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Big Tech, verso una nuova governance: le leggi in arrivo da USA, Europa e Cina

Di fronte alla complessità crescente della società del XXI secolo le regole a tutela delle democrazie sono entrate pesantemente in crisi, stritolate nella morsa dell’egemonia Big Tech. In gioco ci sono i diritti e libertà fondamentali, ma anche lo sviluppo digitale e l’innovazione. E gli Stati si preparano alla stretta

Pubblicato il 25 Feb 2022

Barbara Calderini

Legal Specialist - Data Protection Officer

big tech

L’autoregolamentazione delle Big Tech non ha funzionato e i governi di tutto il mondo si stanno attivando per rispondere alle complesse questioni che emergono dalla rivoluzione tecnologica.

Le grandi multinazionali tecnologiche hanno infatti assunto il ruolo di arbitri – sulla base di una delega de facto non disconosciuta dalle istituzioni – operando quel bilanciamento che investe i diritti e le libertà fondamentali di miliardi di persone e interessi spesso di rilevanza pubblica.

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Recentemente quindi abbiamo assistito ad una diffusa ondata di proposte per regolamentare la tecnologia: dall’Asia, all’Australia, agli USA, all’Unione Europea; da Seattle a Pechino, la governance dello spazio digitale appare, oggi, un’esigenza ineludibile ben al di là del “dovere” di promuovere la tutela dei valori tipici di ogni regime.

Dato l’alto grado di turbolenza che caratterizza la nostra epoca, riconoscere i fattori chiave che determinano la buona salute dei diritti umani sul lungo periodo è, infatti, più importante che mai.

La stretta regolatoria e le strategie per il digitale in Usa ed Europa

I conflitti per la governance del web diventano i nuovi spazi in cui il potere politico ed economico si fondono e si sviluppano.

Se da una parte l’interpretazione giurisprudenziale delle Corti Supreme e la lettera della legge si pongono a fondamento dell’affermazione della sovranità digitale di ogni Stato, dall’altro la protezione e la sicurezza delle reti e dei dati personali diviene il presupposto di legittimità cardine per l’innovazione digitale e lo sviluppo economico degli Stati.

Le decisioni della Corte di Giustizia UE nel caso Schrems costituiscono in tal senso uno spaccato esemplare di quanto l’affermazione di una “governance del digitale” intesa quale potere di controllare, de iure e de facto, un certo spazio e le operazioni che ivi si svolgono, rappresenti un vantaggio imprescindibile e dunque irrinunciabile.

Allo stesso modo il percorso globale verso la regolamentazione dei grandi poteri privati delinea i contorni di un allineamento strategico cruciale ben riprodotto nelle attuali strette anti-Big Tech condotte dai vari Stati, sebbene con approcci divergenti, per mettere un freno ai comportamenti monopolistici e “sovrani” delle grandi aziende tecnologiche.

Le grandi piattaforme tecnologiche, gli intermediari digitali cosiddetti “two sided transaction and not-transaction markets” stanno, infatti, facendo i conti con le pressioni delle autorità del mondo, mentre i legislatori sono pronti all’azione.

Governance dello spazio digitale: le iniziative legislative

A livello legislativo, in Europa, si pensi ai provvedimenti espressione del percorso costituzionale dell’Unione per arginare il potere delle piattaforme[1] e che si pongono in linea con il percorso tracciato dal Regolamento generale per la protezione dei dati personali n. 2016/679 (GDPR), dalla Direttiva in materia di copyright e dal Regolamento (UE) 2019/1150 platform to business (finalizzato, almeno nelle intenzioni dei legislatori, a disciplinare i rapporti tra le piattaforme online ed i fornitori definiti “utenti commerciali”): il Digital Services Act, il Digital Markets Act e l’Artificial Intelligence Act.

