Google, Facebook, Apple e Amazon sono i protagonisti di una complessa ed approfondita analisi del parlamento statunitense in tema di antitrust, un’analisi dalle conclusioni nette circa la “colpevolezza” dei quattro colossi del tech, anche se i suoi effetti reali rimangono ancora incerti.
Il risultato di questa indagine è un report di ben 449 pagine che dettaglia l’approfondita attività di ricerca condotta dal sottocomitato che si occupa di antitrust, diritto commerciale ed amministrativo dell’House Judiciary Committee della Camera dei Rappresentanti statunitense.
L’House Judiciary Committee
L’House Judiciary Committee è un comitato permanente in sede alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti e si occupa di supervisionare l’amministrazione della giustizia negli USA a livello federale, nonché dell’approvazione dei celebri “articles of impeachment” nei confronti delle cariche federali e del Presidente (l’ultimo in ordine di tempo è quello che ha coinvolto Trump nel 2019).
Ma perché è un simile organo ad occuparsi di questa indagine relativa a problematiche antitrust?
In realtà il Comitato si è occupato in numerose occasioni di tematiche antitrust, in quanto sovrintende anche l’operato delle autorità federali che si occupano di antitrust, creando vere e proprie “task-force” in relazione a specifici soggetti o operazioni in numerose occasioni in seno al suo apposito sottocomitato (tra queste, alcune celebri indagini hanno riguardato la “big tech” grande esclusa da questa indagine, ovvero Microsoft).
L’ultima indagine di cui si è occupato il Comitato, quella che ha tenuto nel mirino Google, Facebook, Apple e Amazon per molti mesi, è iniziata nel giugno 2019 su iniziativa bipartisan.
Un’indagine, tre report
L’indagine ha in realtà dato origine a tre diversi report a causa di una spaccatura fra i componenti del comitato. Il report “di maggioranza” (quello di 449 pagine) approvato dalla maggioranza (democratica) del sottocomitato, è accompagnato da due report “di minoranza” realizzati dalla minoranza repubblicana e fondati su una diversa lettura dei dati, uno dei report “di minoranza” si concentra sul fatto che le big tech sarebbero prevenute nei confronti delle forze politiche conservatrici, mentre il secondo concorda su alcune conclusioni dei democratici ma propone anche misure ulteriori e diverse per limitare lo strapotere delle big tech.
L’indagine era già finita sotto i riflettori già lo scorso 29 luglio, quando i rappresentanti delle quattro aziende erano stati convocati per un’audizione alla Camera.
All’audizione il leit motiv adottato dalle aziende è stato quello di ricordare il fatto che stiamo parlando di aziende “orgogliosamente americane” che creano moltissimi posti di lavoro e che soffrono la concorrenza straniera. Mark Zuckerberg, in particolare, ha sottolineato il “pericolo cinese” di un internet alternativo non improntato ai valori di libertà e democrazia statunitensi (di cui Facebook si farebbe invece portavoce).
Big Tech, una sola etichetta per 4 aziende molto diverse
Dopo l’audizione il Comitato ha emesso il proprio final report, pubblicato martedì 6 ottobre. Esaminando il contenuto del report, ci si rende subito conto che le quattro società sotto la lente del Comitato, al di là dell’etichetta di “big tech” che le accomuna sono molto diverse fra loro e i timori che scatenano e i comportamenti che adottano denotano profonde differenze.
È intuitivo, infatti, comprendere come un monopolio di Facebook nel mondo dei social network sarebbe ben meno dannoso, più gestibile (e forse più fragile) del monopolio di Amazon nel settore dello shopping online e del duopolio Google/Apple nel settore degli OS mobili.
Gli atteggiamenti più preoccupanti e le contromisure suggerite
Il report dedica la maggior parte delle sue 449 pagine ad esaminare gli atteggiamenti più preoccupanti, nei rispettivi settori, dei quattro colossi, per poi proporre misure di modifica della normativa antitrust, per poter efficacemente fronteggiare gli effetti negativi della concentrazione di potere in capo a queste aziende.
