Lavoro e disuguaglianze

Colonialismo digitale: come le piattaforme diventano nuovo strumento di imperialismo

Il colonialismo digitale passa dai dati: il rischio è che i paesi più fragili forniscano l’esercito per l’industria degli algoritmi di etichettatura e classificazione. L’impatto dell’economia digitale sugli individui, come funziona il nuovo mercato del lavoro, le pratiche di resistenza

Pubblicato il 07 Giu 2022

Fabio De Felice

Università degli Studi di Napoli “Parthenope”

Antonella Petrillo

Università degli Studi di Napoli “Parthenope”

colonialismo digitale

Oggi assistiamo ad un nuovo colonialismo, che per molti sembra seguire la stessa strada già percorsa durante i vari periodi coloniali. Il colonialismo digitale, però, va ben oltre e coinvolge l’intera umanità. In che modo le piattaforme e gli algoritmi contribuiscono a questo modello in una nuova economia globale?

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L’impatto dell’economia digitale globale sull’individuo

Per cogliere le opportunità di crescita offerte dalla globalizzazione, ogni Paese è stato indotto, in anni recenti, a pensare in modo universale.

La capacità di cogliere questo fenomeno ha portato la Cina, ad esempio, a diventare una superpotenza che, dalla funzione di fabbrica del mondo, è passata rapidamente ad assumere un ruolo da protagonista nella corsa allo sviluppo tecnologico ingaggiata con l’Occidente, fenomeno che rappresenta il vero scenario in cui si gioca la partita della geopolitica dei prossimi anni.

Secondo Thomas Friedman, nella Globalizzazione in atto, i singoli individui saranno sempre più soli ed isolati, lasciati al dovere di sopravvivere in un mondo ad altissima componente competitiva, giungendo al cospetto della economia globale totalmente privi di ogni forma di intermediazione e di tutela.

La condizione per prosperare nella realtà digitalizzata è una sola, vecchia come il mondo dalla prima rivoluzione industriale, quella della Spinning Jenny e delle periferie urbane come una giungla infestata di sopraffazione e ogni tipo di sfruttamento descritto da Charles Dickens in “Hard Times”: lavorare più sodo e correre più veloce per provare ad accrescere il proprio tenore di vita.

Siamo più liberi e più felici dal momento che non siamo più alle prese con la catena di montaggio?

Di certo siamo stati e ancora siamo alle prese con la “disruption” che ha stravolto anche le forme classiche della produzione. I cambiamenti che hanno trasformato l’intera struttura del lavoro sono stati radicali, rendendo sostituibile il lavoro caratterizzato da mansioni facilmente automatizzabili, digitalizzabili o trasferibili all’estero.

Colonialismo digitale: a servizio dell’etichettatura dati per gli algoritmi

Nell’attuale scenario che vede le macchine tracciare insieme a noi i confini del nuovo mondo, si vanno delineando nuovi lavori, nuove professioni come coloro che, in fondo alla piramide sociale, aiutano l’intelligenza artificiale a “diventare più intelligente”. Gli sparring partner degli algoritmi.

La vita umana è da sempre scandita dall’azione silenziosa delle tecnologie. Su questo tracciato fatto di scosse e di salti, la vera coupure con la storia che ci precede, è il passaggio dall’analogico al digitale.

La diversità radicale, incisiva come una frattura, sta negli algoritmi, ossia nelle procedure informatiche che hanno lo scopo di guidare i software nello svolgimento delle loro attività, al fine di farli funzionare nel modo migliore possibile.

“Gli algoritmi – afferma Davide Bennato, professore di Sociologia dei media digitali all’Università di Catania – non hanno bisogno di nient’altro che di una serie di operazioni da compiere e un insieme di dati in base ai quali svolgere le funzioni per cui sono stati progettati”.

Per evitare conseguenze impreviste (e imprevedibili) di algoritmi progettati male e per aumentare le capacità di apprendimento dell’AI, occorre che centinaia o migliaia di persone in carne ed ossa siano disponibili a mettersi al servizio dell’industria dell’etichettatura dati.

Attività fondamentale per rendere performanti gli algoritmi che sono il motore, ad esempio, di applicazioni come Glassdoor (ricerca dei datori di lavoro), Instacert (acquisto di generi alimentari), i social, i dispositivi di geolocalizzazione, l’e-commerce, l’assistenza vocale da chatbot, l’auto a guida autonoma.