In Europa

Dopo il GDPR, la Direttiva sul Diritto d’autore (2019/970) e il Regolamento Platform to Business (UE) 2019/1150[2], si prosegue con l’aggiornamento delle norme alla base del libero gioco di mercato in ottica digitale e l’adeguamento del regime normativo di parziale esonero da responsabilità degli intermediari del web, risalente al 2000[3] con la Direttiva e-Commerce (2000/31). Un’era geologica diversa in termini di progresso tecnologico. Parliamo del Digital Services Act e del Digital Markets Act, immagine del Mercato Unico Digitale, annunciato dalla Commissione Juncker nel 2015, prima, e di quella necessaria rivoluzione, finalizzata a riscoprire i valori europei – che avevano forgiato la forza dell’UE e che allo stesso tempo mirano a consolidarne il ruolo di leader globale delle importanti sfide del XXI secolo – ben delineata nell’ “Agenda per l’Europa”, promossa da Ursula von der Leyen, allora candidata a Presidente della Commissione Europea (CE), dopo. Era il 2019.

Non a caso tra le “Political Guidelines” dell’Agenda politica della CE 2019-2024 figurano come obiettivi prioritari sia il Green Deal Europeo, il cui scopo è rendere la UE il primo continente “climate-neutral” entro il 2050, sia, appunto, il Digital Services Act, la legge sui servizi digitali, recentemente rivista e approvata dal Parlamento europeo, e il Digital Markets Act, anch’esso promosso a larghi voti a Strasburgo a dicembre[4]: due regolamenti complementari pensati, il primo , per aumentare, attraverso l’imposizione di precisi obblighi procedurali in capo alle piattaforme, la trasparenza algoritmica, la comprensione e la consapevolezza degli utenti, impedire la proliferazione di tattiche di manipolazione dell’autodeterminazione e “modelli oscuri”, i cosiddetti “dark patterns”, limitare le pratiche di microtargeting pubblicitario, specie rivolte verso i minori o incidenti su particolari categorie di dati ritenuti “sensibili”, arginare le forme di incitamento all’odio e attacchi razzisti online, istigazione alla violenza, fake news e altri contenuti illegali o semplicemente nociv; e per garantire il corretto svolgimento del gioco della libera concorrenza e regolamentare l’economia digitale in mano ai “gatekeeper”, ossia le aziende “dominanti” del web, il secondo.

In modo particolare quello che il Digital Services Act si è proposto è stato agire a livello procedurale prevedendo requisiti di trasparenza e obblighi di diligenza proporzionati alle dimensioni del fornitore di servizi, piuttosto che tentare la strada (peraltro non perseguibile a livello costituzionale) dell’imposizione del controllo ex ante dei contenuti in rete, pericolosamente al confine con deprecabili operazioni di autocensura, non accettabile in un un contesto di diritto com e quello europeo: obblighi che spaziano dalle valutazioni di impatto e di rischio preventive, agli adempimenti in termini di informazione e motivazione, al sistema di gestione dei reclami.

Ovvero dai meccanismi di monitoraggio noti come “notice and take down” ( dopo avere ricevuto una segnalazione da parte del titolare dei diritti, l’autorità intima alla piattaforma di eliminare il contenuto illecito) ad approcci “notice and action”, “avviso e azione” per la rimozione di prodotti, servizi o contenuti illegali online: i fornitori di servizi di hosting dovrebbero agire al ricevimento di un avviso “senza indebito ritardo, tenendo conto del tipo di contenuto illegale che viene notificato e dell’urgenza di agire”.

Premesse dunque importanti che fanno leva tanto sulla costruzione della fiducia quanto sull’investimento nell’innovazione digitale.

Poi sarà la volta del Regolamento sull’intelligenza artificiale.

