fondamentalismi e digitale

Come ci si radicalizza online, le reti sociali chiuse: ecco i fattori in gioco

Il ruolo del digitale e di tutto il mondo online sui fenomeni di radicalizzazione. Un’analisi del problema e dei fattori fin qui (forse) trascurati: dai social network come Gab, alle reti chiuse. Sullo sfondo, il dilemma delle piattaforme: ignorare i contenuti veicolati salvo rari casi, o filtrarli?

Pubblicato il 16 Mar 2019

Alberto Berretti

Dipartimento di Ingegneria Civile ed Ingegneria Informatica, Università di Tor Vergata

gab

In un’epoca segnata dal mainstreaming di idee estreme, radicali, il problema del ruolo delle tecnologie digitali, dei social e di tutto il mondo online in tale fenomeno – che chiameremo brevemente radicalizzazione – è un problema importante. 

Gli eventi di questi ultimi giorni – parliamo della strage nelle moschee di Christchurch in Nuova Zelanda – rendono drammaticamente attuale l’argomento, e ci permettono di iniziare a fare alcune considerazioni, sia nella direzione di meglio definire i vari livelli e fattori di radicalizzazione, sia nel capire il ruolo dei social network digitali.

E se per la prima cosa numerosi sociologi hanno scritto molte pregevoli pagine, è nel capire il ruolo dei media digitali che il mondo della sociologia e delle scienze politiche accademico spesso si ritrova a brancolare nel buio.

Siamo spesso tentati di associare tale espressione – radicalizzazione – ad un caso particolare, e cioè alla radicalizzazione verso forme estreme di religione islamica, ma in realtà il problema è più generale e va visto in un contesto ampio: il concetto di radicalizzazione non è legato necessariamente al fondamentalismo islamico, e nemmeno ad un fondamentalismo religioso qualsiasi, in contesti sociali degradati o di failed states. Anders Breyvik, ad esempio, era un cittadino di una società aperta modello (la Norvegia), che si radicalizza verso idee di estrema destra e di razzismo fino al punto di compiere una strage: dal punto di vista formale, il suo caso non è molto diverso – eccetto che per le motivazioni ed il contesto sia sociale che ideologico-religioso – da giovani appartenenti alle seconde generazioni di immigrati che si radicalizzano unendosi all’ISIS.

Le vicende dell’attentatore alla sinagoga di Pittsburgh, o dell’autore della recente strage in Nuova Zelanda, non sono poi molto diverse

Una definizione di radicalizzazione, ed un framework per analizzare i fattori che conducono ad essa, deve essere agnostico rispetto alla direzione che la radicalizzazione prende.

Definizioni e modelli

La prima distinzione chiave da fare è quella fra una radicalizzazione puramente ideologica – definita come radicalizzazione cognitiva – ed una che invece conduce ad intraprendere azioni violente.

Non è palesemente vero che la prima conduce automaticamente alla seconda, anche se in un ambiente sociale in cui la radicalizzazione cognitiva prevale è più facile che la seconda trovi un terreno fertile. Sia le tendenze alla radicalizzazione di stampo islamista che quelle razziste e di estrema destra ad esempio includono gruppi che, pur adottando visioni del mondo estremiste (ad es. rifiutando la separazione fra la sfera religiosa e quella civile o abbracciando miti della nazione o della razza) non conducono gli aderenti alla violenza. Sono entrambe manifestazioni pericolose di un clima sociale deteriorato, ma vanno affrontate in modo diverso.

La radicalizzazione è anche un fenomeno multilivello, dal punto di vista sociale (nelle referenze bibliografiche (1) e (2) potete trovare un’analisi approfondita; v. anche (3) e (4)). Semplificando, possiamo parlare di radicalizzazione perlomeno a tre livelli:

  • Microlivello: il livello dell’individuo e del suo cammino personale verso l’estremismo; siamo nella sfera dei fattori personali, biografici, psicologici che possono spingere la persona.
  • Mesolivello: il livello delle comunità locali; villaggi, quartieri, comunità on line che si organizzano attorno ad un forum o ad una specifica rete sociale dedicata (di questo parleremo piú avanti).
  • Macrolivello: nazioni, governi, interi ambiti sociali nei quali ideologie estreme diventano accettabili (mainstreaming dell’estremismo) o quando leggi illiberali o ispirate dalla religione vengono introdotte nell’ordinamento civile.

