digitale e potere pubblico

Capitalismo digitale, così lo Stato recupererà il proprio ruolo

L’emergere dell’economia basata su piattaforme digitali, algoritmi e IA ha reso inadeguato l’attuale quadro giuridico e generato una forte crisi socioeconomica. In questo paradigma condizionato da pochi grandi attori globali, il cittadino può ancora ritrovare nello Stato il garante del rispetto dei suoi diritti. Ecco come

Pubblicato il 09 Gen 2020

Maurizio Mensi

Professore di Diritto dell’economia alla Scuola nazionale dell’amministrazione e direttore del Laboratorio LawLab Luiss

tecnocapitalismo

Nel corso del 2019 si è a lungo dibattuto di tecnologia e regole. Le grandi piattaforme sono soggette infatti a un crescente scrutinio da parte di regolatori, legislatori e dalla società civile, sotto i profili privacy e antitrust soprattutto. Tutto induce a ritenere che nel 2020 il fenomeno potrebbe proseguire e addirittura arrivare a un punto di svolta.

Ma quali sono gli esatti termini della questione?

Le piattaforme digitali

Il digitale ha delineato un nuovo assetto tecnologico ed economico, ridefinito il rapporto fra pubblico e privato e al tempo stesso messo in crisi un sistema fatto di regole e interazioni costringendo individui, imprese e amministrazioni a confrontarsi con la realtà di una disruptive innovation che presenta molteplici implicazioni. Al centro della scena le piattaforme digitali, elemento centrale e interfaccia che consente lo scambio di idee e conoscenze, beni e servizi, un sorta di mercato virtuale fondato sui dati che ha ridotto drasticamente ogni forma di intermediazione accelerando un processo di trasformazione economica, sociale e culturale.

A farne le spese, regole e regolatori, un quadro giuridico divenuto rapidamente obsoleto a fronte della devastante onda d’urto di colossi multinazionali che alterano equilibri consolidati con un sistema basato su reti di soggetti interconnessi posti sullo stesso livello. Questi agiscono secondo rapporti orizzontali e paritari, incidono su meccanismi operativi finora basati sulla gerarchia e un approccio verticale, sono organizzati per livelli e strutture rigidamente compartimentate.

Si tratta di una dinamica che potremmo definire per taluni aspetti fisiologica, che attiene alla normale interazione fra operatori di mercato, almeno sino al momento in cui essa assume connotati patologici, cioè nel momento in cui in cui una piattaforma si trasforma e consolida la sua primazia attraverso l’espansione in settori contigui (cosiddetto platform development), l’acquisizione di concorrenti o la loro esclusione dal mercato (con strategie analoghe a quelle che, per esempio, hanno dato origine ai monopoli negli Stati Uniti ad opera di J. P. Morgan e J. D. Rockfeller agli inizi del 20° secolo).

Tale ecosistema, in cui è insita l’aspirazione ad una maggiore libertà individuale, sviluppatosi apparentemente in modo spontaneo, ha sovvertito modalità e forme organizzative tradizionali mediante un processo di disintermediazione tramite algoritmi e intelligenza artificiale, che disciplinano le relazioni che intercorrono sulle piattaforme digitali e attingono per lo più ai Big Data in possesso di soggetti pubblici e privati. Il valore aggiunto dei modelli organizzativi e cooperativi che introduce, ove diventa difficile distinguere fra produttori e consumatori, lavoratori dipendenti e autonomi, risiede in costi di transazione pressoché azzerati, nella moltiplicazione degli scambi e nella capacità di soddisfare la domanda individuale di qualsivoglia servizio in modo efficace e rapido, per lo più ad opera di operatori non professionali. Alla base di tutto i dati, raccolti e analizzati con tecniche sempre più evolute, che costituiscono elemento centrale e fondamentale risorsa prima del nuovo ordine.

Insomma, l’emergere della nuova economia basata su piattaforme digitali, algoritmi e intelligenza artificiale in settori come trasporti, locazioni immobiliari di breve durata, parcheggi, servizi di consegna e finanziari, formazione on-line, ha reso inadeguato il sistema vigente, evidenziando una serie di incoerenze giuridiche all’interno dei settori regolamentati e mettendo in crisi il paradigma socioeconomico tradizionale.

