la svolta

Birmania, primo colpo di Stato “digitale”: i social accettano il proprio ruolo politico

Una nuova tendenza che trova riscontro nelle azioni di Facebook e Youtube contro gli autori del colpo di Stato in Myanmar (Birmania), bloccando canali di comunicazione. I social abbracciano ora esplicitamente il proprio ruolo (e responsabilità) politica. Con conseguenze tutte da vedere

Pubblicato il 12 Mar 2021

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale

Alessandro Longo

Direttore agendadigitale.eu

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L’interferenza dei social nelle questioni politiche in vari Paesi del mondo è destinata a crescere. Una nuova tendenza che trova riscontro nelle azioni di Facebook e Youtube contro gli autori del colpo di Stato in Myanmar (Birmania), bloccando canali di comunicazione.

Ma in un certo senso anche l’inazione è azione politica: come sta facendo Twitter in India, rifiutando di obbedire alle richieste del Governo di bloccare chi protesta contro il regime (una protesta di agricoltori contro una riforma agraria neo-liberista).

La possiamo considerare una svolta, questo ruolo “politico” esplicito dei social; questa acquisita e dichiarata consapevolezza del proprio peso e responsabilità da parte loro, mentre in passato la tendenza era quella della non-interferenza nelle questioni locali.

Dagli Stati Uniti alla Birmania

La svolta si può datare alla scelta dei social di sospendere l’ex Presidente USA Donald Trump a causa dell’assalto del Campidoglio organizzato dai suoi sostenitori.

Molti commentatori hanno accusato allora i social di essere invece indifferenti o poco reattivi verso dittatori che usavano i social, come nella stessa Birmania, per seminare propaganda e odio razziale.

Poi, è successo che lo scorso primo febbraio, l’esercito del Myanmar ha preso il controllo del Paese, dichiarando uno stato transitorio di emergenza che ha comportato l’arresto dei leader politici in carica.

A seguito del colpo di stato che si è verificato in Birmania, provocando la destituzione del governo democratico del Paese con la conseguente cacciata, tra l’altro, della nota leader Aung San Suu Kyi, Facebook ha dichiarato di aver escluso le forze armate del Myanmar dalle sue piattaforme, con l’intento di impedire la condivisione di contenuti propagandistici pro-milizie militari in grado di incitare violenza e odio nella fase post-golpe del Myanmar, alla luce di una delle prime dichiarazioni postate proprio su Facebook dal Generale che ha guidato il colpo di stato.

Regimi e social, la strana alleanza: a rischio i diritti di tutti

Per tale ragione, Facebook ha vietato a tutti gli account utilizzati dai militari e dai media controllati dall’esercito di utilizzare le sue piattaforme, estendendo altresì il divieto anche alle società vicine alle forze militari.

Tale vicenda rappresenta il culmine di anni di tensione tra l’esercito del Myanmar e la piattaforma sociale in un Paese in cui Facebook è utilizzato da metà della popolazione, rappresentando un importante strumento politico per la condivisione di informazioni e l’organizzazione di proteste soprattutto da parte della società civile in conflitto con i militari.

Nonostante risulti agevole aggirare i blocchi, mediante la creazione di nuovi account che consentono con estrema facilità di veicolare il flusso comunicativo di informazioni, Facebook, decidendo di rimuovere ogni pagina associata all’esercito, prende quindi parte al conflitto, schierandosi a sostegno del movimento democratico che i militari hanno bruscamente allontanato dalla guida politica del Paese.

Peraltro, sulla falsariga della decisione adottata da Zuckerberg, anche YouTube ha chiuso i canali multimediali direttamente e indirettamente gestiti dai militari del Myanmar per diffondere messaggi di propaganda politica ritenuta incompatibile con la policy della piattaforma che già in passato aveva oscurato ben 34 canali utilizzati con sospette “operazioni di influenza” sulle elezioni del Myanmar nel 2020.

