A parte pochi nomi noti, sono davvero pochi gli influencer che hanno un ritorno economico legato alla loro attività di sponsorizzazione social: una debolezza contrattuale ancora più accentuata che per i rider. Eppure gli influencer muovono un giro d’affari milionario.
L’influencer: fenomeno mediatico o categoria professionale?
L’inarrestabile processo di digitalizzazione della realtà che ci circonda ha trovato il suo spazio anche nel mondo del lavoro che da sempre si è contraddistinto per lo scambio di bene e servizi resi da un soggetto (lavoratore) a beneficio di un altro (datore di lavoro) in cambio di un equo compenso (retribuzione). Questo paradigma trova la sua consacrazione nel diritto privato con l’inclusione dell’art. 2094 c.c. nel Codice Civile del 1942, sennonché la sua formulazione (È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore) aderente all’esperienza del periodo sindacale-corporativo verrà superata a poche decadi di distanza con il rapido mutamento dei processi industriali e la nascita di nuove forme d’impresa.
L’evoluzione del mercato del lavoro ha grandemente superato il predominio del suo genus primario, ovvero il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, diventato quasi una figura mitologica e oggetto di scherno nella cinematografia moderna al pari di quanto avveniva con Charlie Chaplin in “Tempi Moderni”.
Per queste ragioni, se già era desueta l’idea che il lavoro potesse essere distinto in base alla sua natura intellettuale o manuale, con la nascita della categoria professionale degli influencer, oggetto di disamina nel presente articolo, emerge un nuovo fattore che potrebbe modificare così il citato inciso dell’art. 2094 c.c. : prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale nonché la propria immagine e credibilità (…).
La più grande complessità di questa categoria professionale deve essere attribuita alla sua fluidità, potendo qualunque professione (manager, artista, divulgatore scientifico, etc.) convivere in parallelo con quella dell’influencer ma, al contrario, non è detto che qualunque professionista possa essere identificato come un vero influencer per il solo fatto che produca contenuti postati sui social media.
Ad avviso di chi scrive, infatti, un elemento indispensabile perché si possa disquisire dell’influencer come categoria professionale anziché quale semplice fenomeno (social) mediatico è che la sua attività gli consenta un sostentamento o, più semplicemente, che ne discenda un ritorno economico, a titolo esemplificativo, perché i suoi contenuti (post, video, foto, etc.) hanno finalità promozionali per un brand.
La realtà è ben lontana da questa prospettiva perché, fatti salvi alcuni nomi noti del settore, sono numerosi gli influencer, anche dotati di un seguito nutrito sulle piattaforme social, a tradurre questa professione nella formula: visibilità in cambio di merce (in sintesi, “cambio merci”).
In definitiva, si riceve il prodotto che si sponsorizza e niente più, e ciò nonostante vengano nella maggior parte dei casi impartite all’influencer da parte del committente tutta una serie di direttive specifiche che vanno dal concept del contenuto sino alle modalità di pubblicazione di quest’ultimo (fasce orarie comprese).
Gli influencer e il ritorno al baratto
La poc’anzi descritta soluzione negoziale, che si sostanzia a conti fatti in un baratto (istituto sempre più in auge negli ultimi anni, basti pensare al successo acquisito da realtà come Sardex), svilisce quella che, a causa forse di un eccesso di offerta, non potrà assumere i tratti effettivi di una professione nella visione socio-economica generale, poiché non può dirsi altrimenti di un’attività che, tanto quando occasionale quanto quando continuativa, non procura una retribuzione (essendo la moneta corrente l’unico valore economico che può essere modulato ed adeguato alla qualità e quantità del lavoro prestato; così comanda anche l’art. 36 della Costituzione).
Da un certo punto di vista, ci troviamo innanzi ad una forma di debolezza contrattuale più grave rispetto a quella dei riders delle imprese di food delivery, fattispecie che ha originato una querelle giudiziale diventata famosa persino per i non addetti ai lavori. Nell’immaginario collettivo risulterebbe probabilmente inaccettabile che l’ipotesi che i fattorini del nuovo millennio compiano le loro consegne in cambio di buoni pasto che gli consentano di mangiare presso i locali dove effettuano quotidianamente i ritiri, eppure non “muove foglia” l’idea che qualcuno metta a servizio di PMI o (spesso) di multinazionali le proprie competenze tecnico-artistiche o anche soltanto la propria immagine in cambio di un prodotto che, in termini di corrispettivo, tra l’altro, andrebbe considerato quale il costo di produzione e certamente non quello commerciale stabilito dagli intermediari del committente.
V’è poi da aggiungere che, quantomeno, i riders sottoscrivono contratti di collaborazione coordinata e continuativa (i cosiddetti Co.Co.Co.) mentre nella fattispecie che qui ci impegna (con particolare attenzione ai cosiddetti “micro influencer”) si resta apparentemente nell’ambito dei rapporti commerciali o, al più, della locatio operis (i.e. “lavoro autonomo”).