A tale assetto economico nuovo, dotato di flessibilità, autonomia, decentralizzazione, per una singolare asimmetria, corrispondono regole rese rapidamente obsolete dalla devastante onda d’urto di un’evoluzione tecnologica che ha reso altresì incerti i confini fra pubblico e privato. A ciò si accompagna il ritorno ad antiche paure, specie quando i titolari delle piattaforme diventano più potenti degli Stati, in grado di incidere sugli stessi meccanismi democratici (si pensi al tema della disinformazione e della cosiddetta minaccia ibrida e della). Gli elementi costitutivi della stessa sovranità statale sono messi in discussione da big players che non hanno confini territoriali ed estendono il proprio raggio d’azione anche ad attività quali sicurezza e giustizia, prima affidate alle cure esclusive di autorità e soggetti pubblici.

Unione europea e regole

A tutto ciò l’Unione europea sta cercando di dare una risposta che, ancorché ancora in corso di definizione, appare convincente. Ne fa parte in primis il cantiere normativo avviato nel 2016 con il “pacchetto privacy” che comprende il regolamento generale in tema di protezione dati personali, quindi la direttiva NIS dello stesso anno, il Cybersecurity Act del 2019 così come la direttiva sul diritto d’autore e la raccomandazione del marzo 2019 sul 5G. L’UE pare insomma consapevole della necessità di dotarsi con urgenza di strumenti normativi adeguati e aggiornati per promuovere l’innovazione e rispondere alle sue sfide, anche di carattere sociale e culturale. Sulla stessa linea la tendenziale severità con cui, rispetto agli Stati Uniti, l’Europa applica il diritto antitrust ai giganti della rete.

Come agli albori del processo di liberalizzazione del settore delle telecomunicazioni fra fine anni 80 e inizio 90, concorrenza e regolazione sono i due strumenti chiave del sistema.

La storia ha peraltro dimostrato che ogni tentativo di introdurre una disciplina fallisce  quando non si basa su una comprensione accurata del settore che si sta regolando. Le leggi in tema di antitrust e privacy erano stati il risultato di uno sforzo volto a fronteggiare forme di impresa, mercato e problematiche tipici del 20° secolo, che sono peraltro strutturalmente diversi da quelli di oggi.

Come ci ricorda Shoshana Zuboff, autrice di “The Age of Surveillance Capitalism“, nell’intervista rilasciata a Mathias Döpfner in Business Insider del 24 novembre 2019, è essenziale per i legislatori cambiare passo, adattarsi alla strategia mutevole e adattiva dei soggetti da regolare. Nel periodo aureo dell’industrializzazione J.P. Morgan era solito dire che: “Non abbiamo bisogno della legge poiché già abbiamo quella della domanda e dell’offerta. Sopravvive chi si adatta. Queste sono le uniche leggi di cui abbiamo bisogno. Le altre ostacolano gli affari, danneggiano la prosperità e l’innovazione”.

Nulla di nuovo sotto il sole, sembrerebbe. In realtà sappiamo bene come siano solo il potere delle regole (e la sanzione per chi le trasgredisce) e quindi lo Stato di diritto a poter garantire il patto sociale, vale a dire libertà e diritti per il cittadino. Ma qualcosa sta cambiando al riguardo.

Big Tech e concorrenza negli Usa

Negli ultimi mesi, negli Stati Uniti agenzie federali, Stati e Congresso hanno iniziato a indagare sul potere di mercato e sul potenziale comportamento anticoncorrenziale di Big Tech quali Google, Facebook, Amazon e Apple. Ci si interroga sui rimedi previsti, sull’opportunità di nuove regole e sull’adeguatezza di quelle attuali. La questione sul tappeto è se convenga affidare al diritto antitrust (da applicare caso per caso) o non piuttosto alla regolazione (ex ante, generale e astratta) il potere di intervenire per riequilibrare un sistema che appare sbilanciato in favore di pochi grandi attori privati. Appare probabilmente illusorio ritenere che di per sé mercati competitivi e ben controllati producano automaticamente prosperità, ma lo sforzo dispiegato è alquanto significativo: il Congresso USA sta valutando se creare una nuova autorità per il digitale o estendere i poteri della Federal Trade Commission per regolare le Big Tech, come suggerito da diversi esperti in audizione, così come sta avvenendo in Australia e Gran Bretagna.

L’obiettivo è quello di rendere gli strumenti antitrust, che per lo più risalgono al secolo scorso, più agili e flessibili, così da far fronte alle problematiche tipiche dei mercati digitali, mutevoli e in rapida evoluzione, per valutare l’impatto che le azioni di un’azienda dominante hanno sulla scelta del consumatore, sulla qualità del servizio e sull’innovazione. Le regole antitrust assumono, per esempio, prezzi al consumo elevati come segnale rivelatore del potere monopolistico e del comportamento anticoncorrenziale, ma i servizi internet di Google e Facebook sono gratuiti per gli utenti. Non si tratta peraltro di una novità, come ci ricorda il caso Microsoft di fine anni 90, all’esito del quale la società era stata condannata per aver abbinato il suo software di navigazione Internet Explorer al sistema Windows come componente aggiuntivo gratuito, con la conseguenza di precludere la concorrenza di un nuovo concorrente, Netscape Communications.

