Il futuro, secondo gli esperti del digitale, è audio[1]. L’indice di ascolti dei podcast è cresciuto vertiginosamente e perfino io mi sono trovata a seguire il flusso della moda, condividendo episodi di storia e filosofia con i miei alunni, come materiale asincrono. La svolta audio più nota è però Clubhouse.
Perché tanto successo? Davvero insegna ad ascoltare? Cosa vuol dire diventare Moderator e aprire room di qualità che ad ogni conversazione aggiungano valore? È stato restituito il protagonismo alla psyché, dopo aver sconfitto corpo e possessi? Clubhouse è un social comunitario o resta centrato sull’ego? In questa sede intendo decostruire il mezzo, prendendo in prestito la tecnica da Derrida, si parva licet componere magnis.
Clubhouse riapre la guerra dell’attenzione: qual è la chiave del successo
Fonocentrismo
Leggendo in rete viene spesso osannata la conversione audio della comunicazione introdotta da Clubhouse, come se l’oralità permettesse di trasferire essere e identità, mentre la scrittura rappresentasse un allontanamento dalla verità.
La credenza che il vero sia qualcosa che l’oralità sappia comunicare meglio è un pregiudizio antico, caratteristico della storia della metafisica occidentale. Secondo Derrida, laddove viene descritto un dualismo, immediatamente viene creata anche una gerarchia, un ordine di subordinazione di un polo rispetto all’altro: ecco dunque l’oralità sulla scrittura, la presenza sull’assenza, il semplice sul complesso, l’anima sul corpo e così via.
La scissione tra discorso e scrittura e quindi tra presenza e assenza fu proposta la prima volta da Socrate, ma fu resa “immortale” dal suo discepolo più famoso: Platone, ma solo perché, a differenza del “sileno”, ad un certo momento cedette, mettendo per iscritto le proprie dottrine. Come ammise nella Lettera VII scelse il male minore: scrisse ma in forma dialogica, per simulare l’unico modo di far filosofia: il discorso orale. Insomma, non volle perdere l’opportunità di documentare la propria grandezza. Non sia mai di perdere un posto d’onore nella “galleria degli spiriti nobili”, quella capace di perdurare il tempo delle culture… Nella nostra società, la disperata corsa all’invito su Clubhouse sembra essere motivata da una simile sete di immortalità e di elezione ma nel hic et nunc di una conversazione in diretta.
Per i fan della vocalità, l’essere-vero è qualcosa che si co-costruisce, oralmente. È un compromesso a cui si giunge insieme, in modo simile a quello che dirà anche Habermas, per il quale la verità è sempre una negoziazione, il risultato di un’intesa intersoggettiva.
In realtà una parola altro non è che flatus vocis, un soffio di voce. Se anche l’essere fosse non sarebbe comunicabile, né per iscritto né col mezzo dell’aria. Scrivere “soldi” o dirlo ad alta voce non mi renderà ricca (sob!), in nessuno dei due casi. Il non essere e quindi la menzogna circolano tanto in una lettera, quanto al bar, anzi, se mi permetto, in una conversazione orale forse ci sentiamo meno obbligati a dire il vero, tanto verba volant… Nessuno ci chiede le note a “pie’ di bancone”.
In effetti la scrittura anche secondo Derrida ha il vantaggio di essere più onesta, di non voler simulare l’incomunicabilità dell’essere. Ogni volta che penso, proferisco, scrivo un pensiero sto sempre computando segni, all’infinito. Non si può uscire dal linguaggio afferrando e comunicando la cosa. Ogni volta abbiamo a che fare con descrizioni e perifrasi e quindi inevitabile mancanza del riferimento (l’oggetto). Il dialogo pretende di trasferire una maggiore quota di verità perché la parola pronunciata sembra più vicina al pensiero, ma è una mistificazione, un inganno. L’errore, a mio parere, risiede nell’ambiguità tra presenza, fisica e dell’essere. È l’errore di chi, oggi, nella scuola pensa di compensare la disumanizzazione dell’insegnamento con la didattica in presenza o di chi cerca di mascherare il cattivo odore con il deodorante. Presenza non significa empatia. Come il rapporto educativo può essere costruito anche su una chat, la vicinanza fisica non è condizione necessaria e sufficiente per la compassione. Analogamente la contemporaneità non trasferisce necessariamente il vissuto altrui, e non in misura maggiore di quello che può fare il testo scritto di una poesia.
Il tono o il modo in cui ci si muove nello spazio comunicano di più di una stringa linguistica? Attraverso il “non detto” si riesce a cogliere meglio l’intenzionalità del parlante e pertanto l’oralità potrebbe evitare interpretazioni sbagliate dell’interlocutore? Si riduce la frequenza di flame e arrabbiature, ma ne siamo sicuri?
