Potremmo dire – parafrasando ciò che disse con grande enfasi Neil Armstrong mentre poneva il piede sull’ultimo scalino del Lem prima di scendere sul suolo lunare (“un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’umanità”), che questo è “un piccolo passo avanti per la giustizia”. Ma non è ancora abbastanza e soprattutto arriva con colpevole ritardo. Nei giorni scorsi, il Comitato giudiziario della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha formalmente approvato un rapporto che mette sotto accusa le società del Big Tech per avere violato ogni sacro principio capitalistico (a parole) di concorrenza, impedendo l’accesso al mercato di nuove imprese e quindi bloccando l’innovazione tecnologica[1].
È solo l’inizio di un processo politico molto complicato, i tempi saranno lunghi e l’esito non è scontato (non dimentichiamo la potenza di fuoco della Silicon Valley); e soprattutto riguarda le logiche del capitalismo e non ancora, se non indirettamente, la democrazia economica e politica e la libertà di coloro che sono oggetto (cioè tutti noi) dell’azione pervasiva di questo oligopolio – quello che si definisce come Gafam, ma non solo – composto di imprese a loro volta monopolistiche in ciascuno dei rispettivi settori di mercato. Ma non dimentichiamo che in una realtà politica tutta diversa, ma con problemi analoghi legati alle imprese Big-Tech, cioè la Cina, sta accadendo qualcosa di analogo.
Il potere dell’oligopolio tecnologico
Tralasciamo di addentraci nella teoria economica sui monopoli e oligopoli. Sottolineiamo invece che quella dei monopoli/oligopoli è una lunga storia; e soprattutto che le cattive abitudini sono strutturali/innate al capitalismo e appunto non riguardano solo monopoli/oligopoli-posizioni dominanti (per non parlare di quello che si chiama complesso militare-industriale), muovendosi piuttosto a 360 gradi e da lungo tempo, dal colonialismo allo sfruttamento del lavoro (e del pluslavoro) – arrivando persino a invocare la libertà di licenziamento durante la pandemia – e a quello delle risorse naturali-ambientali; dallo sfuggire allo stato di diritto e dalla sua fiscalità al ripudio dell’etica e della responsabilità sociale (troppo spesso più sulla carta che reale) e soprattutto di quella nei confronti della biosfera e delle future generazioni.
C’è invece una domanda che occorre porsi: chi e perché ha lasciato che in Occidente il Big Tech diventasse un oligopolio fatto di imprese appunto monopolistiche ciascuna nel suo campo di azione? E perché solo ora, dopo più di tre lustri di libertà quasi illimitata riconosciuta alla Silicon Valley, si cerca di piantare qualche paletto? È per altro evidente – dovrebbe esserlo, ma non lo è – che un oligopolio di monopoli come quello della Silicon Valley (e non solo) ha effetti sull’intero globo e sulla totalità dei paesi, proprio perché quelle tecnologie e quelle forme organizzative e disruptive (come Amazon) sono globali: è allora corretto che a decidere siano solo gli Stati Uniti e non una Corte internazionale? Per gli Usa sarebbe qualcosa di intollerabile (infatti non aderiscono neppure alla Corte penale internazionale, cosa che non li rende certo – solo per questo, per non dire di altro – un modello virtuoso), ma per il resto del mondo sarebbe invece qualcosa di assolutamente necessario. Era inoltre evidente – era nelle loro strategie d’impresa, era nella logica della disruption celebrata da economisti mainstream e da politici che andavano e vanno in pellegrinaggio in California – che quelle del Big Tech erano imprese determinate a produrre una situazione di oligopolio-monopolio e a diventare sempre più grandi e potenti.