I veicoli a guida autonoma, infatti, devono essere in grado di distinguere gli oggetti nel loro percorso, in modo che possano elaborare il mondo esterno e guidare in sicurezza. L’etichettatura dei dati viene utilizzata per consentire all’intelligenza artificiale dell’auto, di distinguere tra una persona, la strada, un’altra macchina e il cielo, etichettando le caratteristiche chiave di quegli oggetti o punti dati, cercando somiglianze tra loro.

Alla etichettatura dei dati, basica per l’apprendimento automatico, serve un nuovo “esercito industriale di riserva”, in tutto simile a quello a cui fa riferimento Karl Marx nel primo libro de “Il Capitale”.

La massa dei disoccupati in un’economia capitalistica ha la funzione di tenere alti i profitti delle attività d’impresa, ieri con la forza lavoro sradicata dalle campagne e inviata nelle periferie delle città, come in “Hard Times” di Charles Dickens, oggi con il processo di rilevamento e contrassegno dei campioni di dati.

L’etichettatura è fondamentale non solo per permettere all’algoritmo di AI di identificare oggetti (nelle immagini e nei video), ma anche per trascrivere il parlato in testo, individuare e interpretare gli interessi degli utenti on line, oltre che per la diagnostica delle malattie oculari, volte a suggerire ai medici – come in una moderna iridologia dei falconieri – un trattamento adeguato mediante il riconoscimento dell’anatomia e delle patologie dell’occhio.

Una nuova forma di colonialismo così definita nel volume “The Cost of Connection” di Nick Couldry e Ulises A. Mejias.

Parlare di colonialismo può sembrare azzardato, perché è una parola che sembra far riferimento al passato. Ma è pur vero che dopo l’appropriazione della terra, dei corpi e delle risorse naturali, si sia giunti oggi a una nuova era di controllo imperialistico istituito attraverso app, piattaforme e dispositivi intelligenti che acquisiscono e traducono le nostre vite in dati, da cui si estraggono informazioni che vengono immesse nelle imprese capitaliste e vendute a noi. E soprattutto hanno introdotto un nuovo modello di sfruttamento del lavoro trovando schiere di lavoratori a basso costo in paesi tormentati dalle più devastanti crisi economiche.

L’Intelligenza artificiale sta impoverendo le comunità e le nazioni (che spesso coincidono con i Paesi depauperati dagli ex imperi coloniali), che non hanno voce in capitolo, creando un nuovo ordine mondiale che mostra caratteri tipici del neocolonialismo.

Colonialismo digitale: i paesi poveri forniscono l’esercito per gli algoritmi

Epidemie, carestie, catastrofi naturali, e soprattutto guerre, eccidi, genocidi: in genere questi sono i presupposti affinché intere etnìe e popolazioni cadano a piè pari nel buco nero di catastrofi di dimensioni tali da spingerli, nel migliore dei casi, a rifugiarsi all’estero, cominciando una vita all’insegna dell’asservimento.

Il Venezuela è il caso di scuola. A seguito del crollo dei prezzi del petrolio, degli espropri e delle restrizioni al controllo dei cambi, ha avuto origine una forte recessione economica nel paese.

Dall’inizio della crisi, le statistiche ufficiali hanno riflesso un calo progressivo del reddito delle famiglie e un aumento della povertà, che ha messo a rischio di indigenza il 29,4% della popolazione: un venezuelano su tre. Con la crisi economica iniziata nel 2013, il tasso di disoccupazione è cresciuto rapidamente dall’8% nel 2010, al 14% nel 2015 e al 18% nel 2016.

All’aumento della disoccupazione, dovuto alla chiusura di società private, si sono aggiunte crisi finanziaria e carenza di prodotti e medicinali di base.

Se il caso Venezuela, si può dire, è emblematico, molte altre regioni del mondo – dalle Filippine, al Kenya, dall’India al Nord Africa, dalla Siria all’Ucraina – sono i bacini in cui reclutare manodopera di buona formazione, spesso in grado di leggere e parlare un inglese fluente, con conoscenze dei pacchetti Office e di Internet, a cui è richiesto essenzialmente di disporre di connessione e dispositivi basici per aspirare alle briciole del banchetto del benessere occidentale.

L’avvento del web ha permesso a milioni di giovani orientali di fungere da backstage degli studi professionali statunitensi.

Non è raro il caso di società di consulenza che hanno alle spalle giovani delle Università di Bangalore o del Burkina Faso. Non è stato e non poteva essere uno scambio alla pari, tra strutture complesse di servizi a Occidente e masse sterminate di giovane forza lavoro intellettuale a Est del mondo.

