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Clubhouse riapre la guerra dell’attenzione: qual è la chiave del successo

L’essenza di Clubhouse è già nel suo nome: esclusivo (si entra solo su invito) esisti solo se ci sei in un determinato momento (tutto ciò che si dice non è più riascoltabile dopo il live), l’audio è il centro di tutto, e non c’è un altro modo di comunicare se non con la propria voce. Vediamo perché è il social del momento

Pubblicato il 17 Feb 2021

Jacopo Paoletti

Marketer, Entrepreneur, Investor, Advisor

In un mondo, quello dei social network, in cui i giochi sembravano ormai fatti e gli equilibri stabiliti, Clubhouse ha riaperto la corsa a prendersi il nostro tempo, la sfida a catturare la nostra attenzione. Durerà? Vedremo. Intanto proviamo a capire come funziona e perché sta riscuotendo tanto successo.

Che cos’è (e cosa non è) Clubhouse

Per capirne di più, nei primi giorni del mio Clubhouse ho fatto un po’ di sano lurking, che per chi non ha frequentato il primo Internet definibile come “commerciale” alla fine degli anni ’90 è un po’ come dire fare i “guardoni”: una sorta di “zapping” sonoro tra una stanza virtuale e l’altra, il più delle volte senza nemmeno parlare ma restando appunto solo ad ascoltare (cosa che comunque consiglio ai neofiti di qualsiasi cosa, perché in generale non fa mai male capire prima di mettersi a dire e fare, o magari precipitarsi in frettolosi giudizi).

Ad ogni modo, per chi davvero ancora non lo sapesse, Clubhouse è un social network ad invito basato unicamente sull’audio, e creato (dopo diversi anni di incubazione sottotraccia) da Paul Davison e Rohan Seth (fra l’altro dietro c’è una storia bellissima che vi consiglio di leggere sul loro blog aziendale) e lanciato nel 2020 dalla loro Alpha Exploration Co, che in questi giorni sta allargando la sua voice community anche qui in Italia (con le classiche meccaniche member get member e l’effetto scarcity che a noi marketer piacciono tanto).

In realtà l’app del nuovo social audio era diventata popolare oltreoceano già nei primi mesi della pandemia da Covid-19 (anche per via dell’isolamento forzato in tutto il mondo che ha spinto le persone a trovare nuovi modi, forse più “umani”, come appunto la voce, per restare in contatto), ma soprattutto ha spopolato a maggio 2020, dopo un investimento da 12 milioni di dollari da parte del noto Andreessen Horowitz, e a fine 2020 contava già 600.000 utenti registrati. Sembrerebbe che ad oggi gli utenti siano oltre due milioni, nonostante l’accesso sia ancora ad inviti e per ora riservato solo agli utenti iOS (anche se la società ha annunciato l’arrivo a breve dell’app Android, quindi aspettiamoci un’autentica esplosione dagli impatti ancora difficilmente pronosticabili).

La chiave del successo di Clubhouse

Ma qual è la chiave di questa rapida ascesa? Se ad esempio Facebook è basato sulle relazioni personali (Linkedin su quelle professionali), Twitter sul testo breve (e magari un Blog ancora sul testo lungo), Instagram (e poi Snapchat) sulle immagini e YouTube (e ora TikTok e Twitch) sui video, Clubhouse ha al centro proprio e solo la voce viva delle persone. Quello che è importante qui è infatti ciò che si dice (e vi assicuro che dire qualcosa di intelligente che superi i 30 secondi è estremamente difficile, e comunque più difficile di scriverlo, e ve lo dice un comunicatore: difatti la prima cosa che si nota lì dentro in questi giorni è proprio chi si parla addosso per posizionarsi pensando magari di fare becero personal branding, cosa che comunque trovo fastidiosissima anche altrove proprio in termini di inutile rumore generato), e anche il come lo si dice (inteso proprio come estetica vocale: a volte si resta in una delle tante room ad ascoltare solo perché rapiti da una bella voce; da questo punto di vista è il nuovo tempio online di chi maneggia linguaggi e tempi televisivi e soprattutto radiofonici, questo si nota fin da subito girovagando per le già infinite room).