L’AI Act, attualmente al vaglio istituzioni dell’Unione Europea, proposto dalla Commissione Europea e in attesa di approvazione da parte del Parlamento e Consiglio Europeo prima della partenza definitiva, nato per promuovere sistemi tecnologici “sicuri, trasparenti, etici, imparziali e sotto il controllo umano” che, con la sua rappresentazione piramidale a colori che evidenzia i diversi rischi che le nuove applicazioni predittive e automatizzate potrebbero causare nella società, mira a categorizzare i sistemi di AI, dal rischio minimo alla base della piramide, fino a quello intermedio, a cui corrisponderebbero poche restrizioni, a quello elevato, posto al vertice, a cui corrisponde l’area dell’“inaccettabile”.

Un provvedimento promosso dall’Europa con evidente zelo che, però, non sembrerebbe raccogliere lo stesso entusiasmo negli Stati Uniti e in Cina.

Lungo altre traiettorie, spesso significativamente divergenti, si stanno muovendo Stati Uniti e Cina.

Le strategie Usa

In America, la discussione politica sulla regolamentazione delle Big Tech promette di essere un argomento caldo per tutto il 2022.

Oltre ai disegni di legge che mirano alla rimodulazione dell’immunità da responsabilità della Sezione 230,[5] tra cui il Journalism Competition and Preservation Act del 2021, il Protecting Americans from Dangerous Algorithms Act, il Platform Accountability and Transparency Act (introdotto dai senatori Amy Klobuchar, un democratico del Minnesota e Chuck Grassley, un repubblicano dell’Iowa), i legislatori di Capitol Hill stanno impegnando il Congresso nella valutazione di cinque progetti di legislazione antitrust, spesso presentati con il sostegno bipartisan[6]: tra questi, l’American Innovation and Choice Online Act, introdotto dal senatore Amy Klobuchar, D-Minn., e Chuck Grassley, R-Iowa al Senato, come compagno del disegno di legge del rappresentante Cicilline alla Camera (che presiede la sottocommissione giudiziaria sull’antitrust), e ha ottenuto un notevole successo nonostante i lobbisti della Silicon Valley, i giganti della tecnologia, continuino ad affermare come il disegno di legge, se approvato, paralizzerebbe l’innovazione statunitense e porterebbe a ogni tipo di frustrazione per i consumatori, oltre che a danneggiare le piccole imprese. Trattasi invero di una forte revisione legislativa, ispirata dalla nota indagine durata 16 mesi della sottocommissione sulle pratiche competitive di Amazon, Apple, Facebook e Google, che vorrebbe impedire alle società tech, anche straniere[7], di favorire, sulle loro piattaforme, i propri prodotti, oltre che di utilizzare dati privati per ottenere vantaggi sulla concorrenza e danneggiare i concorrenti limitando la loro capacità di «accedere o interagire con la stessa piattaforma, con il sistema operativo, con le funzionalità hardware e software disponibili per i prodotti, i servizi o le linee di attività dell’operatore della piattaforma coperta». Il 20 gennaio scorso, la Commissione Giustizia del Senato ha approvato la proposta antitrust con voto bipartisan.

A questo si aggiungono ulteriori proposte di legge intese a rafforzare la privacy e proteggere i diritti dei minori online, come il Children’s Online Privacy Protection Act, promosso dal senatore democratico Ed Markey; a frenare la disinformazione, limitare la pubblicità mirata, regolare l’intelligenza artificiale e le implicazioni fuori controllo legate alle criptovalute.

Tutto mentre l’amministrazione Biden e i procuratori generali non lesinano azioni legali per tentare di frenare il potere di mercato delle Big Tech.

E’ del luglio scorso l’Executive Order del Presidente Biden: un provvedimento incentrato sulla promozione della concorrenza nell’economia americana teso a garantire maggiore rispetto delle leggi antitrust nei nuovi settori delle tecnologie, inclusa l’ascesa delle piattaforme digitali dominanti dove proliferano forme di sorveglianza degli utenti e presenza di effetti di rete, spesso favoriti da fusioni seriali, dall’acquisizione di concorrenti nascenti, dall’aggregazione di dati, e dalla concorrenza sleale nei mercati dell’attenzione.

