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Capitalismo digitale: una gabbia di vetro nella tana del Bianconiglio



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Lo schermo è divenuto la chiave di accesso alla vita moderna, miniaturizzando e amplificando il nostro io. In “Algoritmi e preghiere”, Guerino N. Bovalino esplora la tecnica e il capitalismo come nuove religioni, offrendo una critica profonda alla digitalizzazione e al capitalismo della sorveglianza, rivelandone la natura distopica e alienante

Pubblicato il 5 giu 2024

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria



tecnocapitalismo

“Lo schermo è divenuto la chiave di accesso alla vita, al mondo. È la tana del Bianconiglio nella quale, come novelli Alice siamo caduti, volontariamente. Assonanze con il racconto ci sono anche con la bevanda che la fanciulla della favola di Lewis Carroll dovrà bere per rimpicciolirsi: è la miniaturizzazione che ci consente di abitare il mondo social delle meraviglie. O degli incubi. Così come il fungo che la fa crescere in modo spropositato funziona da metafora delle possibilità che la rete offre agli utenti di moltiplicare il proprio sé, di amplificare il proprio io, nell’illusione che dona loro di esserci e di abitare più dimensioni in maniera ubiqua”.

Algoritmi e preghiere

La citazione iniziale è tratta da Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, l’ultimo libro di Guerino N. Bovalino e pubblicato da Luiss UP[i]. Un tema antico ma sempre di attualità, quello della tecnica e/o del capitalismo come forme religiose. Con il paradosso solo apparente per cui quegli stessi sistemi – il capitalismo e la tecnologia – che separano, individualizzano, atomizzano, dividono lo stesso individuo, secolarizzano e de-socializzano sono poi essi stessi a proporsi/offrirsi come re-ligioni che connettono, legano, integrano ciascuno nel gregge del mercato o della rete, offrono senso di comunità e di social-izzazione riuscendo così a massimizzare, combinando questi due movimenti della legge del sistema industriale, i propri profitti privati.

Tema, quello della tecnica come religione, che Bovalino riprende e amplia con maestria e con bello stile di scrittura. Perché sì, la rete ci porta davvero in una nuova tana di Bianconiglio, che crediamo essere il paese delle meraviglie o il paradiso tecnologico, quando in realtà – e non poteva essere diversamente, aggiungiamo – è la realizzazione perfetta non della più perfetta delle utopie, ma della più perfetta distopia (o di incubo – dove la sua perfezione è data proprio dall’offrirsi come il massimo della libertà e della democrazia e della onnipotenza dell’uomo): distopia nella forma di gabbia di vetro[ii] che essendo di vetro dà l’illusione, ma solo l’illusione di non avere porte e sbarre, noi correndo/navigando felici e spensierati in rete (o rancorosi e incattiviti, comunque a produttività crescente) e così generando dati per il capitalismo della sorveglianza/capitalismo digitale. E che – assai compiaciuto per il nostro lavorare al massimo del nostro pluslavoro possibile e al massimo della nostra dipendenza dalla dopamina – ci guarda correre sulla ruota nella gabbia (appunto di vetro, perché il potere possa profilarci e sorvegliarci meglio), come il più stupido dei criceti (metafora vecchia e abusata, ma sempre efficace) e intanto vedendo la calcolatrice dei propri profitti girare sempre più velocemente.