Tra queste misure (sufficientemente generiche allo stato), ci sono:
- limitare la capacità delle società di competere in modo sleale contro terzi sulle proprie piattaforme;
- imporre interoperabilità ai social network (così da consentire la comunicazione multipiattaforma e il trasferimento dei propri dati da una piattaforma all’altra);
- introdurre una “presunzione di anticoncorrenzialità” per le acquisizioni effettuate da imprese in posizione dominante, salvo prova contraria;
- consentire agli editori di collaborare e fare rete per negoziare con le piattaforme tecnologiche che diffondono (e utilizzano) i loro contenuti.
Le soluzioni proposte dal report vanno poi nella direzione di rafforzare la normativa antitrust anche e soprattutto andando a rafforzare gli strumenti di enforcement della normativa, sia pubblici che privati.
I limiti del private enforcement
Il “private enforcement” gioca infatti un ruolo importante in numerosi settori dell’economia USA il cui controllo in Europa è deputato unicamente all’autorità pubblica. Sia lo Sherman Act (la legislazione fondamentale in materia di antitrust negli USA, emanata ancora nel lontano 1890) che il Clayton Act (la normativa antitrust intervenuta nel 1914 per correggere alcuni problemi verificatisi dopo l’entrata in vigore dello Sherman Act) prevedono infatti meccanismi di private enforcement.
In sostanza con strumenti come ad esempio i danni punitivi, si fa in modo che il settore privato sia incentivato a “scovare” i comportamenti illegittimi e a perseguirli (il “privato cittadino” così non solo denuncia il comportamento illegale, ma lo prova in causa e, se vittorioso, ottiene una soddisfacente ragione economica).
Il private enforcement è però osteggiato (ovviamente) dai colossi del tech, che si difendono principalmente in con clausole arbitrali ad hoc, così riuscendo ad evitare i tribunali in favore di giudici privati, più costosi e meno inclini a risarcimenti milionari (Amazon in particolare, secondo il report, ha subìto solamente 163 procedure arbitrali tra il 2014 e il 2019 dai suoi oltre due milioni di venditori, sintomo che l’arbitrato non è uno strumento contenzioso appetibile per i contraenti deboli).
Il report si chiude quindi con un elenco (impressionante) di tutte le acquisizioni che negli anni hanno posto in essere le quattro aziende sotto esame, basti pensare che nel solo 2019 le “big four” hanno acquisito 33 aziende (Amazon 10, Apple 9, Facebook e Google 7 ciascuna) nei più svariati settori (tra cui spiccano start-up nel campo della realtà aumentata, robotica, intelligenza artificiale, veicoli autonomi, ma anche campi meno scontati, come il settore della sanità in cui hanno investito sia Amazon che Apple nel corso del 2019).
Prima di arrivare a proporre delle soluzioni il report esamina nel dettaglio la posizione attuale, sul mercato, delle quattro big tech, e ripercorre come le singole aziende sono arrivate dove sono ora.
Quanto a Facebook il report censura il fatto che l’azienda che gestisce il social network ha sistematicamente acquisito potenziali concorrenti scomodi.
La concorrenza nel settore dei social network coinvolge più spesso Facebook e le sue “sussidiarie” che veri e propri competitor dell’azienda.
Il report afferma che l’assenza di concorrenza ha finito per deteriorare la qualità e l’attenzione alla privacy da parte del social network.
A Facebook, comunque, il report dedica meno “pagine” che alle altre aziende (stiamo parlando di “solamente” 37 pagine), ma ventila la possibilità di una separazione fra Facebook da Instagram (attività che comunque sarebbe di competenza del Dipartimento di Giustizia e su cui quindi il report non può incidere) e propone comunque di rendere più difficili, pro-futuro, le acquisizioni da parte di Facebook e dirette ai concorrenti.