Ed è questo un segnale concreto che lascierebbe intendere un significativo avanzamento rispetto all’ormai evidente inadeguatezza delle logiche sottese alle normative antitrust vigenti in America, ma anche in Europa, ancora fortemente legate alla teoria dei prezzi e del “benessere dei consumatori” a breve termine, e pertanto, del tutto disallineate rispetto alle architetture del potere di mercato dell’economia moderna.

Oltre a ciò e noto come il Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti abbia denunciato Google per aver violato le regole antitrust, e come la FTC abbia aperto un dossier su Facebook (ora Meta Platforms) per fare luce sulle possibili condotte anticoncorrenziali per le faraoniche acquisizioni di Instagram e Whatsapp. Allo stesso modo Amazon e Apple si trovano costantemente nel mirino delle autorità antitrust americane.

L’approccio cinese

Pechino prosegue lungo la rotta del Golden Shield Project, orientata sul capitalismo di stato e la sorveglianza di massa. Dopo l’approvazione della Legge sulla sicurezza dei dati e di quella sulla protezione delle informazioni personali, Data Security Law[8] e Personal Information Protection Law, il governo cinese non nasconde l’intenzione di imporre nuove restrizioni, a cominciare dalle nuove regole di sicurezza informatica[9] e dalle sanzioni applicate in caso di condotta anticoncorrenziale.

Le cosiddette “platform companies” come Alibaba e Byte Dance, che possiedono dati relativi a più di 1 milione di utenti, dovranno, infatti, sottoporsi alla scure della Cyberspace Administration of China – l’autorità di regolamentazione del Paese per il web, e a rigidi controlli di cybersicurezza prima di poter operare e quotare le proprie azioni all’estero. Alibaba, si ricorda, è stata sanzionata per condotta anticoncorrenziale con una delle sanzioni più pesanti mai inflitte dalle autorità cinesi, pari a 2,8 miliardi di dollari.

Come siamo arrivati all’escalation legislativa: gli effetti del fallimento della self-regulation

Il passaggio delle big del web dai sognatori digitali – culminato nel 2011 durante la “Primavera Araba”, quando l’ondata di proteste che ha investito il mondo arabo ha reso evidente il ruolo importante svolto, nella diffusione dei contenuti relativi alle rivolte, dall’utilizzo da parte dei manifestanti dei social network – ai monopolisti, immagine delle rivelazioni di Snowden del 2013 prima e Frances Haugen dopo, dello scandalo Cambridge Analytica, fino al “deplatforming” di Donald Trump e i fatti di Capitol Hill, è stato rapido.

L’autorità pervasiva degli “intermediari digitali”, dei giganti della tecnologia, Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet e Meta Platforms è diventata infatti decisamente inquietante.

Soft law, Codici e standard etici dell’industria tecnologica digitale, svincolati da controlli e imposizioni esterne – visti inizialmente quali freni inibitori dell’innovazione e della creatività – condizionano la società e orientano il futuro, contribuendo al disallineamento tra diritti, libertà fondamentali e principi etici: dalle problematiche, pesanti, legate alla protezione dei dati personali, alla moderazione dei contenuti illegali e inneggianti all’odio; dalla tutela della proprietà intellettuale alla disinformazione ubiquitaria che alimenta i mercati “redditizi” della verità, allo sviluppo dell’ecosistema clickbait e, così, al deterioramento degli ambienti informativi globali; dalle esclusioni dai benefici della società del progresso e dell’innovazione causate dal divario digitale alle nuove forme di sudditanza e colonialismo tecnologico di cui sono vittime, per eccellenza, ma non solo, gli stati del mondo più fragili; dai cosiddetti “effetti di rete” e dalle asimmetrie informative, all’annientamento degli stessi presupposti giuridici alla base delle attuali logiche del capitalismo e delle regole della libera concorrenza.

