Il Covid ha acceso la tecnologia che avevamo in casa. In poche ore, per decreto, su base fiduciaria, per motivi sanitari, senza adeguata preparazione e dotazioni di fortuna oltre 1/3 dei lavoratori è diventato agile.
Solo poche settimane prima si era sollevato un dibattito molto duro su come controllare i lavoratori, quali meccanismi attuare per monitorarne le attività, quali sanzioni inasprire. Il consenso a questa visione punitiva era ampio, sostenuto da una forte sfiducia nei confronti dei lavoratori, e di quelli pubblici in particolare.
Lo smart working prima e dopo la pandemia: nuovi modelli di lavoro per non tornare indietro
Le evidenze del Policy Brief Inapp
Nel Policy Brief dell’Inapp (Bergamante, Canal, Mandrone, Zucaro) sul lavoro da remoto (realizzato sulla base dell’indagine Inapp-Plus condotta tra marzo e luglio 2021), sono emerse numerose evidenze utili.
La prima fase dell’emergenza sanitaria ha portato a lavorare da remoto 8,8 milioni di occupati (4 occupati su 10). Un incremento notevole se confrontato con il periodo precedente il Covid dove il lavoro da remoto riguardava 1 occupato su 10. Nella seconda fase dell’emergenza covid, primi mesi del 2021, i lavoratori da remoto sono stati poco più di 7 milioni, 1 occupato su 10. Il 16% ha sottoscritto un accordo collettivo, 14% un accordo individuale e il 22% un regolamento aziendale ma è particolarmente interessante (e istruttivo) notare come il lavoro da remoto sia stato reso per quasi 4 occupati su 10 su base fiduciaria.
Come si è organizzato il lavoro da remoto
Come si è organizzato il lavoro da remoto? Osservando la distribuzione settimanale, è stato impegnato in modalità agile 1 giorno a settimana circa l’11% dei lavoratori, per 2 giorni circa il 14%, quasi il 50% da 3 a 5 giorni mentre poco più del 10% tutti i giorni. Ma, passata la fase emergenziale, quanto lavoro da remoto le persone vorranno fare? Più della metà dei lavoratori e delle lavoratrici, sorprendentemente, non è interessata a lavorare da remoto, mentre il 6% vorrebbe farlo 1 giorno a settimana, il 15% 2 giorni a settimana, il 14% 3 giorni o più e l’11% tutti i giorni. Ovvero non c’è il rischio – paventato – di una fuga di massa dal posto di lavoro.
Semmai, va evitata la polarizzazione tra impieghi telelavorabili o meno (quanta parte delle attività possono essere rese da remoto), perché sarebbe una ulteriore segmentazione del mondo del lavoro tra professioni, settori e organizzazioni produttive più o meno flessibili in termini culturali e tecnologici. Vediamo nel dettaglio la questione. La metà degli occupati ha svolto il 40% delle attività lavorative da remoto. Questa soglia è raggiunta da oltre il 60% delle professioni più qualificate ma da solo il 20% delle professioni meno qualificate (più legate alla presenza). Non siamo che all’inizio di una trasformazione: ripensando i processi produttivi e ibridando le mansioni, tutti i lavoratori potranno svolgere una quota delle attività da remoto.
Come si misura il lavoro da remoto
Come si misura il lavoro da remoto? Tra i lavoratori del settore privano prevalgono l’assegnazione di obiettivi individuali mentre nel settore pubblico sembrano essere maggiori gli obblighi burocratici e adempimentali.
Come le imprese hanno modificato la loro infrastruttura tecnologica? Hanno messo a disposizione le piattaforme per le riunioni a distanza, i dispositivi informatici, attivato protocolli di sicurezza informatica e accesso ai servizi interni in via telematica. Più indietro sono le realizzazioni di attività formative specifiche per il lavoro da remoto o la fornitura di attrezzature ergonomiche.
Oltre la metà dei lavoratori che hanno sperimentato il lavoro da remoto ha giudicato l’esperienza in termini molto positivi, meno del 10% ha espresso un giudizio negativo. Gli aspetti particolarmente apprezzati sono stati la libertà di organizzarsi lavoro e impegni familiari. Gli aspetti più critici emersi sono un po’ di isolamento, difficoltà nella gestione dei rapporti con i colleghi e i costi delle utenze domestiche aumentati. Si è venuto a definire una sorta di “galateo digitale”: attenzioni e costumi specifici per delle relazioni lavorative a distanza.
La disconnessione è un problema per il 40% dei lavoratori agili. Anche fare brevi pause non è un problema per il 78%. Il 28% lavora la sera, il 22% nei fine settimana e il 23% invece riceve richieste fuori dell’orario concordato. Se il lavoro da remoto diventasse una organizzazione stabile, oltre 1 occupato su 3 vorrebbe spostarsi in aree meno congestionate e 4 su 10 vorrebbero avvicinarsi alla natura.