Iniziando ad introdurre strumenti analitici per studiare il fenomeno, possiamo utilizzare il linguaggio della teoria dei grafi e, rappresentando l’intero contesto sociale come una rete, il microlivello si occupa dei singoli nodi della rete, il mesolivello delle comunità – comunque esse siano definite v. ad es. (5) – ed il macrolivello dell’intero grafo sociale.

I fattori che possono portare alla radicalizzazione

Nell’interagire di tali livelli, i fattori che possono condurre alla radicalizzazione possono essere classificati (con tutte le precauzioni da utilizzare quando si fanno simili distinzioni) in due ampie categorie.

Fattori push

Tutto ciò che dall’interno dell’individuo, della comunità o del paese spinge verso la radicalizzazione. Sul microlivello, ad esempio, abbiamo biografie, traumi, e condizioni sociali di emarginazione e di esclusione: si tratta dei medesimi fattori che possono condurre al crimine, alla tossicodipendenza o ad altri tipi di comportamento deviante, e questo spiega come mai spesso individui spinti ad atti estremi da ideologie radicali abbiano un passato di piccolo crimine o di tossicodipendenza, apparentemente opposto alle loro ideologie (l’esempio di Al-Zarqawi, il fondatore di Al Qaida in Iraq, poi diventato ISIS, è un classico (6)).

Ma anche comunità o paesi possono avere traumi collettivi che ne condizionano dall’interno l’evoluzione verso scelte estreme.

Fattori pull

Tutto ciò che dall’esterno – da altri individui, comunità etc. o dal contesto più ampio – spinge l’individuo. Ad esempio l’esposizione passiva a reclutatori, la vita in una comunità radicalizzata in cui i punti di vista estremi sono la norma sociale o in uno stato fallito, una situazione politica instabile e tesa con una opinione pubblica fortemente polarizzata.

Ovviamente questi fattori possono agire su tutti e tre i livelli sopra citati: i fattori push tipicamente muovono dall’individuo, su cui in genere agiscono in modo diretto, al contesto in cui questo vive, mentre i fattori pull tendono a funzionare come condizionamento ambientale, muovendo dalla comunità all’individuo.

Il ruolo dell’online

Che ruolo ha il digitale, ed in particolare tutto il mondo online, sui fenomeni di radicalizzazione? È evidente che la radicalizzazione non è né un fenomeno di oggi, né un fenomeno necessariamente collegato all’emergere delle tecnologie digitali: ma queste hanno purtuttavia un ruolo importante, solo apparentemente quantitativo.

Banalizzando un po’ la realtà, l’effetto del digitale è quello di aumentare spaventosamente la larghezza di banda della comunicazione all’interno delle comunità e tra comunità, solo apparentemente generando effetti esclusivamente quantitativi (maggiore velocità di propagazione dei fenomeni sociali).

In realtà esistono effetti non lineari – ragionare secondo modelli superfissi è un classico errore – che generano soglie critiche, oltre le quali una maggiore velocità si traduce in effetti interamente nuovi: un conto è passare un’oretta al bar a sentire chiacchiere giustappunto da bar, che poi svaniscono lungo la strada per casa, un’altro è essere bombardati tramite una quantità di canali digitali e social quasi 24 ore su 24.

Non solo, ma come noi “pionieri” dicevamo tanti anni fa pensando solo agli effetti positivi, l’online porta con sé la possibilità di collegare comunità che altrimenti sarebbero rimaste separate per ragioni geografiche. Il figlio di immigrati può mantenere un contatto con la sua – eventualmente devastata – madrepatria con tutti i problemi che ciò comporta. Ideologie tossiche possono uscire dalle loro nicchie nazionali ed assumere una dimensione globale.

Che ruolo hanno i social network in questo contesto? Abbiamo già parlato diverse volte del ruolo che la dimensione social della conversazione on line può avere sulla diffusione di informazioni ingegnerizzate alla manipolazione del consenso (note anche come fake news, v. (7)). Qui il discorso diventa però più complesso, perché se è facile cogliere il ruolo delle piattaforme social più diffuse ed importanti (Facebook, Twitter, Instagram, Youtube), se è facile studiarne le dinamiche utilizzando teorie e strumenti relativamente ben noti, qui ad avere un ruolo importante possono essere reti sociali completamente diverse e sconosciute ai più.

I social “di nicchia”

Si tratta di reti opache, che possono avere una durata effimera e sparire rapidamente o rimanere anche con un piccolo numero di utenti grazie ai costi contenuti dell’hosting.