D’altra parte, questo oligopolio del Big Tech non ha forse conquistato il mondo in nome dell’America first (sempre e comunque; al di là di Trump)? Non è forse un altro modo – tecnologico – di colonizzazione del vivente e di accrescimento ulteriore dell’egemonia dell’american way of life? Oggi temiamo la conquista cinese del mondo, dimenticando che un processo analogo è già avvenuto negli ultimi cento anni da parte degli Usa – e consigliamo di leggere il fondamentale e documentatissimo “L’impero irresistibile”, della storica Victoria De Grazia[2], appena ripubblicato.
Ma allora, come nasce un monopolio/oligopolio? Si tratta anche di una forma particolare di esercizio/affermazione del potere, cioè – così lo definiva ad esempio il sociologo della politica Heinrich Popitz (1925-2002) – è il potere dei dati di fatto, che Popitz include tra le diverse forme di potere (è soprattutto un potere della tecnica e dell’innovazione tecnologica) e che qui applichiamo anche alla costituzione di oligopoli e monopoli; ricordando in premessa che il dinamismo tecnologico è intrinseco al capitalismo (quello che appunto chiamiamo tecno-capitalismo, ma lo aveva ben compreso già Marx) e che l’innovazione tecnologica è oggi sempre più business in sé e per sé (per il profitto privato) e sempre meno mezzo al servizio della società.
Il potere dei “dati di fatto”
Scriveva Popitz: “Quando trasformiamo ciò che ci è dato dalla natura a nostro vantaggio, esercitiamo un potere; ma appunto non si tratta solo di un potere sulla natura, bensì anche su altri uomini”. E poi: “Ogni artefatto aggiunge un fatto, un dato nuovo alla realtà del mondo. Chi è responsabile di aver introdotto questo nuovo dato di fatto, proprio in quanto creatore di dati di fatto, esercita un tipo particolare di potere sugli uomini soggetti a questa innovazione”[3]. Che è appunto la forma di potere che hanno esercitato ed esercitano Bezos e Zuckerberg e prima ancora Steve Jobs e prima ancora Henry Ford.
Ed esercitando il potere – soprattutto questo potere ottenuto imponendo un dato di fatto – si genera un rapporto di autorità (e l’autorità – anche politica, soprattutto antropologica – è oggi nella Silicon Valley, più che negli Stati), che a sua volta si basa (ancora Popitz) “su un doppio processo di riconoscimento: di colui che stabilisce e dà la norma di comportamento” – cioè riconoscimento/accettazione dell’autorità del produttore del dato di fatto da parte di coloro ai quali il dato di fatto viene sovra-imposto; e sullo sforzo di essere riconosciuti, da parte di coloro che si sottomettono all’autorità del dato di fatto della nuova tecnologia e di chi la produce, e “di ottenere da lui delle conferme”. Tradotto: esisto solo se sono in un social, perché ho molti followers, eccetera. Un doppio processo che riguarda la politica come qualsiasi altra forma di organizzazione eteronoma, ma che oggi riguarda soprattutto l’impresa e quella forma particolare di impresa privata che sono appunto i social.
Apple, Microsoft, Amazon e gli altri componenti dell’oligopolio Gafam hanno infatti introdotto degli artefatti che si sono imposti sulla nostra vita appunto come dei dati di fatto. A prescindere dalla nostra volontà, dalla nostra consapevolezza, a prescindere soprattutto da una decisione democratica su tali innovazioni/artefatti. Ovvero, il governo della vita umana passa non più attraverso la sovranità dello Stato (cioè del demos, attraverso l’emanazione di leggi approvate consapevolmente e deliberatamente dai cittadini attraverso i loro rappresentanti), ma mediante e mediata da degli artefatti che a loro volta sono dei prodotti creati da imprese private. Che a loro volta si sono imposte come oligopolio di monopoli–dato di fatto. Oligopolio che è ormai anch’esso un dato di fatto, perché nessuno vuole più rinunciare ad Amazon e nessuno vuole rinunciare al suo smartphone.
