il caso Young.it

“Come Google/YouTube ha penalizzato la mia inchiesta giornalistica”

Una storia di blocchi scattati in automatico e per errore, ammesso da Google – Youtube, ma ripetuto, su un lavoro giornalistico risolleva il tema della necessità di soluzioni che riequilibrino i rapporti di forza tra le parti e riducano l’arbitrio delle piattaforme

Pubblicato il 09 Apr 2021

Germano Milite

direttore Young.it

youtuber

Lo scorso 24 febbraio 2021, il canale Youtube della testata giornalistica Young.it riceve un avviso per violazione di copyright.

Il reclamo è stato presentato da Matteo Pittaluga, per un estratto di appena 37 secondi ripreso da una sua live di circa un’ora. In quell’estratto, Pittaluga ammette di aver guadagnato migliaia di euro con due aziende individuate come scam: MAP (My Advertising Pays), chiuso e riconvertito poi in TAP (“The advert Platform).

Questo stesso video, verrà inserito anche all’interno della nostra dettaglia inchiesta pubblicata proprio su young.it, dove ripercorrevamo, prove e documenti alla mano, il curriculum pittalughiano tra scam e ponzi nei quali ha investito (e fatto investire) fino all’ultima iniziativa “Marketing Genius”, una sorta di “academy” che dovrebbe formare futuri Social Media Manager.

La storia di rimozioni Youtube

A quello che a suo tempo divenne uno dei top promoter europei di TAP, evidentemente, questa “attenzione” non piace per niente. Di conseguenza, segnala come detto il primo video caricato sul nostro canale Youtube. Google, invertendo l’onere della prova, dà per buona la segnalazione e si dimentica di come è tutelata la libertà di stampa, critica e cronaca, che prevede naturalmente possibilità d’utilizzo di materiale audio-visivo altrui a scopo appunto di cronaca, critica, commento ecc. Avremmo violato il copyright riprendendo la live di un personaggio al centro di un’inchiesta giornalistica, dunque.

Il video viene così rimosso. Lo stesso video, viene ripreso all’interno di una nuova live, mesi dopo, lanciata per il progetto “ScamBusterz”. La live dura oltre un’ora, il video ripreso sempre e solo 37 secondi. Altra segnalazione a Youtube, altro “strike” praticamente automatico per il nostro canale ed altro video rimosso lo scorso 6 marzo.

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In più, una penalizzazione: Young non potrà più realizzare live sul suo canale Youtube e, anzi, al prossimo strike potrà vedere sospeso il canale stesso. Inviamo contronotifica, sia in Italiano che in inglese, motivando perché quelle rivendicazioni sono del tutto ed infondate. Il nostro legale, infatti, invia una PEC ed una contro-notifica a suo nome.

Ed è qui che l’assurdo precedente aggiunge altro assurdo ancora più assurdo: Google ci invia una mail dove ci informa che il nostro canale Youtube è stato sospeso del tutto. Motivo? La contronotifica del nostro legale è stata vista come “fraudolenta” (sic!). Insomma: un avvocato scrive a Google per tutelarci e ripristinare i video e, per quelli che sembrano a tutti gli effetti degli automatismi maldestri, ottiene addirittura il ban completo del canale. Il tutto, udite udite, con Google che ammette di rifarsi ad una legge USA sul diritto d’autore, la cosiddetta DMCA. Sì, è proprio così: big G ha censurato un canale Youtube (e poi un’inchiesta, come vedremo poco sotto) applicando, in Italia, per una testata giornalistica italiana che ha parlato di un cittadino italiano in italiano, una legge americana.

L’ultima mossa di Pittaluga è infatti stata quella di inventarsi la stessa inesistente violazione di copyright segnalando addirittura l’inchiesta stessa, ben indicizzata su Google (quinta posizione in prima pagina sulla SERP se si digita “Matteo Pittaluga”). Tra l’altro unico elemento di contraltare presente sul “formatore”, visto che il resto sono contenuti autoreferenziali da siti proprietari e/o publiredazionali a pagamento. Insomma: il lettore/utente che naviga online, per Pittaluga, non può che sentir e veder parlare bene di lui.

Google, incredibilmente, si immagina senza una verifica anche rapida, accoglie di default la segnalazione e ci de-indicizza l’inchiesta. Sì, avete letto bene: Google cancella dai risultati di ricerca un’inchiesta giornalistica pubblicata da una testata italiana, applicando una legge valida negli USA.

E ancora ban

A quel punto decidiamo di reagire con decisione, denunciando l’inaccettabile accaduto a più colleghi possibili. Il primo che accoglie la nostra storia e la riporta su La Repubblica è Alessandro Longo (direttore di Agendadigitale.eu), che intanto riceve anche risposta da Google, che parla di “errore”, si scusa, riabilita il canale Youtube e re-indicizza la nostra inchiesta (ora al secondo posto nella SERP).

Poco dopo, Fabio Gallerani, socio di Matteo Pittaluga ed anche lui oggetto delle inchieste di Young, segnala un altro video presente sul nostro canale, durante il quale si dice entusiasta e sorpreso per la candidatura (che si ottiene pagando) a “Le Fonti Awards”. Il video era stato ripreso perché, a seguito delle segnalazioni inviate da Alessandro Norcia del Gatto e la Volpe nel web, le Fonti Awards avevano deciso di escludere Marketing Genius dalla manifestazione.

Bene, anzi male: in un primo momento, Youtube accetta anche l’ennesima contestazione infondata e ci disabilita il canale nuovamente. Passa poco tempo (qualche ora) e Youtube torna sui suoi passi, riabilitando video e canale e comunicando a Gallerani perché la sua rivendicazione non poteva essere accolta, visto che il video rientrava nei termini del “fair use”.

I video ancora sospesi

Intanto, i due video di Pittaluga, continuano ad essere (erroneamente) rimossi ed il canale Youtube di Young, che continua ad essere a rischio ban. Naturalmente, queste problematiche, potrebbero capitare a chiunque si occupi di inchieste e “disturbi” personaggi e/o aziende pronti/e a tutto pur di rimuovere contenuti sgraditi. Abbiamo naturalmente inviato altri solleciti (anche in inglese) a Google e Youtube, confidando che gli appelli siano definitivamente e rapidamente accolti, per permetterci di svolgere il nostro lavoro d’inchiesta senza temere oscuramenti ingiusti e lunghe quanto farraginose procedure per combatterli.

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Ma questa storia non riguarda solo noi. E non solo Google.

È il momento di pensare, come già stanno facendo Europa e USA, a nuove norme e prassi che riequilibrino i rapporti di forza tra le parti e riducano l’arbitrio delle piattaforme (Google, Apple, Facebook, Amazon).

Qualche proposta che viene dalla nostra esperienza diretta.

  • Google, che detiene de facto quasi il 100% del traffico di ricerca, dovrebbe magari aprire dei canali di tutela preferenziali almeno con gli editori che hanno testate giornalistiche registrate. Con gli editori ed anche con i giornalisti che usano le sue piattaforme per fare informazione seguendo la deontologia professionale, non invertendo più l’onere della prova a fronte di segnalazioni per violazioni del diritto d’autore.
  • Ci vorrebbe ad esempio un ufficio formato da esseri umani, competenti in certe materie, in grado di analizzare in tempi rapidi e con efficacia vicende come quella di cui abbiamo parlato. Perché, oltre agli onori, gli oligopoli ed i monopoli devono prevedere anche oneri di responsabilità pubblica.

Soprattutto quando parliamo di multinazionali che possono influenzare la ricerca ed il reperimento di informazioni, influenzando lettori e potenziali clienti.

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