Gig economy e lavoro “etero-organizzato”
La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. n. 26 del 4 febbraio 2019, è arrivata persino a ipotizzare l’appartenenza dei fattorini della gig economy ad un quartum genus di rapporto lavorativo che, si ricorda, affiancherebbe le tre categorie canoniche: lavoro subordinato (art. 2094 c.c.); lavoro autonomo (art. 2222 c.c.); lavoro parasubordinato (art. 409, comma 1, n. 3 c.p.c., che disciplina i rapporti di Co.Co.Co.).
Trattasi del cd. “lavoro etero-organizzato”, figlio di un interpretazione giurisprudenziale del dettato normativo di cui all’art. 2 del D.lgs. n. 81/2015, laddove il rapporto deve considerarsi formalmente autonomo, ma per quel che riguarda sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita (e quindi inquadramento professionale), limiti di orario, ferie e previdenza, questo è regolato alla stregua di un rapporto subordinato per il periodo in cui esso ha avuto esecuzione.
Il motivo per cui si è giunti a questa forzosa rivoluzione copernicana di matrice giuslavoristica è riconducibile al celere insorgere di modalità lavorative di nuova generazione (quali, appunto, quelle della gig economy) con le quali il Legislatore non riesce a stare al passo e che sono state censurate da più parti perché sussunte ad una forma di sfruttamento contro la quale non vi sarebbero adeguate tutele normative (di talché, la gig economy parrebbe aver rubato il primato un tempo tristemente detenuto dal precariato legato ai contratti a tempo determinato).
A ben vedere, infatti, i riders (al pari degli influencer): (i) sono liberi di accettare o meno la proposta del committente, (ii) non sono soggetti al potere direttivo di quest’ultimo (precipuamente per quanto concerne gli aspetti disciplinari), (iii) ma non posso stabilire autonomamente l’organizzazione del proprio lavoro.
Sul terzo punto bisogna soffermarsi per un’istante, poiché questo aspetto non è comune a tutti gli influencer, le cui prerogative sono più variegate se messe a confronto con quelle dei riders.
L’aspetto di peculiare interesse giuridico attribuibile agli influencer, invero, è quello di poter ricadere in ognuna delle tre (o quattro) tipologie di lavoro esistenti in base alle effettive modalità di svolgimento del rapporto contrattuale (aldilà del nomen iuris attribuitogli dalle parti).
Influencer micro e macro
A titolo esemplificativo, i micro influencer (quelli che hanno all’incirca tra i 2.000 e i 20.000 follower) si conformano maggiormente all’organizzazione del committente, spesso partecipando ad eventi promozionali e contestualmente pubblicando i relativi contenuti sulla scorta delle direttive impartitegli, mentre i macro influencer, grazie al potere contrattuale derivatogli dalla notorietà, nella quasi totalità dei casi si attestano quali liberi professionisti e possono avere l’ultima parola sul loro onorario. Le maglie di questa categoria sono ancora più larghe e comprendono anche la subordinazione, come nel caso dei “brand ambassador” ovvero degli influencer formalmente assunti dalle aziende affinché contribuiscano ad incrementare il loro “brand awareness” e le vendite.
Potremmo continuare ancora a lungo a discorrere ed esaminare le variegate tipologie di influencer che operano nel mercato nostrano, ma lo scopo del presente articolo è principalmente quello di aumentare la consapevolezza altrui circa la debolezza contrattuale cui soggiace buona parte degli italiani appartenenti a questa categoria, forse non presa giustamente in considerazione a causa delle caratteristiche del proprio lavoro che non possiede magari una connotazione manuale, ma comunque una spendita di intelletto (ed il Legislatore del Codice Civile del 1942, e chi l’ha seguito, non hanno mai fatto distinzione tra l’uno e l’altro).
Un giro d’affari milionario
D’altro canto, oggi, appare persino superfluo ragionare sull’applicabilità agli influencer di un quartum genus o, a prescindere, sulla possibilità di estendergli una serie di tutele del lavoro subordinato nonostante la totale autonomia di esplicazione della loro professionalità, perché siamo innanzi ad una fattispecie di flessibilità negativa che riporta alla mente quella degli associati in partecipazione con apporto di lavoro (art. 2549 c.c.), istituto abrogato dal “Jobs Act” (nella specie dal D.lgs. n, 81/2015, al cui art. 2 si deve far riferimento per il “lavoro etero organizzato”), ove si può essere testimoni di situazioni abusivamente qualificate come meri rapporti commerciali con caratteristiche anacronistiche.
Fintanto che non sarà superata questa pratica (a parere di chi scrive) illegittima sarà difficile immaginare lo strutturarsi dell’influencer quale vera e propria professione – forse destinata ad essere relegata al ruolo di “side job” (se di lavoro si può parlare senza un reale corrispettivo) – il ché impedirà un miglioramento degli standard qualitativi ed etici di una categoria di cui si avvale un numero considerevole di aziende italiane con un giro di affari milionario secondo i report dell’Osservatorio sull’Influencer Marketing attivato da IED Milano con AKQA, agenzia specializzata nell’innovazione digitale del gruppo WPP, e FLU, agenzia specializzata nella creazione, produzione e distribuzione di contenuti con influencer.