Clubhouse, tuttavia, manca totalmente degli aspetti cinestetici: è solo voce, ma la quota informativa maggiore deriva dal linguaggio di quel corpo preservato proprio dagli snobbati Facebook e Instagram. Inoltre, sostenere che solo la vocalità, il timbro veicolino l’anima, è come credere che un soggetto affetto da SLA non possa comunicare la sua essenza visto che il suo pensiero è inevitabilmente mediato dalla voce elettronica del computer. È un’affermazione grave e sciocca. Le persone, del resto, si sono innamorate attraverso un carteggio e voi andateglielo a spiegare che ogni lemma fissa per iscritto solo parvenze…
Community
Secondo gli utenti Clubhouse è un social più comunitario rispetto a Instagram o a TikTok, in cui la comunicazione è esclusivamente asimmetrica, uno-a-molti senza reciprocità; una comunicazione che in realtà è più “uno-a-uno” e cioè “se stessi-a-se stessi”. Su Instagram domina l’individualismo privato di rapporti: l’altro è mezzo per un like. Tuttavia, se per far numero va bene anche un bot, allora il social è davvero fine a se stessi, e il Tu è privato di tutto, anche del ruolo di essere strumento. L’altro è un inutilizzabile[2].
Non vogliamo altro che conferme all’immagine che stiamo distribuendo. Come ho sostenuto altrove, si tratta di un caso particolare del gioco dell’imitazione. Ricevendo “mi piace” dagli utenti, cerchiamo prove di non essere noi i bot, vogliamo conferme di Essere[3].
Ma è vero che Clubhouse introduce una solidarietà autentica? Che non sia l’ennesima mistificazione con cui celare di essere nient’altro che lupi?
Secondo i “predicatori dell’app radiofonica”, qui è il gruppo che precede l’ego. L’identità, insieme al “che cosa”, al contenuto proposto nella stanza, emergerebbero come conseguenze della relazioni interpersonali che via via si instaurano. Non sono dati in partenza, ma attività processuali, che, come tali, potrebbero non realizzarsi mai. È sempre una scommessa.
Se fosse vero che la comunità crea il soggetto, sarebbe come se venisse proposta l’etica Africana Ubuntu: la persona è tale solo attraverso gli altri, solo a causa degli altri. L’essere, in tale prospettiva, è l’effetto del senso di appartenenza, della condivisione di valori e di esperienze, pertanto è un qualcosa di sfumato e in continuo aggiustamento. Essere scortesi elimina la stessa possibilità che soggetto e oggetto si diano alla fine del processo. “Perché essere etici?” verrebbe qui giustificato dalla posta in gioco che siamo noi, per la serie: “Scegli: o sei gentile o, insieme al dialogo, non esisterai tu”.
La moderazione di Clubhouse diventerebbe qualcosa di automatico. Nessuno farebbe più il troll, se dalla costruzione delle buone relazioni seguissero davvero le soggettività e un mondo in comune. Nella fenomenologia tradizionale, il soggetto che conosce e l’oggetto conosciuto precedono ogni altra relazione. Il Tu, invece, interviene come garante della conoscenza fenomenica, come giudice a cui chiedere conferma di quello che vediamo: “Quello che credo sia vero, lo credi anche tu?”. Non è un caso che la nostra sia prettamente una società scientifica. Prima si scopre una legge, poi la si rende pubblica. Nell’etica Ubuntu la verità, il soggetto e l’oggetto sono invece momentanei risultati morali. Su Clubhouse si realizza tutto questo?
Nel social non si è mai da soli, a partire dall’atto di iscrizione. Non è una decisione autonoma come quando si scarica TikTok e si entra nella community. Su Clubhouse dipendiamo dagli altri. Per entrare riceviamo l’invito di un contatto della nostra rubrica nei messaggi del telefono. Insomma, è chiaro che le relazioni devono essere molto strette e selezionate. A nostra volta possiamo decidere di invitare al massimo altri due amici (ora posso invitarne quattro, perché a Clubhouse interessa che Little Italy si ingrandisca): è la selezione del best friend dotato di IOS.
C’è poi un “moderatore” che decide di aprire una stanza. I guru del social spiegano di avere chiaro cosa si voglia (e possa) aggiungere. Non sei esperto? Allora fai intrattenimento. Hai un’idea? Lanciala e fai in modo che si co-costruisca il topic. Lo spazio, in ogni caso, comincia a esistere solo dal momento in cui altri soggetti partecipano alla conversazione, cioè solo quando si instaura un dialogo con altri utenti a cui il Mod dà la parola. Nella “room” possono entrare una serie di ascoltatori, i listener, i quali, senza obblighi, possono o meno alzare la mano ed essere (forse) invitati a parlare, venendo ammessi nella cerchia degli “speaker”. Questi sono collocati, anche spazialmente, in una zona di visibilità migliore nel design della stanza. L’idea è che non ci sia più un soggetto che dica di sé, mentre gli altri subiscono il contenuto. Adesso la verità diventa un compromesso negoziato nel dialogo.