A questo aggiungiamo la nostra fascinazione infantile per tutto ciò che è o sembra nuovo, nonché il nostro feticismo per tutto ciò che è tecnologia, quindi rimescoliamo – e il gioco è fatto. A prescindere dalla democrazia e dalla consapevolezza umana. Ma questo era esattamente quanto si proponevano queste imprese fin dal loro nascere, con contorno di anarco-capitalisti e di intellettuali organici che ripetono: “il nuovo non si deve fermare”. Tutto questo ha prodotto la coincidenza e l’identificazione di ciascuno di noi con tale oligopolio. Coincidendo/identificandosi con il sistema, l’individuo ne ha accettato appunto di fatto l’autorità (che diventa autorità legittima in quanto incessantemente legittimata da ciascuno di noi, coincidendo sempre più con esso, dipendendo sempre più da esso come sistema tecno-capitalista ogni volta che usiamo un dispositivo tecnologico (dispositivo in senso soprattutto normativo/di regolazione della vita).
Analogamente a Popitz, ma passando da un sociologo ad uno scrittore, ecco cosa scriveva venti anni fa Hans Magnus Enzensberger[4]: “Antichissime fantasie di onnipotenza hanno così trovato un nuovo rifugio nel sistema delle scienze”, anche se non si tratta della totalità della produzione di sapere. Tuttavia, “la sua strategia è semplice – mira con abilità al fatto compiuto, al quale la società deve rassegnarsi, indipendentemente da come esso stesso si presenta. Con la stessa abilità viene liquidata ogni obiezione, vista come attacco alla libertà di ricerca, come ostilità inspiegabile verso la scienza e la tecnica e come superstiziosa paura del nuovo e del futuro. (…) La scienza, fusa con l’industria si presenta come causa di forza maggiore, che dispone del futuro della Società”. Dati di fatto o fatto compiuto, il significato è identico. Che è esattamente ciò che è accaduto negli ultimi trent’anni.
Un crescente deficit di democrazia
Ovvero, la tecnica, con il capitalismo impone agli uomini la sua norma del dover vivere adattandosi e solo adattandosi a una incessante produzione industriale di dati di fatto che sono prodotti sempre più per puro profitto privato: una norma che regola – formandoli, formattandoli, ingegnerizzandoli, normalizzandoli così come richiesto dal sistema per il proprio funzionamento (anche mediante l’attivazione del nostro feticismo per l’innovazione tecnologica) – i comportamenti umani, le azioni, i pensieri, le forme di organizzazione del lavoro e del consumo e del divertimento, le relazioni, le emozioni, i processi di socializzazione e di assunzione di ruoli sociali/tecnici. Norma che è normante e normalizzante proprio perché è un dato di fatto, cioè determina e vincola i comportamenti umani; e insieme omologante: ci identifichiamo cioè così a fondo con l’oligopolio del Big Tech che esso diventa un potere che non si vede ma che è ben presente e potente proprio perché non si fa vedere, perché è un dato di fatto, perché lo percepiamo – perché si fa abilmente percepire da noi – come un dato di fatto, come qualcosa di assolutamente normale e non di a-normale e di anti-democratico come invece è. Dando così però forma tecno-capitalistica alla società a prescindere dal demos e riducendo le occasioni e gli spazi di libertà.
E allora riprendiamo ancora una volta le riflessioni del 2011 del sociologo italiano Luciano Gallino (1927-2015): “La democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. (…) e viene naturale includere diversi aspetti attinenti all’economia o ad essi strettamente correlati. E invece, oggi “la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono” nei settori dell’economia, di fatto espropriati e alienati dalla democrazia, per l’azione di quel soggetto che si chiama grande impresa, industriale o finanziaria, italiana o straniera che sia. “Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e sulla stessa economia”. E Gallino richiamava F. D. Roosevelt che nel 1938 si era dichiarato preoccupato non solo perché l’impresa privata creava sempre meno occupazione (come oggi) e accentuava le disuguaglianze sociali (come oggi), ma anche perché era una minaccia per la stessa democrazia esercitando un potere più forte e condizionante dello stesso Stato (come oggi, semmai ancora di più). E infatti aggiungeva Gallino: ormai “la preoccupante visione di Roosevelt si è pienamente avverata”. E quindi, “ancora più arduo è capire (…) come, in Italia, tra le file dell’opposizione non si sia levata una sola voce per rilevare che il potere esercitato dalle corporation sulle nostre vite configura un deficit di democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra epoca”[5].