Sta di fatto che, secondo il rapporto della società di ricerca e consulenza Cognilytica, oltre l’80% del tempo che le imprese dedicano a progetti di intelligenza artificiale è destinato alla preparazione, alla pulizia e all’etichettatura dei dati.

Pertanto, molte organizzazioni, per poter reclutare questa massa di lavoratori, hanno fatto ricorso ad un crowdsourcing/crowdworking globale.

Il crowdworking come caporalato virtuale

L’ambivalenza è il carattere prevalente del precipitato di ogni svolta tecnologica. L’aspetto positivo della affermazione di innovazioni presso un numero sempre più ampio di uomini e donne, reca il risvolto opaco di nuove forme di sfruttamento (o alienazione).

L’utilizzo delle tecnologie di IA predispone il genere umano a una riorganizzazione planetaria del lavoro. Il crowdsourcing/crowdworking – letteralmente “lavoro nella (grazie alla) folla” -, sembra una nuova forma di “caporalato”, virtuale, che consiste nel lanciare nella rete una richiesta di servizio o prestazione professionale a distanza, in attesa che dall’altro capo del Paese (o del Continente o del mondo) emerga qualcuno disposto a coglierne l’opportunità.

Siti come Freelancer.com, che in breve tempo ha raccolto quindici milioni di iscritti, ne sono un esempio. Bandiscono via web le proposte di lavoro facendo appello a prestatori d’opera che possano rendere i loro servizi al desk. È una domanda di lavoro non manifatturiero, certo, ma sappiamo che dalla seconda metà del Novecento buona parte delle attività produttive consiste in servizi e prestazioni intellettuali come traduzioni, design, calcolo, progettazione, stime e consulenze del più vario genere.

Altri portali si sono intanto aggiunti, tra Stati Uniti (Topcoder, Upwork) ed Europa (il tedesco Twago, ad esempio). La possibilità di reperire talenti in tutto il mondo, superando tradizionali barriere geografiche, è una chance troppo allettante per le major di svariati settori produttivi.

Dall’altro lato della medaglia, ci sono giovani lavoratori che sono attratti dalla possibilità di cogliere opportunità di reddito anche vivendo a migliaia di chilometri dai centri nevralgici del business, le metropoli occidentali.

Ma al di là o al di sotto delle funzioni attivate dalla tecnologia digitale, le dure leggi del mercato (del lavoro) sono sempre in agguato e tendono alla regola fondamentale del rapporto inversamente proporzionale di domanda e offerta. Dividendo le opportunità offerte in crowdworking dalle grandi aziende internazionali, per i milioni di lavoratori reclutati nel mondo, si torna al risultato di sempre, come in un greve gioco dell’oca: maggiore è l’offerta, più basso sarà il prezzo. Lo sbocco è sempre attingere là dove il costo del lavoro, più contenuto, permette migliori margini. E se pochi dollari al giorno guadagnati in India o in Kenia o in Sud America possono dare ristoro a famiglie in condizioni di estrema povertà, di certo non danno sollievo ai lavoratori di Paesi europei in recessione.

Come funziona il nuovo mercato del lavoro

Quando pensiamo agli aspetti più impattanti delle tecnologie digitali, pensiamo di solito ad uno scontro epocale, tra uomini e robot, a una battaglia in corso tra esseri umani e macchine. Osserviamo che tale processo riproduce inizialmente fratture sociali che l’evoluzione del mercato del lavoro è in grado, prima o poi, di assorbire.

Al di là del digital divide, che innalza nuove barriere distintive tra lavoratori, esponendone molti al rischio di povertà, c’è il circolo vizioso (spesso depressivo) che viene innescato da una redistribuzione del lavoro di dimensione planetaria, che trasforma il mondo in una miniera estrattiva della materia prima più importante: la forza lavoro.

Dicevamo appunto, una nuova forma di colonialismo dove, al posto delle Corone di Spagna o Inghilterra, ci sono gli oligarchi che detengono il monopolio degli algoritmi, assieme ai rari artefici di start-up che riescono a crescere in tempi brevissimi diventando attori di prima grandezza. L’altro lato della medaglia è formato da milioni di persone espulsi o messi ai confini del mercato delle opportunità.

Da sempre, l’IA affascina l’immaginario popolare grazie ai robot dalle sembianze umane. Si pensa in definitiva all’intelligenza artificiale quale estensione della produzione manifatturiera. In testa abbiamo sempre la fabbrica, ma un nuovo “Tempi Moderni” andrebbe scritto avendo come scenario una piccola stanza, dove un solo uomo o donna ha il volto illuminato dal display di un computer dove siede per dieci o dodici ore al giorno.