Come riporta il New York Times del’11 novembre 2019, vari sono i rimedi ipotizzati, fra i quali il più drastico è quello della separazione proprietaria, proposto ancora di recente da Scott Hemphill della New York University, Tim Wu della Columbia University e Chris Hughes, co-fondatore di Facebook. Così come imposto circa un secolo fa a Standard Oil per rispondere alle sue acquisizioni “predatorie”, a Facebook potrebbe essere richiesto, secondo gli autori citati, di disfarsi di Instagram, il servizio di condivisione di foto e WhatsApp, il servizio di messaggistica. Ma siamo ancora al livello di disquisizioni accademiche. E’ noto come assai di rado le misure deconcentrative possano considerarsi una soluzione appropriata ed efficace al problema relativo al potere di mercato di cui alcune società dispongono, di cui non possono certo essere ritenute colpevoli. Occorre infatti considerare che rientra nella normale logica di mercato il fatto che grandi aziende acquisiscano quelle minori, spesso vitali per accelerare la diffusione dell’innovazione; dato il maggiore potere e le risorse di cui dispongono le grandi società, i buyout possono peraltro essere estremamente redditizi per i venditori, come lo è stato per Instagram nel 2012.

La ridefinizione dei rapporti di forza

Quello che è certo è che in corso una ridefinizione dei rapporti di forza in corso nel sistema economico globale. Si tratta di una linea di tendenza che sta emergendo negli Stati Uniti, una sorta di actio funium regundorum avviata da qualche tempo ad opera del governo federale e del potere pubblico in generale che ha ad oggetto le piattaforme digitali e le Big Tech che la stessa Unione europea, insieme ai governi nazionali, pare aver condiviso con una serie di interventi, segnali di un deciso cambio di strategia rispetto al passato.

Si sta diffondendo, in altri termini, la consapevolezza che occorre un nuovo, ritrovato ruolo dello Stato e della politica a tutela dei suoi interessi fondamentali e strategici e a salvaguardia del benessere collettivo, che comporta il riequilibrio di poteri privati sempre più pervasivi e autoreferenziali. Di qui la riflessione in corso a livello internazionale. Significativa al riguardo, per esempio, la recente proposta normativa dell’autorità di regolazione dei media (Rundfunkkomission) tedesca che prevede stingenti obblighi di non discriminazione e trasparenza a carico delle piattaforme di social media e ai loro algoritmi.

Al riguardo si segnala l’opinione controcorrente di Evgeny Morozov che, su The Guardian del 28 novembre 2019, ritiene fuorviante presentare l’ascesa delle Big Tech come il risultato di una serie di errori politici da parte di regolatori tecnocratici distratti in quanto si tratterebbe piuttosto di “un’attenta, deliberata pianificazione politica da parte delle élite di Washington”. Morozov sostiene in sostanza che le Big Tech siano strettamente collegate al Big Money e al Big State, vale a dire il potere finanziario concentrato a Wall Street, il Pentagono con le sue ingenti commesse e la NSA con l’apparato di raccolta delle informazioni. In base a tale assunto, limitare il potere delle Big Tech partendo da una mera riflessione sulla tendenza alla monopolizzazione del capitalismo digitale (e la necessità di porvi rimedio) comporterebbe da un lato limitare i poteri di Wall Street e del Pentagono dall’altro, soprattutto, indurre gli Stati Uniti a ridimensionare il proprio ruolo sul piano strategico e geopolitico. Questo proprio nel momento in cui è in corso la contesa sul 5G e il confronto con la Cina, assurta al rango di potenza globale nelle tre dimensioni tecnologica, finanziaria e militare. Il che appare peraltro non solo improbabile ma neppure auspicabile, ad avviso di chi scrive.

Potere pubblico e sistema economico, spunti di riflessione

Di certo è che, dal punto di vista operativo, il capitalismo digitale ha comportato il progressivo indebolimento dello “Stato autorità” insieme al venire meno di meccanismi quali la certificazione giuridica dell’identità, all’affermarsi in via generale di procedure per la consultazione del pubblico e l’adozione di decisioni, anche di carattere giurisdizionale, vieppiù basate su algoritmi e intelligenza artificiale. Il che impone non solo di tener conto del fenomeno, ormai conosciuto e ampiamente indagato, della “deterritorializzazione” del diritto generato dagli operatori della Rete e legato alla globalizzazione, quanto piuttosto di comprendere il nuovo modello economico e sociale che impone al potere pubblico di riconsiderare la sua stessa ragion d’essere.