Attenzione che si sta costruendo una rete gerarchica disuguale e non un gruppo di pari. Gli utenti delle stanze sono raggruppati in una struttura piramidale in stile ancient regime. Su Clubhouse, il vertice della room non solo ha diritto di parola, ma soprattutto ha potere di concedere spazio ad altri aspiranti vassalli. Su Instagram chiunque può commentare senza ricevere l’invito del “padrone di casa”.
La posta in gioco è esibirsi, non venirsi incontro. Il Mod dimostra la sua posizione e gli Speakers guadagnano punti autostima sperando di intervenire in conversazioni “importanti”, con personaggi “importanti”. (Fa curriculum? Lo chiedo per un’amica). Certamente aver descritto Clubhouse come il social in cui puoi incontrare Musk, ha trasformato la possibilità di iscriversi in una necessità. A mio parere, infatti, il desiderio di prendere parte al social non è l’impianto solo audio, non è la rivoluzione atta a restituire “umanità” alla comunicazione, bensì la sua segretezza, l’esclusività.
Clubhouse elimina la logica fino ad ora imperante nei social e su internet: l’orizzontalità e la democrazia. Il Web 2.0 ha più o meno dato modo a tutti di esprimersi, benché, per varie ragioni politiche e socioculturali, l’uguaglianza sia rimasta di fatto solo una promessa. Su Clubhouse, però, le regole bloccano l’accesso ab initio, come se fosse una riproposizione del feudalesimo più rigido. Si entra solo su invito, e si parla solo su concessione. Ciò ripropone una sorta di monopolio culturale.
È chiaro che le persone soffrano di essere state escluse. Venire ammessi diventa una certificazione di valore con cui confermare il proprio merito altrimenti precario. Clubhouse mette in atto una sorta di dualismo “noi-loro”, da cui l’Ego può trovare una definizione identitaria boriosa e una giustificazione per creare privilegi ed escludere ancora di più gli altri dal gioco della democrazia, dell’informazione e della ricchezza.
Quando c’è un momento di crisi personale, sostiene Alberoni, la soluzione è riordinare il caos di sentimenti positivi e negativi. L’odio è veicolato verso le vecchie istituzioni, ormai pronte per essere abbandonate per la nuova infatuazione. Si può investire di speranza salvifica una religione, un progetto politico o un gruppo chiuso con cui condividere una regola di vita. La salvezza religiosa è collocata al di là dello spazio e tempo attuali, inevitabilmente negativi. La politica considera possibile realizzare già in terra la società “giusta”, a patto che si demolisca quella attuale. Per i gruppi chiusi, invece, sono il confine del gruppo e le sue regole di vita comunitarie a proteggere dalla società circostante dannosa. Per essere autenticamente salvifico, però, deve restare rigorosamente serrato, esclusivo, diviso da ciò che sta fuori. Attraverso le sue regole, osservate in modo rigoroso, i membri possono ripulirsi dalla negatività che accumulano quando incarnano ruoli esterni al gruppo. Sentirsi parte di un Club elitario, dunque, è un modo per rispondere alla crisi sociale, politica e valoriale in cui siamo immersi. Facebook, Instagram, i circoli offline ci hanno traditi, le room e la netiquet di Clubhouse sono l’ennesimo palliativo con cui fingiamo di aver trovato la soluzione, la Verità.
Nelle stanze si può discutere con altre “very important people” di questioni importanti. Questo meccanismo, però, ci proietta in quella ipocrisia tipica dell’età dei lumi, per cui i philosophes avevano il dovere teorico di istruire le masse, ma in realtà non confidavano affatto nel popolo. Del resto, l’opinione pubblica restava l’opinione del circolo e le riforme rimanevano decisioni prese dall’alto, pro-borghesi.
Morale del risentimento
Secondo molti, Clubhouse starebbe cambiando il modello superficiale proposto dalle altre piattaforme, quello basato “sull’egemonia estetica di Instagram e TikTok”[4]. A mio parere è il semplice riproporre la scala valoriale incentrata sulla svalutazione del corpo. Bello è il bene, ma bene non è il bello?
Il Novecento ci ha insegnato che i valori, come tali, non esistono. I maestri del sospetto hanno dubitato della moralità e della socievolezza dell’uomo, ma, tant’è, i secoli di morale ascetica platonica e cristiana ci hanno segnato in maniera ben più profonda degli esistenzialisti.