Ma attenzione: Clubhouse non è come un messaggio vocale su Whatsapp, non è un podcast, non è una radio, e non è nemmeno propriamente un social: è forse un po’ tutte queste cose insieme, shakerate in una sorta di baracchino 2.0.

Le mie prime ore su Clubhouse sono state uno strano mix nostalgico tra un raduno di radioamatori e uno di blogger, come quelli che si facevano una volta a Riva del Garda (che sicuramente alcuni si ricorderanno), mentre sul palco virtuale si alternavano il vip di turno, il cantante, l’influencer, il talent, il creator, l’imprenditore, il politico così come l’ultimo scemo del villaggio, tutti per il momento (ancora) sullo stesso piano (cosa che di solito avviene all’inizio di ogni nuovo medium, ripeto: all’inizio, ma poi finisce). Ma almeno per adesso il bello sono proprio queste situazioni surreali (tipo con gente che farebbe di tutto pur di farsi vedere dal personaggione che è lì in quel momento) che finiscono comunque per tenere le persone incollate lì dentro per ore (e che rendevano funzionali e partecipati anche quei raduni fisici dei tempi andati, solo che qui la scala è molto più grande). Possiamo dire quindi che ora siamo ancora nella fase Barcamp, e non saprei dire se questo clima da early adopter possa realmente durare quando tutto questo sarà mass-market (e se poi realmente lo diventerà).

Adesso su Clubhouse c’è una netiquette e un’educazione che non vedevo da tempo online (dovuta anche al fatto che la voce è qualcosa di molto intimo e personale e inevitabilmente espone, ma pure nel 2009 su Twitter scrivevamo in terza persona e poi tutto è andato in vacca, quindi non so quanto il tutto sia passeggero e quanto effettivamente duraturo: mi aspetto prima o poi mitomani, disturbatori, odiatori e troll come ovunque, online come offline, penso che purtroppo questo passaggio sarà inevitabile).

Come funziona Clubhouse

Ma allora come funziona questo nuovo social audio? Ad oggi su Clubhouse si può entrare in room o crearne una propria, e parlare di qualsiasi argomento (davvero dal più settoriale al più universale, fino al cazzeggio duro e puro: e per fortuna). Queste stanze audio only (quindi al momento senza possibilità di chat scritte o di invio di messaggi di testo, immagini o file) sono moderate dai creatori della stessa room, che decidono chi può parlare e chi forse è il caso che vada (e c’è un raffinato sistema che evita gli abuse da entrambi i lati). Se uno vuole parlare e non è un moderatore può “alzare la mano” e uno dei moderatori può decidere se invitarlo sul palco della stanza per essere ascoltato da tutti.

Si possono seguire le persone che si ascoltano o che in generale sono presenti su Clubhouse, e questo influenza l’algoritmo che vi propone le stanze in cui di volta in volta deciderete di entrare (in realtà un po’ tutto quello che fate lì dentro influenza l’algoritmo, come qualsiasi social, quindi occhio a chi seguite e le stanze che frequentate, che da questo dipenderà poi tutto il resto). L’intera esperienza utente è molto semplice e spartana, il che la rende al tempo stesso a mio parere molto efficace. L’audio è veramente sempre di livello, e anche la sovrapposizione delle voci (problema da sempre fastidiosissimo in tutti i servizi come questo) e l’eventuale lag è gestito in modo veramente notevole: sotto quella scocca rude si nasconde infatti un gran lavoro tecnologico che magari sfugge ad un occhio poco attento. Anche nei momenti di picco di questi giorni la piattaforma ha retto egregiamente, nonostante sia nella sua fase di pieno scaleup e senza ancora avere un proprio business model (per ora non c’è pubblicità, non c’è payroll, è tutto gratis e punta a fare userbase, fagocitare utenti e il loro tempo).

La prima regola del Clubhouse

C’è poi un’altra cosa interessante: quello che si dice in una delle stanze virtuali di Clubhouse resta in Clubhouse, che è tipo la prima regola di questo nuovo Fight Club virtuale (la seconda al momento è che su Clubhouse un po’ ovunque si parla di Clubhouse, ma passerà, spero). Ad ogni modo il contenuto audio prodotto dai partecipanti di una room non è più accessibile dopo che questa viene chiusa dai moderatori (questo non vuol dire che Clubhouse non la storicizzi lo stesso per ragioni di sicurezza, ma tant’è; comunque, le policy di Clubhouse muteranno ancora e ancora; basti pensare che non credo siano GDPR compliant al momento).