Amazon
Il report afferma che il monopolio di Amazon nel settore dello shopping online ormai è radicato da anni e che questo si traduce in una situazione di quasi monopsonio (accentramento della domanda) nei confronti di numerosissime piccole e medie imprese, che non hanno alternative per raggiungere i clienti online se non quella di soddisfare le condizioni della multinazionale con sede a Seattle.
L’analisi si sofferma anche sulla posizione di dominio di Amazon nel settore sei servizi web, con AWS (Amazon Web Services) che ad oggi, solo in USA, lavora con oltre 6.500 agenzie governative ed ha creato una potenza impareggiata quando ai servizi cloud in outsourcing.
Il report censura poi il modello di business di Amazon, che non genera profitti, ma in questo modo riesce a battere la concorrenza, minimizzandola al punto da poter generare profitti quando questa concorrenza non potrà più nuocergli.
Apple
Nel report, la posizione di Apple viene esaminata soprattutto con riferimento al mercato delle app.
Con uno store unico per i propri servizi (in Android il PlayStore, almeno in teoria, può concorrere con store alternativi) Apple può dettare legge e sfruttare la sua quota di mercato per imporre ai creatori di applicazioni qualsiasi condizione senza che questi possano protestare.
Il comitato esamina da vicino, in proposito, il recente caso Fortnite, con l’app del famoso videogioco che è stata rimossa dallo store Apple (e poco dopo dal PlayStore) perché ha rifiutato di far passare gli acquisti in app dagli strumenti di pagamento predisposti dal colosso di Cupertino, bypassando così la commissione in favore di Apple (la cosiddetta Apple Tax).
Il report menziona anche un altro caso, meno noto, in cui Apple ha imposto il proprio meccanismo di IAP (in app purchase) pena l’esclusione dall’Apple Store. ProtonMail, un applicativo per gestire la posta elettronica in maniera sicura e orientata alla privacy, aveva infatti già segnalato al comitato di essere stata costretta ad implementare il sistema IAP di Apple nel 2018, pena l’esclusione dall’Apple Store.
Con riguardo ad Apple il Comitato propone con decisione l’implementazione di una politica di non discriminazione degli sviluppatori di app, evitando soprattutto che Apple stessa concorra direttamente con loro (ad esempio ProtonMail è in diretta concorrenza con l’app Mail di Apple, e proprio questa concorrenza sarebbe, secondo gli sviluppatori dell’app, il motivo delle richieste di Apple nei loro confronti).
Sarebbe interessante vedere fin dove potrebbe spingersi una simile politica di non discriminazione (basti pensare che ad oggi Apple consente l’utilizzo del chip NFC presente sugli iPhone unicamente all’app ApplePay, una politica che verosimilmente dovrebbe cambiare se Apple fosse costretta a non discriminare gli altri sviluppatori, ma che evidentemente impatterebbe sulla filosofia del prodotto Apple, che ha fatto della “pulizia” del software un punto di forza fin dal primo iPhone).
Sebbene il Comitato ripeta alcune delle censure mosse ad Apple anche nei confronti di Google con riguardo al monopolio del Play Store, il focus dell’analisi su Google è evidentemente quello del monopolio sulla ricerca web.
Anche l’OS Android viene preso in considerazione soprattutto per il fatto che consente a Google di garantire che la stragrande maggioranza delle ricerche effettuate via smartphone siano effettuate attraverso il motore di ricerca di Mountain View.
Anche qui un ulteriore problema è l’integrazione verticale fra i servizi. Google domina il momento della ricerca web, e ne approfitta per integrare il suo servizio di mappe nella ricerca, o Google Shopping, creando così un circolo vizioso per gli utenti (e virtuoso dal punto di vista di Google) per cui la ricerca migliora integrando i servizi (divenendo così più appetibile per utenti e inserzionisti) e i servizi “accessori” come Google Maps e Google Shopping diventano a loro volta più utilizzati e quindi più appetibili per gli inserzionisti. Questo a scapito della concorrenza.