Tra i dualismi più noti della storia della filosofia occidentale c’è, giustappunto, quello che separa l’anima dal corpo. Il vero bene è la vita contemplativa, praticata a discapito dei valori del corpo, del sentimento, della passione, della bellezza fisica e della forza. Gioire per Clubhouse, perché il protagonista è finalmente il pensiero e non il soma, è riproporre la scala valoriale platonica e, conseguentemente, anche la critica di Nietzsche?
Clubhouse, quando fa la morale a Instagram spacciandosi come il luogo di chi conta e di chi non cede all’evanescenza, mi sembra riproponga la morale del risentimento di nietzschiana memoria. Squalificare Instagram, per le ragioni sopra descritte, assomiglia al tentativo di chi, preso da invidia nei confronti dell’eroe omerico, provò a mascherare il proprio livore inventando un dualismo con cui mortificare la fisicità altrui. È colui che, brutto e impotente, non potendo avere visibilità con la propria immagine online, dichiara la voce “luogo di verità” e di conseguenza crea uno spazio ad hoc dove potersi abbellire con essa, rifacendosi sugli altri. È ciò che Nietzsche disse a proposito della “morale degli schiavi”, la quale nascerebbe solo dall’invidia dei sani. I brutti, per punire i forti e togliere loro il potere, inventarono un modello di essere umano costantemente malaticcio, che assunse come guida la ragione a discapito della volontà e degli istinti. I deboli, per porsi come nuova classe dominante, si inventarono un’anima con la quale giustificare una nuova posizione di supremazia e punire col senso di colpa la bellezza e la salute dell’eroe greco precedente a Socrate.
In realtà, le room sono, sotto-sotto, un mero luogo di incontri per egotisti. In alcuni casi Clubhouse diventa solo una vetrina in più grazie alla quale mostrarsi. Il Sè è ormai diviso e quindi moltiplicato da ogni piattaforma su cui compariamo. Su Facebook siamo linguaggio scritto, su YouTube siamo tutorial, su Instagram siamo immagine statica, su TikTok siamo selfie in movimento e su Clubhouse siamo vocalità. Il nostro Ego viene descritto, e quindi specchiato, attraverso segni di diversa natura; siamo centomila prospettive sullo stesso Io. Una stanza degli specchi per colonizzare ogni regione della rete.
Per altri versi Clubhouse è abitato da coloro che vorrebbero fare un belfie, ma, in mancanza di doti fisiche, strumentalizzano la voce per ottenere lo stesso risultato esibizionistico. Trasformare la sapienza in un cosmetico del Sè è un atto amorale simile a quello commesso da Hegel. Secondo Schopenhauer, il filosofo idealista avrebbe piegato la filosofia, per natura libera e non serva a niente, per giustificare il potere pagante, lo Stato prussiano, diventando un “sicario della verità”. Allo stesso modo, far passare la chiacchiera su Clubhouse per una comunicazione con cui si crea comunità, valore, formazione è ferire a morte la stessa relazione comunicativa, quella autentica.
In tutto ciò c’è una fallacia di fondo in chi postula che Clubhouse, per via dell’oralità priva del corpo, sia ipso facto un luogo di spessore culturale. Gli audio non sono necessariamente più seri di un selfie e anche un discorso può fare le veci di un autoscatto. Nella room il fine è mostrarsi borbottando idee solo per ricevere consensi. Quanto meno gli autoscatti sono più onesti, non pretendendo di spacciarsi per oggetti seri. Non fingono di esserlo. Un selfie, del resto, non è meno sciocco e superficiale di un discorso che vorrebbe dire qualcosa ma comunica solo narcisismo e giustificazioni per affermarsi sugli esclusi dal Clubhouse.
Dunque, in soldoni, anche se ho ricevuto un invito su Clubhouse non mi sento né una persona migliore né peggiore, e, anzi, quasi quasi apro Instagram per postare un’immagine di Elfo e Vaniglia. I gattari e l’antico popolo d’Egitto sanno quanto sia irresistibile condividere icone feline!
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- Cfr. T. Basu, The future of social networks might be audio, MIT technology review, url: https://www.technologyreview.com/2021/01/25/1016723/the-future-of-social-networks-might-be-audio-clubhouse-twitter-spaces/ ↑
- Cfr. Lorenza Saettone, Gli inutilizzabili, https://saettonelorenza.wordpress.com/2020/05/12/inutilizzabili/. ↑
- Cfr. Lorenza Saettone, The web: coronavirus web 2.0: domande e risposte della filosofia, INC, 2020, https://networkcultures.org/blog/publication/the-web-coronavirus-e-web-2-0-domande-e-risposte-della-filosofia/. ↑
- Cfr. A. Carnevale, Clubhouse è il social media che potrebbe rendere definitivo il nostro passaggio alla vita virtuale, The Vision, Url: https://thevision.com/innovazione/clubhouse/ ↑