La propagazione del cambiamento tecnologico e organizzativo non è mai uniforme. Alcuni ambienti lavorativi, certi settori economici, alcune professioni più di altre sono più permeabili, pronte a cogliere le opportunità dell’innovazione. Quando la tecnologia modifica radicalmente l’organizzazione del lavoro – come il pc negli anni ’80 – serve tempo affinché si dispieghino per intero gli effetti positivi.
Smart working, vantaggi e opportunità per persone e imprese
Lo smart working, pertanto, è il punto di approdo di questo percorso. Più che tecnologia, servirà tempo, innovazione organizzativa e apertura mentale per superare quei reticoli morali che ancora ingabbiano gli ambienti lavorativi. Ci saranno da ripensare i processi produttivi, da riconsiderare i valori economici, da ridisegnare le città e le infrastrutture, ci sarà un impatto urbanistico forte: le nostre città verranno decongestionate e potremo superare lo schema centro-periferia. Serviranno nuovi spazi e modi di aggregazione per recuperare parte della socialità che garantiva l’ambiente di lavoro tradizionale. Ci saranno nuove strategie di conciliazione familiare e scelte abitative, e tutto ciò sarà parte essenziale della transizione ecologica e digitale.
Certo, ci sono dei costi di assestamento transitori, legati alla redistribuzione delle attività e delle persone ma, in prospettiva, sono molti di più i vantaggi e le opportunità che si presentano alle persone, alle famiglie, alle aree interne e, non per ultimo, per le imprese: una occasione irripetibile per rendere il nostro paese una meta per lavorare da remoto da tutta Europa, grazie a infrastrutture moderne coniugate con la qualità della vita e la bellezza dei nostri territori. Il lavoro da remoto, in forma più o meno agile, va sostenuto, direi accompagnato, a diventare un ecosistema maturo, completo, con istituzioni, servizi e tecnologie dedicate, pensate dall’inizio per relazioni sociali ed economiche smart, non la mera traduzione e replica dei costumi analogici.
Smart working e pandemia, un caso di serendipity
Abbiamo detto che il Covid, involontariamente, è stato il detonatore dell’esplosione del lavoro agile, tuttavia, in altri termini, potremmo parlare di un caso di serendepity: ovvero, cercando il distanziamento sociale abbiamo trovato un modo nuovo di lavorare. Per caso ci siamo accordi che un 30, 40% delle attività che normalmente eseguiamo in ufficio posso essere fatte altrove, generalmente da casa. Con qualche problema di connessione, un po’ di mal di schiena da sedute non adeguate, con un po’ di confusione per il frettoloso adattamento dell’abitazione alle nuove esigenze. Però è stato un esperimento sociale molto interessante: uno shock esogeno ha imposto un qualcosa che era possibile già da tempo e in molti luoghi già ampiamente sperimentato. Ecco, tutto ciò ci sia d’esempio, perché la complessità in cui ci stiamo addentrando è piena di non linearità, di relazioni nuove a volte controintuitive: pertanto apertura mentale e lettura sistemica sono sempre necessarie perché la tecnologia sia adeguatamente elaborata. Competenze specifiche e cultura generale andranno continuamente aggiornate, mantenute, adeguate ad un mondo in rapida evoluzione.
A questo proposito molti scenari distopici appaiono sotto una nuova luce, meno cupa. Ad esempio, le riforme previdenziali: con una quota crescente di attività resa da remoto, anche il procrastinare dell’età di ritiro dal lavoro dettata dall’equilibrio macroeconomico e demografico – per molti fonte di ansia e paura – appare meno traumatica poiché potrebbe diventare una modulazione dell’intensità del lavoro proporzionale all’efficienza psicofisica. Oppure, per molti pendolari che non riescono o non vogliono comprare case costosissime nelle nostre città, alla luce di un pendolarismo meno pesante l’idea di farlo per molto tempo appare meno impegnativa. E si può continuare in molte direzioni: dalla telemedicina alla didattica ibrida – bella o brutta la Dad ha garantito la continuazione della scuola, immaginate se la pandemia fosse arrivata solo dieci o quindici anni fa quali disastri l’isolamento e la discontinuità didattica avrebbe comportato sugli studenti – dalla mobilità sostenibile al south working.
Conclusioni
In questo senso, la copertura del territorio con un segnale digitale stabile e veloce diventa un prerequisito per una società compiutamente smart. La rete come strumento di partecipazione sociale ed economica dovrà anche avere quella garanzia di equità e sicurezza che un driver di sviluppo e affermazione sociale di questa portata deve necessariamente avere.
In conclusione, l’homo agilis è ai suoi primi passi, soprattutto nella penisola italica, ma gli si prospetta un lungo e fruttuoso cammino, non privo di qualche inciampo derivato dalle transizioni culturali, ecologiche, tecnologiche, sociali, organizzative che si stanno realizzando in maniera più o meno spedita.
(*) Primo ricercatore Inapp, le opinioni espresse non impegnano l’Istituto d’appartenenza