Se mai è esistita in questi termini, l’epoca pionieristica degli inventori solitari è terminata da tempo.

È propria della natura del web, viceversa, lo sviluppo di una fitta trama collaborativa di scambi, avente ad oggetto una creatività diffusa tecnicamente priva di limiti e confini. La globalizzazione, al netto dei colpi di freno di pandemie e guerre, è oggi a un punto di svolta che pone nuove sfide alla organizzazione del mondo.

“Siamo di fronte – scriveva Cingolani non ancora Ministro – ad una società dei servizi on-demand che elimina gli intermediari, aprendo altri orizzonti e suscitando molte incertezze”.

L’economia on-demand trasforma radicalmente anche il modo di lavorare, imponendo l’occupabilità a richiesta, anzitutto del lavoratore intellettuale, con aziende sempre più spinte a esternalizzare funzioni (e costi) in outsourcing, destinato a diventare un eterno freelance tenuto a doversi pagare da solo pensione e sanità.

Le tecnologie digitali tendono a trasformare il lavoro in una semplice commodity, grazie alla quale inventori e imprenditori vedranno aumentare i margini di profitto, a scapito degli operai moderni, risorsa che continuerà ad essere sovrabbondante. Dietro ai quali c’è, più in basso, un altro girone infernale. Quello in cui si estrae dal fondo della terra il litio, il titanio, le terre rare e le altre materie indispensabili per i circuiti elettronici e i microchip.

Il Ground Zero dei paesi fragili e nuove pratiche di resistenza

Tutte le aziende in economia di mercato si basano sulle economie di scala. Ma per le aziende hi-tech è cruciale il learning-by-doing. Le tecniche di apprendimento automatico sono il cuore dell’incremento della capacità analitica e di ragionamento degli algoritmi, mentre il deep learning promette di creare software dal funzionamento molto vicino al cervello umano.

È da questo varco che trae origine il “colonialismo algoritmico”, vale a dire pratiche industriali “estrattive” nella vasta umanità del Sud del mondo. Sicché la storia si ripete, con modalità nuove si rischia di rivedere nazioni ricche di risorse che non beneficiano delle proprie ricchezze, anche dinanzi alla nuova ricchezza del mondo odierno: i dati.

Quando la domanda di lavori di classificazione registrazione ed imputazione dei dati esplode, tende a trasformare i Paesi più fragili in un “ground zero” per nuovi modelli di sfruttamento del lavoro. Si affermano così nuovi modi di sfruttare manodopera a basso costo e precaria, come emerso dal recente report “AI Colonialism” della Mit Technology Review.

E tuttavia, in mezzo a tanto inferno, si fa avanti qualcosa che inferno non è, e che forse potrà crescere e durare. Parliamo di quelle realtà che imparano a reagire al controllo algoritmico e alla frammentazione sociale.

Proprio dalla ricerca dell’MIT TR emerge il caso dei conducenti di ride-hailing che in Indonesia, proprio grazie alla realtà digitale, costruiscono piattaforme di resistenza. Oppure di una coppia indigena Maori in Nuova Zelanda, che proprio grazie al controllo dei dati della propria comunità sta provando a rivitalizzare la lingua del posto. Anche nel panorama complesso e multiforme delle tecnologie della IA vale quanto afferma Marco Polo che risponde a Kublai Khan nelle “Città invisibili”:

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Bibliografia

Bennato, B., “Sociologia dei media digitali. Relazioni sociali e processi comunicativi del web partecipativo”, Ed. Laterza, 2011.

Calvino, I., “Le città invisibili”, Einaudi, 1972.

Cingolani, S. “L’impatto delle innovazioni distruttive”, Aspenia, n. 62, 2015.

Couldry, N., Mejias, Ulises A., “The Costs of Connection: How Data Is Colonizing Human Life and Appropriating It for Capitalism”. Ed. Stanford Univ Press, 2019.

Dickens, C. “Hard Times: The Original 1854 Novel”. Ed. Independently published, 2021

De Felice, F., Petrillo, A., “Effetto digitale. Visioni d’impresa e Industria 5.0”. Ed. McGraw-Hill Education, 2021.

Friedman, T.L., “Caldo, piatto e affollato. Com’è oggi il mondo, come possiamo cambiarlo”. Ed. Mondadori, 2009.

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