Il capitalismo come religione

Che il capitalismo discendesse/derivasse da una religione 1 – non direttamente e causalmente, ma per il contesto che ne permette la nascita e poi la diffusione – lo aveva sostenuto il sociologo Max Weber (1864-1920) circa centoventi anni fa in una delle sue opere più famose, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo[iii]. Arrivando a definire appunto il capitalismo come una gabbia (allora) d’acciaio scrivendo che: “in quanto l’ascesi fu portata dalle celle dei monaci nella vita professionale e cominciò a dominare la moralità laica, essa cooperò per la sua parte alla costruzione di quel potente ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica, che oggi determina con strapotente costrizione, e forse continuerà a determinare finché non sia stato consumatol’ultimo quintale di carbon fossile, lo stile della vita di ogni individuo, chenasce in questo ingranaggio, e non soltanto di chi prende parte all’attività puramente economica. […] Mentre l’ascesi imprendeva a trasformare il mondo e ad operare nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistarono una forza sempre più grande nella storia. Oggi lo spirito dell’ascesi è sparito, chissà se per sempre da questa gabbia. Il capitalismo vittorioso in ogni caso, da che posa su di un fondamento meccanico, non ha più bisogno del suo aiuto.[…] Nel paese, dove più fortemente si è sviluppata, negli Stati Uniti,l’attività economica, spogliata del suo senso etico-religioso, tende ad associarsi apassioni puramente agonali, che non di rado le imprimono precisamente il caratteredi uno sport. Nessuno sa ancora chi nell’avvenire vivrà in questa gabbia e se allafine di questo enorme svolgimento sorgeranno nuovi profeti o una rinascita di antichipensieri ed ideali o, qualora non avvenga né l’una cosa né l’altra, se avrà luogouna specie di impietramento nella meccanizzazione, che pretenda di ornarsi diun’importanza che essa stessa, nella sua febbrilitàsi attribuisce. Allora in ogni caso,per gli ultimi uomini di questa evoluzione della civiltà potrà essere vera la definizione di specialisti senza intelligenza, gaudenti senza cuore”. Che, a ben guardare – specialisti senza intelligenza e gaudenti senza cuore – è la nostra condizione di asservimento esistenziale anche (ancor più) di oggi.

Del capitalismo come religione

Del capitalismo come di una vera e propria religione aveva invece scritto il filosofo Walter Benjamin (1892-1940) nel 1920 (e richiamato anche da Bovalino); “Nel capitalismo può ravvisarsi una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni. […] In primo luogo il capitalismo è una pura religione cultuale, forse la più estrema che si sia mai data. […] A questa è connessa la durata permanente del culto. Non vi è alcun giorno feriale, alcun giorno che non sia un giorno festivo nel temibile senso del dispiegamento di ogni fasto sacrale, dell’estremo impegno del venerante. Questo culto, in terzo luogo, genera colpa. Il capitalismo è verosimilmente il primo caso di culto che non purifica, ma colpevolizza [tradotto a oggi: se non consumi, se non sei alla moda, se non sei connesso, se non hai successo, la colpa è tua]. In questo sta l’elemento storicamente inaudito del capitalismo, nel fatto che la religione non è più riforma dell’essere, ma la sua riduzione in frantumi”. E aggiungeva, contestando Weber: “Nell’età della Riforma il cristianesimo non ha favorito l’emergere del capitalismo, ma si è trasformato nel capitalismo”.

La religione della tecnica, la tecnica come religione

Di religione della tecnica aveva invece scritto il filosofo italiano, importante ma poco noto, Adriano Tilgher (1887-1941): “La Tecnica moderna ha dato un colpo terribile alle vecchie religioni di massa. Intiepiditosi il fuoco che le aveva fatte nascere, queste si erano ridotte ad essere, per il più dei loro fedeli, centrali di speranze d’ottenere con la preghiera ciò che lo sforzo dell’uomo era incapace di procurare. […] Promettendo all’uomo l’onnipotenza, la Tecnica, se non proprio distrutto alla radice, ha fortemente indebolito l’attesa del miracolo. Ma le cose dello spirito umano non sono mai né semplici né unilineari Così è della Tecnica. Essa ha scrollato dalle fondamenta i templi delle vecchie religioni. Ma ha anche preparato il terreno ai nuovi templi che ne prendono il posto. Che la Tecnica, e la Macchina, figlia della Tecnica, siano oggi, per molti, per paesi interi come la Russia e l’America, oggetti di emozione numinosa, nel senso più stretto della parola, è cosa fuori di dubbio. Liberato dalla Tecnica, il sentimento numinosoinveste la Tecnica stessa. Si ha così la religione della Tecnica e della Macchina”. Mentre di religione tecno-capitalista – del capitalismo & della tecnica, reciprocamente funzionali – e di teologia tecnica e non solo politica abbiamo scritto anche noi nel 2015[iv].

Senza dimenticare Michel Foucault (1926-1984) e la sua analisi del potere moderno come potere pastorale (cioè religioso) per il governo (per la governamentalità) degli uomini[v] – forma del potere che per noi si replica anche nel digitale oltre che nel neoliberalismo, anche se il pastore che governa religiosamente il mondo è un soggetto tecnico e sistemico e non un soggetto umano.