Un deficit di democrazia che si esprime non solo nel potere (superiore da tempo a quello degli Stati e non bilanciato da alcun contropotere altrettanto potente), delle corporations sulla nostra vita (e già questo è contro ogni logica democratica di divisione del potere); ma anche e peggio nella nascita di oligopoli, monopoli e oligopoli di monopoli nazionali ma soprattutto globali fatti da queste corporation. Lasciando che questo si formi, abbiamo creato noi stessi – ogni volta che siamo su un social – un crescente deficit di democrazia. Cioè di libertà. Oggi si cerca di porre qualche rimedio. Ma il danno ormai è fatto, ha scavato in profondità nei comportamenti collettivi. Occorre quindi ben altro che nuove norme antitrust e in nome della concorrenza.
Ovvero, il maggior problema politico della nostra epoca è quello per cui, di fatto, sono imprese private (finalizzate unicamente alla massimizzazione del loro profitto) a governare il mondo e la nostra vita. E questo costituisce davvero un gigantesco deficit di democrazia.
Oltre che di governo politico dei processi tecnologici. Se ne è appunto accorta anche la Cina, che non è un paese democratico, ma dove il Big Tech sta mettendo in crisi lo stesso potere del Partito comunista. E dopo Alibaba è toccato a Meituan, gigante del delivery finire sotto attacco per pratiche monopolistiche. L’accusa è la stessa usata contro Alibaba, ovvero proibire che i commercianti possano mettere i propri servizi e prodotti su piattaforme diverse. Così limitando la concorrenza (in un paese che si dice comunista…).
Come ha scritto Simone Pieranni, esperto di Cina e di tecnologia: “Si tratta di una sorta di capitolo a parte nelle vicende cinesi: il Partito comunista di Xi Jinping non ha intenzione di lasciare spazio alle imprese private, il cui successo del resto dipende esclusivamente dalla capacità del Partito sviluppata negli anni di tenere fuori dal paese la feroce concorrenza straniera. Ma come accade anche in Occidente, il peso di queste piattaforme è via via divenuto sempre più ampio, sia da un punto di vista economico, sia finanziario, ma non solo. Queste aziende sono i contenitori di miliardi di dati preziosi per allenare e sviluppare algoritmi e forme di intelligenza artificiale, ma allo stesso tempo rischiano di detenere una potenziale influenza sui propri clienti anche in termini di opinione pubblica: molte delle piattaforme partecipano infatti anche a società che si occupano di informazione”[6].
Occidente e Oriente hanno dunque lo stesso problema con il potere del Big Tech. Dopo averlo lasciato crescere, ora ne patiscono l’eccesso di potere (di fatto).
Bibliografia
- D. Aliperto, “Tegola sulle Big Tech, la Camera Usa approva il rapporto che le accusa di monopolio”corrierecomunicazioni.it/digital-economy/big-tech-e-concorrenza-la-camera-usa-approva-il-rapporto-che-le-accusa-di-avere-troppo-potere/ ↑
- V. De Grazia, “L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo”, Einaudi, Torino ↑
- H. Popitz, “Fenomenologia del potere”, il Mulino, Bologna, 2001, pag. 23 ↑
- H. M. Enzensberger “Scienziati, aspiranti redentori”, in “Corriere della sera” del 4/6/2001) ↑
- L. Gallino, “Democrazia e grande impresa”, in “MicroMega” nr. 4/2011, pag. 133 e segg. ↑
- S. Pieranni, “Caccia grossa del Pcc alle piattaforme, indagine su Meituan”, il manifesto del 29/04/2021 ↑