Tutto questo rende ad oggi i contenuti di Clubhouse una sorta di social stories real time dell’audio: le senti una volta, se sei live, e poi non puoi sentirle più. Niente coda lunga quindi, perlomeno per ora, domani chissà. Questo comunque tiene tutti incollati, perché se ti perdi il magic moment questo non si ripeterà, e se tu non c’eri non puoi dire di averlo vissuto e quindi non esisti nella tua community di appartenenza. Che poi lo sappiamo che non è così nella realtà, ma lo è a livello di dinamiche sociali, e quindi se oggi uno confronta il tempo di utilizzo di Clubhouse rispetto agli altri social nota già come questo ci abbia divorato ore, surclassando perfino Facebook o Netflix. Durerà? Presto e difficile dirlo. Per ora ha superato il miliardo di valorizzazione con ancora relativamente pochissimi utenti (anche se di fatto quelli che sono dentro sono considerabili ad alto valore in termini contenutistici per tutta una serie di ragioni, ma può ancora essere una bolla almeno quanto un successo).

La corsa all’attenzione

Quello che però è evidente è che la sfida nell’epoca dell’Onlife (come la chiamerebbe il professor Luciano Floridi riferendosi a questo mondo ormai indistinto fra online e offline nell’era digitale) è un po’ tutta qui, ed è quella dell’attenzione (ne parlai ormai qualche anno fa all’Università di Pisa con il “Teorema dell’Attenzione della Contentsfera” e probabilmente oggi è ancora più attuale di allora), e Clubhouse ha riaperto i giochi. Quello che infatti è chiaro in Silicon Valley (e non solo: anche e ormai a tutta l’industria dei media, vecchia e nuova) è che vince chi si prende la nostra attenzione, perché è dove siamo disposti a concentrare il tempo che si concentreranno anche gli investimenti (sia di capitali che pubblicitari).

L’abbiamo già visto con Google, Facebook, Netflix, Spotify, Amazon (e l’elenco potrebbe essere lunghissimo): tutti questi colossi competono, più che per avere le nostre informazioni (il famoso adagio “se il prodotto è gratis, allora il prodotto sei tu” resta valido, sia chiaro), per tenerci incollati nelle loro scatole, quindi non tarderà la risposta a Clubhouse dei big già posizionati.

Già nel nome Clubhouse c’è un po’ una certa essenza: è esclusivo, perché entri solo su invito; esisti solo se ci sei in un determinato momento, perché tutto ciò che si dice non è più riascoltabile dopo il live; l’audio è il centro di tutto, e non c’è un altro modo di comunicare lì dentro se non parlare con la propria voce, quindi è più difficile essere artefatti e non autentici. C’è da dire anche che ora sembra un grande laboratorio collettivo di public speaking, quelli più bravi sono infatti coloro che lo fanno meglio e da più tempo anche altrove. Comunque tutto in Clubhouse risuona della prima tesi del Cluetrain Manifesto del 1999 (l’ormai noto “I mercati sono conversazioni”, è qui si sente davvero, ne è quasi l’inno).

Conclusioni

Clubhouse è qui per restare? Non lo so, ma abbiamo aperto le porte all’audio marketing, questo è certo (che è un po’ l’uovo di Colombo più che l’ennesima buzzword, ma in effetti era anche il canale che ancora un po’ mancava). Insomma, che dire, al momento è una bella novità, ci piace, ma è veramente time consuming, accidenti. Tuttavia, personalmente credo che sia un buon modo per “ascoltare” la mia bolla che di solito riuscivo solo a leggere. Solo che io devo lavorare, e immagino pure voi, non possiamo stare sempre qui dentro. Come si fa? Fino a ieri se uno mi mandava un vocalone mi storcevo, e ora siamo tutti qua ad ascoltarne uno collettivo lunghissimo. Parliamone. Magari su Clubhouse. Uhm, forse meglio di no.

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