Il digitale, tra mistica e profezia

A questo, Bovalino aggiunge ulteriori e importanti elementi, legati al digitale e alla esplosione della intelligenza artificiale. E a quei regimi di senso appunto tecnologici che sembrano offrire agli uomini – dopo averli spogliati e svuotati, per l’azione appunto della stessa tecnologia e del capitalismo (dal management e dal marketing e oggi dai social[vi]) di ogni senso che non sia funzionale al potenziamento del capitale e del sistema tecnico – appunto un senso del vivere solo capitalistico e tecnologico. Perché certo – Bovalino . “l’uomo, fin dal momento in cui è stato gettato nel mondo, ha elaborato regimi di senso con i quali orientare la propria esistenza e interpretare l’ambiente che abita e in cui è immerso. Una urgenza che si è sublimata nel mito, nella religione, nelle ideologie” (che poi però sono diventate qualcosa di altro, un fine e non più un mezzo, cioè un potere eteronomo e insieme chiuso in se stesso, autoreferenziale, che orienta e guida il gregge degli uomini ma alienandoli dalla libertà e dall’autonomia). E questo affinché “gli uomini possano riunirsi in una comunità e creare una società”[vii] – in realtà tra comunità e società non esiste una sequenzialità e comunità e società sono due vissuti collettivi assai diversi tra loro: tendenzialmente chiusa la comunità – e per questo amata e invocata da tutti i sistemi religiosi e totalitari come dal digitale, dai social, dall’industrialismo/consumismo e dal suo management/marketing, cioè l’impresa come comunità di lavoro e le brand-community del consumo; tendenzialmente aperta e molteplice e plurale invece la società[viii]).

E “l’uomo prega i suoi dèi affinché lo aiutino ad affrontare la vita” ed “ugualmente egli affida alla tecnologia il compito messianico di ricreare il paradiso in terra, di cui farsi dio”; con la differenza però, aggiungiamo, che gli algoritmi predittivi e di accompagnamento non necessitano neppure più delle preghiere umane (in sé fatte per chiedere e per creare una relazione tra uomini e Dio), ma le soddisfano o meglio le producono per soddisfarle per fini di profitto – e allora sono gli algoritmi ad essere diventati Dio e a riempire, orientare, guidare la nostra vita, non certo l’uomo che pure si crede Dio grazie alla tecnica. Sono cioè il dispositivo – sul concetto di dispositivo, Bovalino richiama Agamben, che a sua volta rimanda a Foucault – “che ha la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi[ix]. E allora, se “lo schermo è il nuovo habitat dell’era attuale e la vita si svolge sulle superfici dei nostri pc e dei nostri smartphone”, lo schermo è anche il dispositivo. Ed è un vortice, “una vertigine”, allargando sempre più la frattura “fra l’essere se stessi e l’essere ciò che si vuole apparire”; costruendo una “bolla, un micromondo digitale che il soggetto edifica lentamente, abitato molto spesso dai propri simili, coloro con i quali si condivide la visione del mondo” – creata in realtà dal dispositivo digitale stesso – “o con cui perlomeno, si reputa degno condividere le proprie idee”[x], favorendo appunto il conformismo digitale pur nella società di massa degli eremiti.

Allucinazioni tecnologiche

E allora, “l’illusione collettiva verso le capacità taumaturgiche della rete nell’opera di liberazione dell’individuo da ogni forma di costrizione burocratica, si è rivelata una prospettiva vacua. Le problematiche legate alla privacy e le nuove forme di oligarchia discendenti da alcuni imprenditori del settore digitale sono ormai evidenti. Nessuno può negare come una momentanea allucinazione collettiva” – ma a noi sembra che l’allucinazione prosegua ancora, oggi con l’i.a. – abbia alimentato una adesione fideistica all’utopia chiamata cyberanarchia. Una allucinazione funzionale alla costruzione di un nuovo immaginario, quello dei nomadi libertari”[xi], che nella nostra interpretazione sono stati però così più facilmente trasformati – grazie a questa allucinazione/dispositivo, al suo essere una psicopolitica (usando il concetto di Byung-Chul Han), o una forma quasi perfetta di human engineering – in forza lavoro nella società intera – come abbiamo scritto – diventata una fabbrica.