“Città intelligenti” fatte di percorsi dotati di sensori ubiquitari e spesso invisibili alimentano i copiosi database dei big del web con dati e informazioni asserviti alle tecniche di data analysis, foriere di effetti rilevanti e di lungo termine sugli individui e, tuttavia, impermeabili alle normative vigenti.

Diritti e libertà subiscono la frenesia dell’attuale stato di eccezione e di emergenza restando in balia delle conseguenze delicatissime e di interesse costituzionale, cruciali eppure fondamentalmente ignorate.

L’economia dell’attenzione “data driven” detta legge

L’economia dell’attenzione “data driven” detta legge e mostra il fianco alle speculazioni algoritmiche dei big del web.

Mentre il costituzionalismo digitale si rivela il grande assente in uno spazio digitale che è ormai fonte di privilegi per pochi attori tecnologici e in cui avvizzisce quel mercato delle idee fondato sull’autodeterminazione e sulle libertà fondamentali delle democrazie liberali.

In tutto ciò il dibattito sulla necessità di una regolamentazione della neutralità della rete è ora a una svolta.

Lo strapotere delle grandi piattaforme digitali[10], dai social network ai colossi tecnologici, è infatti cresciuto a ritmi esponenziali, ha condizionato gli equilibri della rete, aumentato la propria incidenza sulla fruibilità dei servizi essenziali e, capitalizzando l’attuale momento storico emergenziale, è riuscito a entrare in settori nuovi e con poca resistenza come la pubblica istruzione e indirizzato il dibattito politico e mediatico contemporaneo richiamando l’attenzione sulla necessità di un repentino cambio di marcia.

Come si manifesta (e quanto ancora potrà durare) l’egemonia delle big tech

Le stesse Big Tech vengono favorite o osteggiate dai rispettivi stati di appartenenza, a seconda delle convenienze in ballo, competono tra loro per l’egemonia su settori strategici quando addirittura non sottoscrivono patti di non belligeranza: dal cloud computing alla propaganda computazionale e programmatic advertising; dal social business alle applicazioni di intelligenza artificiale specie di sorveglianza biometrica alimentate dai copiosi database in ambito sia pubblico che privato.

Si sottomettono e a loro volta assoggettano il potere politico.

L’Autorità britannica per la concorrenza e i mercati ha ingiunto a Facebook alias Meta Platforms Inc., di vendere la società di immagini animate Giphy, affermando che l’acquisizione limiterebbe la concorrenza tra le piattaforme e gli inserzionisti del Regno Unito. Facebook si oppone e ha presentato ricorso.

Muovendo da un’altra prospettiva, sempre Meta annuncia di voler interrompere il suo sistema di riconoscimento facciale per esigenze di conformità normativa e, inoltre, senza darne comunicazione agli utenti, bensì solo informando all’ultimo minuto gli editori (essendo entrate in vigore le norme della Direttiva comunitaria 790 del 2019), cambia le modalità di pubblicazione dei “link di terze parti”.

Google dal canto suo, se da una parte non sembra minimamente preoccupato dalle tre decisioni antitrust dell’UE e dagli oltre 9 miliardi di dollari di multe, dall’altra promette ulteriori sviluppi sul fronte dei cookies e della profilazione indiscriminata, proseguendo nei proclami verso la completa limitazione dei sistemi di tracciamento on line e, allo stesso tempo, preannuncia nuove procedure di ricorso per la rimozione dei contenuti sul servizio video YouTube.

Naomi Klein, la nota giornalista canadese autrice del saggio “Shock economy” ci parla di una vera e propria “Dottrina dello shock pandemico”: una sorta di “Screen New Deal” dove se a livello globale, si discute apertamente di come smantellare e arginare lo strapotere dei monopoli tecnologici, da Amazon, Facebook e Google a favore di una sovranità digitale ormai impellente, tuttavia i massimi esponenti del potere privato, come il fondatore di Microsoft Bill Gates e l’ex dirigente di Google Eric Schmidt vengono invitati dal governatore di New York Andrew Cuomo per discutere della digitalizzazione delle funzioni statali e dei modi per affrontare la crisi epidemiologica americana. E anche nel Regno Unito, i Big Tech hanno avuto accesso a Downing Street per concordare le strategie tecnologiche necessarie a superare il pericolo Covid-19.

