Da qualche mese l’attenzione dei media, del governo e dell’opinione pubblica si sta concentrando sul tema del calo della natalità.
Mentre sono chiare le implicazioni di questo fenomeno in termini di sostenibilità della crescita economica e sembrano condivise da molti alcune misure utili per una ripresa della natalità (ad esempio, aumentare il numero di asili nido pubblici), il dibattito pubblico sembra non cogliere del tutto il ruolo cruciale che ha l’organizzazione del lavoro in questa dinamica.
Modello “dual-earner” e calo della natalità: quanto conta l’organizzazione del lavoro
Infatti, nei Paesi in cui è andato affermandosi il cosiddetto modello “dual-earner”, la natalità è progressivamente diminuita. Ad un aumento considerevole della partecipazione femminile al mercato del lavoro, di fatto, si è associata in una certa misura una riduzione della natalità[1] complessiva.
A nostro avviso, la responsabilità di questa associazione è da ricercare nella sopravvivenza di un modello di organizzazione del lavoro di tipo “fordista[2]”. Troppi livelli gerarchici, troppe funzioni e ruoli segmentati, basati sul principio del “command-and-control” e sulla presenza fisica sul posto di lavoro non possono che mettere strutturalmente sotto pressione, a causa delle forti rigidità, le famiglie dual-earner e, in particolare, le donne, a cui sono assegnate tuttora la gran parte delle funzioni di cura[3].
Questo fenomeno si è progressivamente diffuso in tutte le economie sviluppate, generando più di qualche sospetto che la formula organizzativa del lavoro possa essere un potente fattore esplicativo del calo delle natalità, i cui effetti di depressione delle nascite possono essere mitigati solo parzialmente da pur eventualmente generose politiche di welfare. Allo stesso modo, laddove si osservano condizioni di organizzazione del lavoro più flessibili, la partecipazione femminile al lavoro e la natalità sembrano tornare ad influenzarsi positivamente.
L’importanza di sistemi di organizzazione ad “impatto sociale”.
Se vogliamo mantenere un certo tasso di crescita economica, aumentando nel contempo la partecipazione femminile al mercato del lavoro, senza deprimere la natalità e, con essa, la sostenibilità sociale, più della “settimana corta” di 4 giorni, occorre sperimentare nuove modalità di organizzazione del lavoro, sviluppando sistemi organizzativi ad “impatto sociale”. Proviamo brevemente a delinearne alcuni elementi.
Il punto di partenza consiste nel mettere al centro l’autonomia delle persone. Più che renderle succubi di rigide regole aziendali, occorre riconoscere loro la competenza e la possibilità di aggiustare i propri tempi di lavoro a seconda delle proprie esigenze personali e familiari, mantenendo al contempo un adeguato livello di produttività e qualità delle attività svolte.
Il ruolo di tecnologia digitale e AI
Su questo punto, tecnologia digitale e AI potrebbero essere fondamentali, a condizione di essere indirizzate verso un cambiamento di paradigma: piuttosto che rendere il modello “fordista” ancora più penetrante e tossico per la società[4], potrebbero diventare fattori abilitanti del cambiamento.
Passiamo così al secondo elemento di un sistema organizzativo “ad alto impatto sociale”: gli oggetti tecnologici ed organizzativi. Si tratta delle nuove piattaforme/aziende piattaforma “AI-powered”, disegnate e sviluppate per raggiungere questi obiettivi:
- aumentare e migliorare le modalità di lavoro e di formazione in modalità asincrona e da remoto, in modo da generare maggiori opportunità, indipendentemente da spazi e tempi;
- attivare un canale di raccolta delle competenze per le aziende più rapido e inclusivo, grazie alla capacità delle piattaforme di allineare dinamicamente ambiente interno ed esterno e gestire qualsiasi tipo di status contrattuale, consentendo più flessibilità nel gestire il lavoro e maggiore accesso alle competenze per le aziende;
- consentire un’organizzazione interna più fluida, supportando le persone nel fare formazione “on the job” per acquisire competenze anche al di fuori del proprio ambito usuale, favorendo percorsi orizzontali e di auto-imprenditorialità, in modo da avere ruoli contendibili, più competenze disponibili e più diffuse;
- creare dei contesti di lavoro trasparenti, collaborativi e basati su poche ed esplicite meta-regole, abilitando un trasparente sistema di incentivi, svincolato da anzianità e rendite di posizione.
Costruire un mercato del lavoro a misura di persone
Usando una metafora calcistica, per costruire un mercato del lavoro a misura di persone e, insieme, ad alta produttività occorrerebbe:
- ampliare il campo da gioco, passando da singole aziende / mercati del lavoro a cluster collaborativi aperti, anche oltre la dimensione locale e aziendale;
- aumentare la capacità di visione del campo, grazie ad una maggiore interoperabilità delle strutture di raccolta e gestione dei dati, da utilizzare, in modo partecipato e consapevole, per sviluppare modelli predittivi;
- insegnare ai team come fare passaggi più lunghi, tramite formazione su modelli di lavoro agili e collaborativi, e come aumentare la velocità nel fraseggio, scomponendo i ruoli in singoli task e ricomponendoli costantemente in nuove concatenazioni;
- incentivare le persone a fare gol, legando la retribuzione agli obiettivi, piuttosto che all’unità di tempo.
Un cambiamento di questa portata è particolarmente complesso, vista la sua natura “ecosistemica”, non sempre gradita a chi cerca innovazioni “quick and dirty”.
In effetti, il tema assomiglia molto alla transizione ecologica dai combustibili fossili (che sarebbero come le nostre organizzazioni fordiste) alle nuove fonti rinnovabili (ovvero, i modelli organizzativi ad “impatto sociale”), in cui ad un interesse comune si contrappongono spesso (forti) interessi privati di segno contrario[5].
I benefici della transizione verso nuovi modelli organizzativi
L’Italia ha difficoltà peculiari in questa transizione verso nuovi modelli organizzativi, fra cui un’infrastruttura giuslavoristica estremamente rigida e resistente al cambiamento ed un mercato delle aziende polarizzato tra poche grandi aziende di stato e una miriade di piccole imprese.
Potrebbe però ricavare diversi benefici, da un cambiamento di questo tipo: oltre all’aumento del tasso di natalità, per esempio, otterrebbe anche un miglioramento della produttività, una riduzione dei divari (di genere, generazionali e territoriali) ed una miglior bilanciamento tra attrazione e fuga dei talenti.
Conclusioni
Per innescare un cambiamento di tale portata, che risolva in modo sistemico squilibri sociali, economici e demografici, servono però un diverso sguardo sul mondo, differenti soggetti civici e, infine, diverse politiche, in grado di bilanciare l’autonomia con un flessibile e costante sostegno sociale. Il rischio di sprecare risorse o aggravare ulteriormente gli squilibri esistenti con proposte e politiche tradizionali, infatti, ci sembra molto alto.
Note
[1] I paesi con mercati del lavoro più moderni e flessibili, come quelli di USA e Paesi Scandinavi, sembrano performare leggermente meglio di quelli più “fordisti” come la Germania
[2] Seppur la presenza di famiglie dual-earner è generalmente associata in letteratura al passaggio dei sistemi sociali verso modelli post-fordisti, dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro ci sembra di poter dire che non ci sia ancora, oggi, uno scostamento significativo dal fordismo
[3] Si veda Alessandro Rosina sul tema delle famiglie dual-earner
[4] Si vedano, per esempio, i sistemi di monitoraggio della produttività
[5] Vedi il paradosso dell’azione collettiva di Olson