L’interdipendenza e l’iperconnettività che hanno reso il mondo tanto vulnerabile di fronte all’avanzata del Covid-19, potrebbero rappresentare anche un punto di forza, perché se è vero che la pandemia è un “cigno nero globale”, sarà anche possibile sviluppare e attuare strategie di resilienza collettiva, proprio in virtù di quell’interdipendenza che sembra averci reso così indifesi.
Vediamo in che modo un sistema sociale può sviluppare risposte resilienti, partendo da questa affermazione: “Il modo con cui ci organizziamo determina il tipo di guerra che combattiamo”. Sono le parole con cui John Arquilla, professore di analisi della difesa alla Naval Postgraduate School di Monterey, nel testo di Andrew Zolli “Resilienza. La scienza di adattarsi ai cambiamenti”, introduce il tema delle strategie di contrasto alle reti terroristiche di Al-Qaeda e dello Stato Islamico, definite da Arquilla come “strutture a sciame”, auto-organizzate, auto-specializzate, connesse e decentrate, e per questo estremamente resilienti.
Cigno nero e resilienza
Un nemico poco riconoscibile, a differenza della maggior parte degli attori statuali, proprio in virtù della sua “reticolarità”, caratteristica che ha finito per rendere tali reti, più che organizzazioni formali, un “principio organizzativo globale”.
Ma la possibilità di organizzare una risposta in “tempo di pace” implica la possibilità di prevedere il verificarsi, in un determinato tempo e luogo, di eventi che possono costituire una minaccia; posto che colui che opera l’analisi sia stato in grado di valutare le vulnerabilità interne ed esterne e l’entità dei possibili impatti.
È laddove si verifica la circostanza del cosiddetto “cigno nero”, evento con caratteristiche di rarità, enorme impatto e imprevedibilità, che l’organizzazione della risposta si scontra con un ulteriore problema, l’inaspettato, ovvero ciò che non era stato considerato nel piano di risposta, non perché impossibile ma, per così dire, altamente improbabile.
Cigno nero è stato considerato l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, così come il disastro nucleare di Fukushima, in Giappone, nel marzo 2011.
L’effetto domino del covid-19
C’è chi sostiene che cigno nero possa essere considerata anche l’attuale pandemia globale causata dalla diffusione della malattia Covid-19, esplosa alla fine dello scorso anno in Cina e diffusasi rapidamente in tutto il mondo, provocando un eclatante “effetto domino” in tutti gli ambiti, dal settore economico-finanziario al contesto politico e sociale. Eppure, è stato lo stesso “inventore” del termine, l’economista Nassim Nicholas Taleb, a smentire in una recente intervista la natura di cigno nero della malattia Covid-19. Secondo Taleb, infatti, mancherebbe una connotazione essenziale, l’imprevedibilità. “È valido per la malattia in sé”, afferma Taleb, “perché erano anni che la comunità scientifica avvertiva che prima o poi sarebbe scoppiata un’epidemia globale. Già ai tempi di Ebola si temette: non si diffuse perché si era sviluppato in un posto non troppo collegato col resto del mondo, ora invece l’epicentro è stato nel Paese interconnesso per antonomasia. Ma non lo è, un cigno nero, neanche per il crollo dei mercati: era nell’ordine delle cose una correzione vistosa, perché i prezzi erano troppo gonfiati, sia in Usa che in Europa”.
Come afferma Taleb nel suo testo, considerato pietra miliare, “Il cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita”, la percezione di un evento di tipo “Cigno nero” dipende dall’osservatore: il punto di vista di un tacchino non è sicuramente uguale a quello del suo macellaio. Oggi il “tacchino” è il mondo intero, disorientato non tanto dall’evento della pandemia in sé, quanto dagli impatti estremi sul proprio quotidiano.
Mai come oggi, probabilmente, si sta percependo la vulnerabilità dell’interdipendenza tra i vari sistemi che consentono il funzionamento dei servizi essenziali di un paese e la stessa interconnessione tra i diversi sistemi-paese.
La resilienza di comunità
In diversi studi sulla cosiddetta resilienza di comunità, viene evidenziato il ruolo fondamentale giocato dai setting, come le reti sociali o familiari, e più in generale dall’insieme delle “connessioni culturali”, che contribuiscono ad accrescere la collaborazione dei membri di una comunità e dunque a favorire fattori di resilienza collettiva.