Il dominio “tecnologico, algoritmico e di codifica” dei giganti del web, proprietari dei sistemi tecnologici che costituiscono l’infrastruttura su cui si svolgono i processi economici, sociali e politici, garantisce alle multinazionali del web un’egemonia e un’influenza considerevoli ma ciò nonostante opache, al momento non arginabili dai corrispondenti poteri di regolamentazione delle istituzioni democratiche. Basti pensare che il valore di mercato delle cinque più grandi società tecnologiche del mondo è di 9,31 trilioni di dollari, quadruplicato rispetto a cinque anni fa.

Per quanto ancora potrà durare?

Conclusioni

La sensazione è che di fronte alla complessità crescente della società del XXI secolo le regole poste a tutela del pluralismo e della difesa dei diritti fondamentali entrino pesantemente in crisi fino a mostrarsi piuttosto inconferenti; che non esista la possibilità di un business etico e che l’immaginazione in mano alle élite sia già abbondantemente al potere.

La sfida da vincere si giocherà senza dubbio sul giusto bilanciamento frutto di un rinnovato costituzionalismo digitale e sulla capacità dei poteri pubblici di coinvolgere i poteri privati in un percorso sinergico volto al miglior contemperamento tra le istanze entrambe legittime di protezione e valorizzazione dei diritti e libertà fondamentali e quelle legate allo sviluppo digitale e all’innovazione, superando frammentazioni normative e interessi di parte.