L’imperialismo delle piattaforme – e del capitalismo

E quindi, noi siamo sudditi dei social, scrive Bovalino, “nell’imperialismo delle piattaforme, in un nuovo tempo in cui pare impossibile incidere politicamente, se non in maniera illusoria. E si rinuncia a lottare per cambiare le cose perché convinti che le storture del capitalismo rappresentino comunque degenerazioni di quello che è il sistema migliore e quindi il più desiderabile. Rimane la possibilità di giocare e di godere all’interno di tali piattaforme. Sublimiamo la nostra rassegnazione politica nelle forme di conflitto-placebo nell’arena virtuale o nel raggiungimento di forme estetiche spendibili nella società dello spettacolo”[xii]. E la stessa democrazia diventa un incidente della storia, non più fondamentale e da proteggere, noi accettando senza grossi problemi (spesso anzi ricercando e producendo con il voto, dall’Ungheria all’Italia) dittature e democrature e neofascismi (che poi era l’obiettivo del neoliberalismo, a partire dal golpe cileno del 1973 – oltre che della tecnica, anti-democratica per sua ontologia, teleologia e teologia).

Siamo arrivati forse oggi nell’era della disillusione, nel crepuscolo delle tecno-utopie e del sogno tecnologico?

Qui ci fermiamo, anche per evidenti ragioni di spazio. Il libro di Bovalino, che è anche altro rispetto a ciò che abbiamo qui utilizzato per le nostre riflessioni – libro diviso in una parte più analitica e in una più filosofica – si conclude con una sorta di ma anche di speranza; perché “all’apice dello sviluppo tecnologico rinasce l’esigenza di riconnettersi alla dimensione divina e al sacro. Appare un uomo nuovo ma antico, fra algoritmi e preghiere”[xiii].

A queste pagine rimandiamo direttamente il lettore, non senza avvertirlo che ci lasciano, da laici, pieni di dubbi (come è giusto che sia per ogni vero libro).

Ma non senza rimandarlo alle pagine dedicate alla serie tv sudcoreana Squid Game del 2021 – e alla religione di Squid Game. Che è poi la perfetta rappresentazione della religione del capitalismo di oggi come di ieri, fisico o digitale che sia. Ma che oggi, secondo Bovalino, “si riproduce non più mimetizzando la propria violenza ontologica attraverso la dimensione abbagliante dello spettacolo gioioso, ma svelandosi nella propria essenza dispotica proprio nell’era digitale, che veniva illusoriamente presentata come il tempo in cui vi erano i mezzi per combattere le ingiustizie capitalistiche”[xiv]. Capitalismo – di cui il digitale è per noi solo l’ultima fase/forma, essendo un prodotto non dell’uomo, come scrive Bovalino[xv] ma del capitale/capitalismo – che dovremmo ricominciare a considerare, perché tale è proprio per sua essenza, il peggiore dei mondi possibili: come dimostra ogni giorno la crisi climatica e ambientale che il capitalismo ha prodotto, ma che cerca in ogni modo di farci dimenticare, tra nuovi godimenti/divertimenti e guerre reali. Uscendo tutti noi dalla rete/trappola/social che il capitalismo ha costruito per catturarci ancora di più nel suo voler essere spirito del mondo – da credere eterno e immodificabile, mistica e profezia insieme.

Bibliografia


[i] G. N. Bovalino, “Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale”, Luiss University Press, Roma 2024

[ii] Rimandiamo a N. Carr, “La gabbia di vetro. Prigionieri dell’automazione”, Cortina Editore, Milano, 2015; e a Ippolita, “L’acquario di Facebook”, Ledizioni, Milano 2012

[iii] M. Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, BUR, Milano 1991

[iv] L. Demichelis, “La religione tecno-capitalista. Dalla teologia politica alla teologia tecnica”, Mimesis, Milano-Udine 2015

[v] M. Foucault, “Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978)”, Feltrinelli, Milano 2005

[vi] L. Demichelis, “La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering”, Luiss University Press, Roma 2023

[vii] G. N. Bovalino, “Algoritmi e preghiere”, cit. pag. 13

[viii] Cfr., L. Demichelis, “Sociologia della tecnica e del capitalismo”, FrancoAngeli, Milano, 2020, pag.21

[ix] G. N. Bovalino, “Algoritmi e preghiere”, cit. pag. 28

[x] Ivi, pag. 59

[xi] Ivi, pag. 75

[xii] Ivi, pag. 84

[xiii] Ivi, pag. 137

[xiv] Ivi, pag. 122

[xv] Ivi, pag. 184

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