strategiche, anziché ostacolarsi esacerbando le proprie politiche concorrenziali.
Nel 2017 Facebook sembrava in procinto di testare un nuovo modo di vendere pubblicità online che avrebbe minacciato il controllo di Google sul mercato degli annunci digitali. Meno di due anni dopo, tuttavia, ha modificato le proprie strategie, sostanzialmente marciando verso una sorta di partnership.
Alcune prove delle ragioni di questo cambio di rotta sono state presentate dal Procuratore Generale dello Stato del Texas, nell’ambito di un procedimento antitrust, che coinvolge in totale dieci stati americani.
I dettagli degli accordi sottoscritti da Google e Facebook sono stati secretati, anche se il New York Times sostiene di averne potuto leggere il contenuto. Secondo quanto rappresentato dall’autorevole testata, diversi dirigenti avrebbero testimoniato l’offerta, da parte di Google, di vantaggi commerciali per Facebook, nella prospettiva di costituire una sorta di cartello in grado di estromettere dal mercato le società concorrenti.
All’alba dei nuovi imperi
Imperi. Stiamo semplicemente descrivendo i nuovi imperi.
Non c’è altro modo per definire entità che dispongono di risorse finanziarie pressoché illimitate, che esercitano la propria influenza in un territorio geograficamente vastissimo, che sempre più apertamente svolgono attività “politica” – non sempre in senso lato – e che possono contare su una comunità di utenti (sempre più sudditi) che conta miliardi di persone.
Si tratta di entità, peraltro, in grado di autoalimentarsi e decidere, quasi da sole, le dimensioni e i tempi del proprio ulteriore sviluppo.
Gli imperi, tuttavia, sono inesorabilmente destinati a cadere, prima o poi, lo insegna la storia, e cadono quasi sempre per una serie di concomitanti eventi che si ripetono.
È quindi lecito domandarsi se anche questi originali imperi siano destinati, presto o tardi, a crollare e se, anche per loro, saranno fatali le stesse circostanze che lo furono per gli antichi predecessori.
Un semplice confronto, un esercizio intellettuale da non associare ad auspicio menagramo – ben lungi da chi scrive – semmai un paradossale ragionamento provocatorio.
Anzi, considerando che la vita degli imperi fin qui conosciuti raggiunge in media i 2/300 anni, stiamo probabilmente portando fortuna allo stravagante binomio Zuckerberg/Alessandro Magno, poiché ci troveremmo all’alba, e certo non al tramonto, del dominio dei Giganti del Tech.
A prescindere da questa considerazione, ve n’è un’altra che esclude profili jettatori al quesito, e consiste nell’anticipazione della risposta: è molto complicato immaginare che gli imperi sorti alle porte del terzo millennio patiranno le medesime vulnerabilità dei loro autorevoli antenati.
Molteplici debolezze hanno accomunato gli Inca, i Romani, i Persiani, gli Spagnoli, i Russi e via dicendo, nessuna delle quali seriamente in grado di impensierire i domini delle industrie del web.
La decadenza delle idee
In primo luogo, la decadenza delle idee.
Gli imperi, presto o tardi, hanno perduto la loro forza propulsiva, l’energia trainante della genesi, l’originalità delle proprie idee di fondo.
Quelli di cui parliamo oggi, tuttavia, sono imperi che racchiudono il concetto di innovazione nel proprio DNA. Rinnovarsi costantemente è uno degli scopi della loro esistenza, non un semplice mezzo per raggiungere altri fini. Il continuo superamento del presente in favore di un futuro tutto da costruire è il centro di ogni obiettivo.
L’impoverimento e l’incapacità di controllare il territorio e di difendere confini troppo vasti?
Nel terzo millennio i confini sono essenzialmente virtuali, non esiste il problema di mantenere le legioni dislocate nei territori più distanti, nell’arduo tentativo di respingere l’invasore di turno. La “navigazione”, come noto, è prassi decisamente più comoda oggi di quanto non lo fosse in passato.
E per quel che riguarda il rischio di impoverirsi, almeno per ora appare improbabile, proprio per la capacità che questi colossi hanno di far piovere sul bagnato e di creare ulteriore ricchezza sulla ricchezza enorme già accumulata.
Allora, forse, quell’incapacità di creare una visione unitaria nei popoli conquistati, che ha sempre finito per alimentare divisioni, sfociando sovente in conflitti aperti?
Difficile. I social hanno reinventato il concetto stesso di “comunità”.
L’esempio più eclatante è Facebook: il suo “popolo” presenta tratti culturali distintivi che, per molti aspetti, superano i tracciati nazionalistici di chi vi aderisce. Ed è una considerazione destinata a diventare ancora più vera con il passare del tempo, perché buona parte degli utenti è nata e si è formata prima che internet diventasse fenomeno di massa, sviluppando un giudizio critico tendenzialmente più autonomo.
Le nuove generazioni sono invece accompagnate, istruite ed assuefatte, fin dalla tenerissima età, ai nuovi standard della comunicazione globale. L’omologazione dei “popoli conquistati” e del loro modo di pensare è, già oggi, decisamente più facile da conseguire (e questa, obiettivamente, non è una prospettiva entusiasmante).
Conflitti, malattie, carestie
Gli imperi cadono talvolta a causa di conflitti bellici, ma questi sono imperi particolari, privi di eserciti, non ne hanno bisogno, e sembrano aver sviluppato un’abile capacità di dialogo e collaborazione, che sempre più di rado li pone in conflitto tra loro. La partnership Google/Facebook di cui si è fatto cenno lo testimonia.
Certo, è immaginabile che la sopraggiunta debolezza dell’uno spinga l’altro a conquistare un nuovo “territorio”, ma non sarà la sostituzione di un addendo a modificare il risultato finale.
Peste, malattia e carestie?
Chissà. Per il momento l’esempio di Covid-19 sembra dire il contrario. La malattia che sta impoverendo e mettendo in ginocchio il mondo intero ha esponenzialmente incrementato il fatturato delle Big Tech, senza nessuna eccezione.
Conclusioni
Insomma, i nuovi imperi sembrano invincibili, o quantomeno impermeabili alle degenerazioni che condannarono i vecchi.
Perfino la prospettiva che il popolo finisca per ribellarsi alla tirannide non sembra molto plausibile, perché se di tirannide si tratta – e certo non ci si spinge a tanto in questo ragionamento – è ben mascherata dietro la miglior prospettiva democratica mai conosciuta, che fa dell’esaltazione (fino a che punto reale?) del principio di libertà d’espressione una delle proprie cifre distintive.
Se non cadranno per le ragioni del passato, cosa ne causerà il collasso? O semplicemente non cadranno?
Sarebbe forse più facile nutrire maggior fiducia, se questi nuovi imperi avessero un aspetto un po’ meno invincibile, appena più umano. L’invulnerabilità, a ben pensarci, spaventa.