Tradizionalmente, in ambito fisico ed ingegneristico, il concetto di resilienza fa riferimento alla capacità di un materiale di assorbire l’energia di un urto, modificando temporaneamente la propria conformazione per poi tornare allo stato iniziale.
Ma se questo “materiale” fossero le persone, o meglio, comunità di persone, in che modo esse potrebbero assorbire un “urto” e adattarsi al cambiamento, mantenendo le proprie caratteristiche? Quali di queste comunità avrebbe maggiori possibilità di sviluppare strategie di resilienza rispetto ad altre, e in base a quali elementi?
Nell’ambito dell’ecologia, a partire dagli anni Novanta, in particolare attraverso gli studi di Crawford Stanley Holling, il concetto di resilienza inizia ad essere considerato in relazione ai sistemi complessi, come possono esserlo quelli di cui fanno parte i viventi. Tali sistemi, in relazione alle perturbazioni, non seguono una risposta “meccanicistica”, ma ammettono una molteplicità di stati di equilibrio, che dipenderanno dal contesto e dalle risorse che tali sistemi potranno mettere in campo per fornire una risposta alle perturbazioni interne ed esterne a cui sono soggetti.
Il concetto di resilienza allude, in questo senso, alla capacità di rispondere efficacemente alle perturbazioni a cui un sistema può essere potenzialmente esposto, mettendo in gioco tutte le risorse (sia interne che esterne) a sua disposizione. Alcune di queste risorse, analizzate negli studi di Holling, riguardano l’adattabilità, ovvero la capacità di elaborare le azioni di risposta al cambiamento, e la trasformabilità, ossia la capacità di passare a un nuovo sistema una volta che il precedente risultasse non più mantenibile.
Il concetto di soglia
Negli studi sulla resilienza dei sistemi ecologici viene inoltre introdotto il concetto di “soglia”, ovvero la capacità di un sistema di assorbire una perturbazione, e mantenere inalterate le proprie caratteristiche, solo entro una data soglia, oltre la quale è costretto a modificare la propria struttura, che potrebbe risultare “non necessariamente migliore della precedente”, come efficacemente affermato in alcuni studi relativi alla resilienza urbana.
Oggi, la stessa interdipendenza e iperconnettività che hanno costituito un fattore di vulnerabilità, possono rappresentare elementi in grado di favorire la capacità adattativa delle comunità umane nel mondo.
Questa “robusta fragilità” è riscontrabile, in questo momento più che mai, in ecosistemi complessi come quelli digitali, che se da una parte ci appaiono in tutto il loro “potenziale resiliente”, specialmente nell’aiutarci a conservare le nostre abitudini e le nostre relazioni sociali, dall’altra sembrano iniziare a subire l’avvicinamento di quella “soglia” teorizzata da Holling, in cui il sistema si trova costretto a effettuare un ri-adattamento o, in alternativa, una rottura.
Si pensi alle infrastrutture di rete in affanno nelle ultime settimane a causa dell’eccesso di utilizzo da parte degli utenti, ma anche ai nuovi rischi, come la diffusione di inediti tentativi di truffa online che sfruttano il timore del Coronavirus e la diffusione sistematica di fake news. Eppure, almeno fino a questo momento, il sistema nel suo insieme sembra in grado di mantenersi senza raggiungere un punto di rottura, grazie anche a strategie di “sostenibilità” digitale messe in atto dagli operatori del settore. È il caso di grandi player internazionali come Netflix, Facebook, Instagram, Youtube e Amazon, che a pochi giorni dall’allarme lanciato dall’Unione europea sulla possibilità di un eventuale collasso della rete Internet, a causa del picco di accessi, hanno aderito all’iniziativa di diminuire la risoluzione dei propri contenuti per evitare una saturazione della banda.
Un sistema sociale, e non solo, sarà dunque grado di sviluppare risposte resilienti tanto più risulterà “adattabile”, “trasformabile”, capace di “interiorizzare culturalmente” il rischio, anche per gli anni a venire; e soprattutto, di diventare consapevole della propria “soglia”, superata la quale il cambiamento diviene inevitabile.
Non sappiamo ancora se il “sistema-mondo” avrà raggiunto la propria soglia, una volta terminato l’attuale stato di emergenza globale; ma abbiamo già la netta percezione che niente sarà più come prima.