Il 27 ottobre scorso, un sabato, durante le cerimonie per lo Shabbat, Robert Gregory Bowers spara con un fucile automatico Colt e tre pistole Glock sui fedeli nella Sinagoga “Tree of Life” di Pittsburgh, compiendo il più grave attentato antisemita nella storia degli Stati Uniti (11 morti). L’attentatore ha la sua consueta serie di vicende personali problematiche – e ovviamente non tutte le persone problematiche si mettono a sparare al prossimo. Ma l’analisi dell’attività on line di Bowers contiene degli spunti assai interessanti. I suoi post si spostano dal conservatorismo al suprematismo e al razzismo, e diventa particolarmente attivo su un social network, Gab, ben noto per la sua utenza fortemente radicata nei settori dell’ultradestra – piú o meno “alt” – americana. Gab non ha molti utenti (si parla di meno di un milione di utenti), quasi tutti bianchi, quasi tutti maschi, quasi tutti influenzati dalle idee dell’alt-right. Alex Jones, il promotore del sito ultradestro Infowars, bandito da Twitter, è estremamente attivo su Gab.

Dopo l’attentato, Gab, tra le polemiche, resta chiuso per qualche giorno: il tempo di permettergli di agitare ancora di più la bandiera del vittimismo (e chi ha visto le ultime due stagioni della serie TV Homeland ha in mente di cosa si possa trattare).

Altri social network minori (tra i piú famosi MeWe e Minds) non hanno la reputazione di Gab, ma continuano ad essere sfruttati dall’estrema destra in quanto nascono con l’esplicito intento di evitare qualsiasi censura proprio quando i social network maggiori stanno facendo un giro di vite sull’hate speech. Ed il confine tra la tradizionale minoritaria ideologia libertarian negli USA e la altright sta diventando sempre piú esile (davvero non si capisce piú come uno come Frank Zappa possa essere stato considerato, in anni lontani, un libertarian).

Le reti sociali chiuse

Ma sono le reti sociali chiuse – sostanzialmente la versione moderna delle vecchie BBS di una volta – che costituiscono uno dei principali veicoli per la diffusione di idee estreme. Come una volta dovevo avere un numero di telefono da chiamare, e non esisteva una directory, un elenco pubblico di numeri di BBS, così sistemi di groupware, di collaborazione on line, possono essere strumenti di collaborazione in un ambiente di lavoro (come Slack) o nascere come sistemi di chat dedicati ai gamers (come Discord), dei quali per poter prima poter chiedere l’accesso devo prima perlomeno conoscerne il nome. Discord in particolare, che nasce per le comunità di gamers che si aggregano intorno a specifici giochi, è stata utilizzata pesantemente dall’estrema destra durante gli eventi di Charlottesville nell’estate del 2017, bannando gli abusi piú evidenti solo alla fine di agosto del 2017.

I tre fattori di influenza dei social sul terrorismo

La violenza terroristica – di qualsiasi  natura – degli ultimi decenni si caratterizza dunque per tre fattori (v. ad es. (8)), ai quali la tecnologia dei social network digitali contribuisce con un boost fenomenale.

(1) L’atto terroristico diventa una performance, deve essere spettacolarizzato non tanto per terrorizzare quanto per far nascere un sentimento di ammirazione nei proseliti. Instagram e Youtube qui diventano il luogo principale di questa trasformazione della violenza in performance art. Dai video delle decapitazioni di Al Qaeda in Iraq un quindicennio fa alle esecuzioni dell’ISIS nel teatro di Palmira al livestreaming di Christchurch di qualche giorno fa, la tendenza è sempre quella: trasformare l’atto di violenza in performance per un pubblico di militanti, effettivi o anche solo potenziali. Qui il ruolo dei media digitali è evidente.

(2) Lo sfruttamento dell’emotività social mediante il bombardamento continuo di foto, video, must-see, storie esclusive: basta seguire un hashtag e fare il refresh della pagina, o seguire un gruppo Whatsapp o un canale Telegram. Il fatto che si tratti di canali non ufficiali, diretti, grezzi aumenta l’impatto emotivo dell’informazione e ne aumenta, paradossalmente, la credibilità invece che intaccarla.

(3) La creazione di comunità fortemente polarizzate in cui determinate notizie scorrono senza incontrare alcun ostacolo, perché trovano un pubblico predisposto ad accettarle.

Per gli ultimi due punti, l’aumento colossale della larghezza di banda della comunicazione digitale rispetto a quella tradizionale gioca di nuovo un ruolo fondamentale.