Un simile meccanismo rafforza Google nella promozione di Android, Google Chrome e gli stessi Chromebook, tutti strumenti che giovano dell’integrazione con Google e che, di rimando, portano giovamento alle piattaforme di Google con cui l’azienda monetizza.
Una stima riportata nel report afferma che Google Maps arriva a coprire l’80% delle ricerche percorso e navigazioni turn-by-turn.
Con Google Maps, gli effetti del monopolio di Google si sono già visti. Per anni, Google ha infatti offerto un piano gratuito per l’utilizzo delle API di Google Maps, incentivando così gli sviluppatori a creare le proprie applicazioni utilizzando il servizio Google. Nel 2018, tuttavia, Google è passata ad offrire unicamente un servizio a pagamento e questo cambiamento ha portato, secondo le stime riportate dal Comitato, un aumento di prezzo del 1.400% da un giorno all’altro. L’aumento non ha però comportato un tracollo nell’utilizzo dell’app, divenuta ormai così essenziale e diffusa da risultare irrinunciabile.
La reazione dei quattro colossi
Non si sono fatte attendere le reazioni delle “big four”, con dichiarazioni in cui si contestano le conclusioni del report, definendole inaccurate ed errate.
In particolare Facebook, che nel report è indicato come un’azienda che sistematicamente acquisisce i potenziali competitor prima che questi diventino una reale minaccia (es. Instagram e WhatsApp), ha reagito al report evidenziando come le acquisizioni siano fisiologiche sul mercato, mentre Amazon ha risposto affermando che non basta essere grandi compagnie per avere una posizione dominante sul mercato e che il report è frutto della errata presunzione che il successo derivi sempre da condotte anticoncorrenziali.
Conclusioni
Le proposte più interessanti del report sono senz’altro quelle che vanno nella direzione di implementare politiche di “separazione strutturale” ovvero di impedire alle aziende in posizione dominante di competere sulle loro piattaforme, giocando in casa e riuscendo così a superare i propri fornitori.
Si tratta di situazioni a cui in realtà siamo abituati, basta pensare ai prodotti Amazon Basics su Amazon, alla linea di telefoni prodotti da Google, ai laptop di Microsoft.
L’idea di questa “separazione strutturale” ha i suoi pregi, ma potrebbe rivelarsi molto difficile da attuare nella pratica, in quanto sono note le formule creative con cui queste aziende gigantesche riescono ad aggirare normative così complesse da formulare (spesso l’aiuto viene dalla tecnologia, settore in cui queste aziende eccellono, che consente di creare nuovi modi per sfruttare una sinergia strutturale a scapito della concorrenza, pensiamo ad esempio ad Amazon Prime, che da semplice “programma fedeltà” è ora evoluto in un inscindibile piattaforma di consumazione di contenuti di diverso tipo, connessa ad una scontistica dedicata su Amazon).
Tra le soluzioni più interessanti proposte dal report ci sono poi quelle che escono dalle competenze del comitato e si spingono a suggerire maggiore attenzione alla privacy (proponendo soluzioni in linea con il GDPR europeo).
Se c’è però un dato che emerge dal report e dovrebbe allarmare è proprio l’atteggiamento di questi colossi, che di fronte all’indagine governativa, come riportato in più punti del report, hanno in numerose occasioni cercato di sottrarsi all’indagine, di evitare di collaborare e addirittura hanno chiesto ai loro dipendenti di non collaborare o di mentire (ad esempio ai dipendenti Amazon è stato chiesto, in una nota interna, di respingere la ricostruzione del Comitato secondo cui i profitti generati da AWS sarebbero utilizzati per coprire le perdite degli altri comparti aziendali definendola un “mito” e nulla più).
Sono questi gli atteggiamenti che nel 2020 non possono essere più tollerati, una mancanza di trasparenza da parte di multinazionali che gestiscono i nostri dati e le nostre vite digitali deve metterci in allarme e deve spingerci a reagire.