La reazione del Governo

Poiché il popolo birmano si stava rapidamente spostando online per organizzare una massiccia campagna di disobbedienza civile, la reazione dell’esercizio non si è fatta attendere. Infatti, le forze militari hanno ordinato agli operatori nazionali delle telecomunicazioni di bloccare temporaneamente l’accesso a Facebook, accusato di alimentare l’instabilità sociale del Paese, per la necessità di contenere le proteste veicolate online, con restrizioni massive poi estese anche a Instagram e Twitter, al fine di reprimere il dissenso degli attivisti oppositori al regime, considerato che nel giro di poco tempo erano stati viralizzati contenuti di lotta politica condivisi anche da personalità influenti del Paese che, aumentando il numero di follower e like, stavano determinando una crescente diffusione mediatica del dissenso ostile alle forze militari che avevano organizzato il colpo di stato.

Il primo colpo di Stato digitale

In un momento storico in cui si assiste ad una crescente erosione della libertà in Rete, a causa di inedite insidie legate alla proliferazione di disinformazione propagandistica che altera la formazione dell’opinione pubblica e il regolare funzionamento del processo elettorale, senza dubbio la vicenda del Myanmar può essere considerata come il primo “colpo di stato digitale”.

Da un lato Facebook rappresenta uno dei principali strumenti comunicativi di accesso alle notizie in grado di favorire la crescita di mobilitazioni politiche su vasta scala, considerato che oltre 22 milioni di birmani utilizzano tale piattaforma contro il rischio di censure governative a discapito dei diritti della società civile.

Dall’altro lato le truppe militari possono ricorrere a svariate tecnologie innovative per controllare il flusso informativo diffuso online mediante sistemi sofisticati di repressione, impedendo alle persone di mobilitarsi.

Lo scenario, che vede attualmente il Myanmar classificato al 139° su 180 paesi nell’indice mondiale della libertà di stampa 2020 di RSF, è ulteriormente aggravato dalla presentazione di una nuova bozza di legge sulla sicurezza informatica che, in violazione della riservatezza e del diritto alla privacy, inasprisce il ricorso alla censura punitiva, ponendo a carico dei gestori delle piattaforme sociali e ai prestatori di servizi telematici l’obbligo di fornire i dati personali degli utenti alle autorità governative in caso di contenuti diretti a turbare l’unità nazionale, la stabilizzazione e la pace sociale, per intensificare i controlli di sorveglianza, con l’intento di impedire, in nome di formali presunte esigenze di ordine pubblico e sicurezza nazionale, la libertà di dissenso degli attivisti pro-democrazia mediante l’organizzazione di manifestazioni in risposta al colpo di stato militare del primo febbraio.

Verso nuovi equilibri tra social e Governi

In uno scenario del genere, è possibile cogliere il delicato ruolo che Facebook, con Youtube e Twitter, sta progressivamente assumendo tra implicazioni politiche legate alla protezione dei diritti degli attivisti a presidio delle istanze democratiche esposte al rischio di censura in un’ottica di maggiore interventismo politico e esigenze imprenditoriali fondate sulla stabile utilizzabilità lucrativa della piattaforma. Esigenze espletate anche a costo di cooperare, in una prospettiva di equidistante neutralità, con regimi autoritari per assicurare il mantenimento del servizio di accesso ai propri siti come condizione indispensabile per incrementare i profitti del business online.

Si può dire che i social da anni – almeno dal 2016, prima elezione Trump, Cambridge Analytica… – hanno svolto un ruolo politico nell’agone. Ma hanno rifiutato per anni di riconoscerlo.

Ora il Re è nudo. Non possono e non vogliono più sottrarsi a questo riconoscimento. E hanno scelto di esercitare il ruolo abbracciando valori “occidentali” di non violenza e libertà di espressione. Mentre in India on in Russia i Governi privilegiano quelli di stabilità e integrità della nazione (trattando i dissidenti come potenziali terroristi).

Le conseguenze di questa svolta sono però ancora tutte da chiarire. Andremo verso blocchi di massa, delle piattaforme “occidentali”, in certi Paesi, con la crescita di alternative locali? Significherebbe certo un’opportunità persa; una rinuncia al valore “democratizzante”, comunque esistente, per le nuove forme di comunicazione di massa. Ma sarà sempre meglio di com’è stato finora; con i social che fingevano di non vedere e non sentire.

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