Occorre insomma ragionare sul nuovo ruolo dello Stato ed i confini del potere pubblico nel contesto del capitalismo delle piattaforme, sulla reingegnerizzazione dei procedimenti amministrativi in funzione delle nuove tecnologie per adeguare modi e tempi della regolazione amministrativa, laddove servizi e prestazioni sono vieppiù fornite da soggetti privati, spesso multinazionali estere che si sottraggono al controllo statale (si pensi ai profili fiscali). Appare altresì necessario porre al servizio della fruizione collettiva determinate categorie di dati di interesse pubblico, definire standard qualitativi e idonei strumenti di identificazione e misurazione. Il che comporta altresì interrogarsi sullo spazio che residua al settore pubblico, cercando di ridefinire confini e governance, adeguare il sistema giuridico affinché possa rispondere in modo efficace ai nuovi bisogni dei cittadini, in termini di procedimenti, organizzazione, strumenti. Servono autorità di garanzia e controllo forti e autorevoli, in grado di agire con efficacia su scala nazionale e internazionale, per essere in grado di tenere testa alla bulimia di dati e al potere degli operatori di mercato.

Ancora una volta, l’asse del rinnovamento poggia principalmente su concorrenza e regolazione.

Con riferimento alla seconda, il modello economico delle piattaforme digitali impone peraltro una profonda revisione non solo dei contenuti delle norme, ma soprattutto dei metodi, delle modalità e dei tempi per la loro elaborazione. Per esempio – come rilevato – regole basate solo sulle tradizionali leve economiche, come prezzo e fatturato, non si attagliano più ad un’economia in cui servizi, apparentemente gratuiti, hanno come corrispettivo dati personali da usare in altre attività economiche (si consideri il caso di WhatsApp che, con un fatturato di pochi milioni di euro e un numero esiguo di personale, fu acquistata da Facebook per oltre 19 miliardi).

L’evoluzione tecnologica ha inciso profondamente non solo sulle modalità di interazione fra cittadini e amministrazioni, ma sulle caratteristiche dei vari procedimenti amministrativi, imponendo la necessità di ridefinire le loro sequenze in funzione dei tempi e degli obiettivi previsti, riducendo alcune e rendendo superflue altre. Non è sufficiente convertire in modalità digitale procedure e sistemi, ma occorre ricalibrare gli stessi per evitare adempimenti e controlli inutili, valorizzare l’interoperabilità, snellire e rendere più efficienti le varie fasi utilizzando al meglio, per esempio, le applicazioni dell’intelligenza artificiale che sono sempre più impiegate nei settori di sanità, mobilità, giustizia, sicurezza e ambiente. Questo comporta un’azione educativa capillare e diffusa, rivolta a cittadini e imprese, per costruire un ecosistema basato su trasparenza, fiducia reciproca, responsabilità.

Tutto ciò è destinato a riverberarsi positivamente non solo sull’efficienza, economicità e qualità dei servizi offerti al pubblico e al mondo delle imprese, ma sulla stessa competitività del sistema produttivo. In un paradigma economico condizionato da pochi grandi attori globali, a fronte di un capitalismo che ha cambiato rapidamente natura e forma, il cittadino può dunque ritrovare nello Stato e nel potere pubblico il garante del rispetto dei suoi diritti.

Se la democrazia è, nella sua più diffusa accezione, un insieme di regole e procedure, nel capitalismo delle piattaforme digitali lo Stato può riappropriarsi della sovranità perduta modernizzando strumenti e modalità d’azione mediante una pubblica amministrazione efficiente e qualificata, riducendo il digital divide e l’asimmetria informativa che è alla base di discriminazione e disuguaglianza, vigilando sul mercato con strumenti antitrust adeguati e una regolazione economica efficace.

Uno Stato destinato probabilmente a ridursi rispetto all’attuale perimetro, ma che al tempo stesso riqualifica la propria azione con regole nuove e aggiornate e vigila sul loro rispetto, così da incoraggiare uno sviluppo sostenibile e garantire autodeterminazione informativa e libertà individuale. Una nuova legittimazione, dunque, per il sistema pubblico che è chiamato a svolgere un ruolo fondamentale in grado di riequilibrare i rapporti di forza, garantire e vigilare sul rispetto delle regole del gioco, a tutela dell’interesse generale e a garanzia dei diritti individuali, affinché l’innovazione non sia fonte di nuove discriminazioni, ma al servizio del benessere collettivo, nella centralità del cittadino.

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