Il dilemma delle piattaforme

Il dilemma che si pone non è facile, ed ancora una volta tocchiamo con mano come la generazione di pionieri della rete e del Web abbia con tutta probabilità frainteso la reale portata degli strumenti che hanno contribuito a creare e a diffondere.

La piattaforma sulla quale si dispiega la socialità telematica può permettersi di essere neutrale, di comportarsi come – più o meno – un common carrier e ignorare totalmente i contenuti veicolati salvo il caso di abusi eclatanti (cioè esplicite e conclamate illegalità segnalate da chi di dovere), o deve filtrare – che rischia di diventare un eufemismo per censurare – i contenuti potenzialmente pericolosi, ancorché non si concretizzi un esplicito reato?

Intorno a tale questione si è incentrato un dibattito, anche legale, che ahimè nella maggior parte dei casi prescinde dalla realtà, tipicamente pensando di poter imporre ridicole, tecnicamente quasi impossibili e politicamente improponibili “identificazioni certe” degli utenti (come se tutta una serie di strumenti, dalla rete Tor in giú, non esistessero).

I social network di massa, i fenomeni del calibro di Facebook, Twitter, Instagram, Youtube, hanno preso una direzione precisa: non essere neutrali.

Se le leggi permettono il free speech, non è detto che una rete sociale, che è un sistema privato gestito da privati come costoro preferiscono, debba permettere l’hate speech, anche senza dar definizioni rigorose di ciò che è accettabile e cosa no, poiché «Freedom of the press belongs to those who own one».

È evidente come ciò possa portare ad errori ed eventualmente ad abusi, ma sembra difficile, per gli over the top, potersi permettere un punto di vista diverso. Chi sceglie di voler garantire sempre e comunque la libertà di espressione – come sembrano voler fare piattaforme come MeWe e Minds, rischia di agevolare in realtà non tale libertà, ma la diffusione di disinformazione e falsità.

Chi accusa i social media mainstream di fare poco, e – soprattutto dopo il caso neozelandese – parla di algorithmic failure in relazione al fatto che contenuti offensivi possono facilmente arrivare al pubblico riuscendo a superare il filtro del mitico algoritmo (9), probabilmente non si rende conto della reale dimensione del flusso di comunicazione che i social network mainstream moderni si trovano a dover gestire.

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BIBLIOGRAFIA

(1) R. Dzhekova, N. Stoyanova, A. Kojouharov, M. Mancheva, D. Anagnostou, E. Tsenkov, Understanding Radicalization, Review of Literature, Center for the Study of Democracy, 2016

(2) R. Dzhekova, M. Mancheva, N. Stoyanova, D. Anagnostou, Monitoring Radicalization, A Framework for Risk Indicators, Center for the Study of Democracy, 2017

(3) R. Lara-Cabrera, A. Gonzáles Pardo, K. Benouaret, N. Faci, D. Benslimane, D. Camacho, Measuring the Radicalisation Risk in Social Networks, IEEE Access, Special Section on Heterogeneous Crowdsources Data Analytics, v. 5, p. 10892-10900, 2017

(4) B. Doosje, F. M. Moghaddam, A. W. Kruglanski, A. de Wolf, L. Mann and A. R. Feddes, Terrorism, radicalization and de-radicalization, Current Opinion on Psychology 2016, 11:79-84

(5) S. Fortunato, Community Detection in Graphs, Physics Reports, v. 486, p. 75-175, 2010

(6) M. A. Weaver, The Short, Violent Life of Abu Musab al-Zarqawi, The Atlantic Magazine, July-August 2006 issue, https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2006/07/the-short-violent-life-of-abu-musab-al-zarqawi/304983/

(7) A. Berretti, Ma le fake news non sono (solo) quello che pensate, 17 maggio 2017, https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/ma-le-fake-news-non-sono-solo-quello-che-pensate/; Computational Politics, quale futuro per la politica nell’era digitale di massa, 18 maggio 2017, https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/computational-politics-quale-futuro-per-la-politica-nellera-digitale-di-massa/; Le fake news non sono balle, ma (cattiva) politica computazionale, 30 novembre 2017, https://www.stradeonline.it/terza-pagina/3214-le-fake-news-non-sono-balle-ma-cattiva-politica-computazionale

(8) John Robb, Social Violence Networking, 8 luglio 2016, https://globalguerrillas.typepad.com/globalguerrillas/2016/07/violence-media.html

(9) Will Knight, The mass shooting in New Zealand shows how broken social media is, 15 marzo 2019, https://www.technologyreview.com/the-download/613132/the-mass-shooting-in-new-zealand-shows-how-broken-social-media-is/

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