Note

  1. Secondo il principio di extraterritorialità, mantenuto, nei progetti di legge, sono incluse tutte le piattaforme che hanno il luogo di stabilimento o di residenza nell’Unione Europea e che, tramite i servizi di intermediazione online o i motori di ricerca online, siano in grado di offrire beni o servizi a consumatori nell’Unione Europea
  2. Il principale quadro giuridico relativo ai servizi digitali è rimasto invariato dall’adozione, nel 2000, della direttiva sul commercio elettronico. Ovvero la cornice regolatoria che agendo su questioni quali: requisiti di trasparenza e informazione per i fornitori di servizi online, comunicazioni commerciali, contratti elettronici e limitazioni di responsabilità dei fornitori di servizi intermediari, divieto per gli Stati membri di imporre agli intermediari alcun obbligo generale di monitoraggio preventivo dei contenuti, cooperazione amministrativa tra gli Stati membri e ruolo dell’autoregolamentazione, si era prefissa l’obiettivo di rendere omogenei i principi essenziali su cui si fonda la fornitura transfrontaliera di servizi digitali. Ma non è tutto: vi rientrano anche la Direttiva Copyright , Regolamento sulla protezione dei dati personali GDPR, la Framework Directive (2002/21/EC) sulle reti e i servizi di comunicazione, la Comunicazione sulla repressione dei contenuti illeciti online, la Direttiva Audio Video Media Services (AVMS), la Direttiva per la protezione dei consumatori (2011/83/UE), il Codice di condotta sull’hate speech e il novello Regolamento (UE) 2019/1150 – P2B. Ultimo ma non per importanza il Digital Governance Act, fortemente voluto dal commissario europeo per il mercato interno Thierry Breton e frutto di una serie di “bras de fers” tra il commissario e le Big Tech americane, Google in particolare, oltre ad altre numerose regole. Un patchwork prolifico e complesso ma altrettanto frammentario e divergente, spesso obsoleto e lacunoso, dove i servizi digitali, molti dei quali hanno ormai assunto la valenza di “servizi pubblici”, rispondono ai poteri di controllo di fatto “delegati” dalle Istituzioni stesse alle piattaforme, anche in settori nei quali sono a rischio i diritti e le libertà fondamentali degli individui. Queste le basi da cui prende il via l’ambiziosa regolamentazione legata al Digital Services Act tesa a rafforzare tanto il mercato unico dei servizi digitali quanto a promuovere l’innovazione e la giusta competitività dell’ambiente online europeo.
  3. La Direttiva sul commercio elettronico contiene tre esenzioni dalla responsabilità per i fornitori di servizi della società dell’informazione quando agiscono come intermediari: le esenzioni “mere conduit”, “caching” e “hosting”. Sebbene il Digital Services Act non intenda sostituire la direttiva sul commercio elettronico, la Commissione europea si propone di incrementare trasparenza e massimizzare l’armonizzazione tra Stati membri.
  4. Ora la mediazione con il Consiglio dei 27, a guida francese da gennaio. Le prossime consultazioni a tre sono fissate per il 31 gennaio, 22 febbraio, 15 marzo, 24-25 marzo e 6-8 aprile.
  5. “Nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi”.
  6. La cui supervisione viene affidata a David Cicilline, un democratico del Rhode Island, che ha anche guidato il rapporto della Camera sui problemi di concorrenza nella tecnologia delle piattaforme nel 2020
  7. In generale, la normativa si applicherebbe alle aziende – considerati “partner commerciali critici” con una capitalizzazione di mercato superiore a $ 550 miliardi e più di 50 milioni di utenti attivi mensili. La Federal Trade Commission e il Dipartimento di Giustizia deciderebbero quali piattaforme tecnologiche soddisfano tale definizione.
  8. Il 10 giugno 2021, il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, ha approvato la legge sulla sicurezza dei dati (la “DSL”). Il DSL è entrato in vigore il 1 settembre 2021 e segna il primo regime di regolamentazione dei dati completo della Cina, uno dei tre quadri chiave con efficacia extraterritoriale che rafforzeranno i dati del paese e la governance della sicurezza informatica. La DSL lavorerà in tandem con la legge cinese sulla sicurezza informatica del 2017 e la legge sulla protezione delle informazioni personali (“PIPL”), approvata il 20 agosto 2021 con entrata in vigore a partire dal 1 novembre 2021.
  9. Data Security Law, Cybersecurity Law e Personal Information Protection Law costituiscono i limiti regolamentari all’interno dei quali le organizzazioni dovranno modellare la legittimità dei relativi trattamenti così come dei trasferimenti transfrontalieri dei dati, sulla base di criteri di sensibilità e valore economico degli stessi.
  10. I colossi tecnologici Microsoft, Apple, Amazon, Google e Facebook, valgono oggi circa 8000 miliardi di dollari. Ed è questo il risultato di un trend di crescita che, rispetto al 2016, è aumentato fino a raddoppiare, registrando un valore complessivo che, a settembre dello scorso anno, ha addirittura superato l’intero mercato azionario europeo. In quello stesso frangente, Apple, Microsoft, Amazon, Google e Facebook hanno toccato la cifra record di 9.100 miliardi, rispetto ai 8.900 miliardi riportati dall’equity del Vecchio Continente, incluse Svizzera e Regno Unito. Singolarmente presi le multinazionali del digitale sono in grado di superare il valore di economie di paesi grandi come l’Arabia Saudita. Google, YouTube e Facebook, WhatsApp, Facebook Messenger e Instagram sono i siti e le applicazioni web più visitati in tutto il mondo; insieme a Netflix dispongono di oltre il 40% del traffico Internet globale. Il traffico web derivante dall’uso dei servizi di Google fornisce alla stessa azienda set di metadati incommensurati e informazioni di mercato quasi perfette e a sua esclusiva discrezione. Apple domina il settore della tecnologia mobile negli Stati Uniti e oltre, Amazon dirige il settore delle vendite di e-commerce e dei servizi web. Google e Facebook insieme detengono oltre i due terzi del mercato della pubblicità online. Microsoft fornisce alle istituzioni aziendali e a quelle governative i propri sistemi operativi.

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