Google ha iniziato una campagna acquisti notevole di aziende e servizi rivolti ai bambini. Ha, ad esempio, comprato “LaunchPad Toys” uno sviluppatore che tra le sue app per i più piccoli ha “TeleStory” e “Toontastic”. La prima trasforma l’utente in una casa di produzione video in maniera semplicissima, a portata di bambino, insomma. La seconda permette, con la stessa semplicità, di produrre cartoni animati: il prosumer (produttore e consumatore, termine coniato da Tofler per definire il consumatore e insiemre configuratore di prodotti) diventa così baby.
Ma se la lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile è diventata uno dei capisaldi della società occidentale, non si può dire lo stesso dello sfruttamento commerciale: questa forma di marketing diretta ai bambini, il child-direct marketing (CDM) esiste almeno dall’avvento della Grande distribuzione organizzata, con i centri commerciali che ormai dagli anni ’80 espongono merce a misura di bambino: accattivante, dai colori sgargianti, alla loro altezza.
Si sfruttava così anche l’ultimo modello genitoriale, di stampo affettivo (si focalizza sul soddisfacimento dei bisogni e sull’evitare frustrazioni ai figli) e non normativo. Quando invece la famiglia era ancora autoritaria, i primi studi sui gatekeeper negli anni ‘40, sui guardiani del cancello dell’informazione di Lewin, nascono sempre in ambito famigliare, dove era il padre ad influenzare i consumi di cereali delle famiglie, facendo così ancora da soggetto decisore per tutta la famiglia. Poi con l’avvento della comunicazione di massa gli influencer (gli opinion leader di Katz e Lazarsfeld) si sono diffusi a seconda del prodotto e della situazione. Era ad esempio la figlia, attraverso la lettura dei rotocalchi giovanili, a indicare alla famiglia americana degli anni ’50 quale film andare a vedere al cinema.
Oggi che il mondo è social e tutti i soggetti sono raggiungibili da messaggi promozionali via web, Internet diventa quello che fino a qualche anno fa era il centro commerciale per tutta la famiglia, il non luogo, secondo l’antropologo Marc Augé, per eccellenza: fusione di centro per l’acquisto (con gli infiniti negozi), di consumo (con i ristoranti) e divertimento (con grandi o piccoli parchi giochi, sale giochi e cinema).
La questione cruciale è però che attraverso tali meccanismi non si mette in moto semplicemente il consumo di prodotti e servizi, ma si possono costruire dei veri e propri stili di vita:
sono forti le preoccupazioni ad esempio verso il CDM per quello che viene definito junk food (il cibo spazzatura), che va ad incidere pesantemente sulle abitudini alimentari dei bambini e dunque sulla loro salute; da una ricerca americana uscita quest’anno risulta che più del 20 per cento dei fast food utilizzano il CDM dentro e fuori i locali.
Per il junk food il target efficacemente colpito dal CDM appartiene in America alle comunità nere, residenti nelle aree rurali, e comunque le classi che non hanno un alto reddito sono sproporzionatamente esposte rispetto alle classi benestanti.
Gli studi scientifici, sull’influenza della televisione e del Web 1.0, hanno dimostrato in realtà che una piccola percentuale veniva influenzata dal CDM attraverso questi mezzi, ma rappresentava purtroppo una minoranza già svantaggiata: bambini che vivevano in famiglie deboli, con violenze in casa, vicino a forme di devianza e nella mancanza di progetti educativi e valoriali.
Ricerche che mettono in luce come il ruolo primario di protezione spetterebbe ancora ai genitori con il ruolo chiave di sviluppare nei figli competenze come consumatori critici.
Mentre con il CDM dei big della rete, il target (e i potenziali rischi) potrebbero spostarsi dai soggetti economicamente svantaggiati a coloro che hanno invece le possibilità di utilizzo delle nuove tecnologie digitali: crescendo in contesti più avvantaggiati, forse potranno disporre del capitale culturale necessario, ed anche di quello sociale (reti di parenti, amici, agenzie di formazione, associazionismo) a produrre i necessari anticorpi per un consumo critico.
Già alcuni studi, come quello recente di Qualizza, dimostrano come i giovani anche in Italia si impossessino, addomestichino la nuove tecnologie, il loro utilizzo e contenuti, in un maniera a loro più consona e sociale (nel senso della condivisione tra pari, che già genera di per sé una forma di controllo).
Non bisogna poi dimenticare che proprio attraverso queste nuove applicazioni, gli stessi bambini, potranno diventare influencer: come Evan, il bambino di 8 anni che recensisce giocattoli su un canale Youtube da 745 milioni di visualizzazioni in 3 anni, idea nata da un gioco mediale con suo padre, ora genera alla sua famiglia 1,3 milioni di dollari l’anno.
È ipotizzabile che una volta ancora, coloro che sono avvantaggiati nel divario digitale, potranno carpire da queste nuove applicazioni dei big della rete opportunità che non andranno a chi invece ha meno possibilità (non solo economiche, ma anche culturali e sociali):
Sesame Street è un programma nato nel 1969 negli USA con l’intenzione di supportare la formazione dei bambini in età prescolare, in particolare quelli residenti nelle città; studi hanno dimostrato come lo spettacolo abbia aumentato il divario educativo tra i bambini poveri e quelli della classe media.
Il motivo: i bambini poveri non disponevano o della televisione o del capitale culturale e sociale intorno (il contenuto era stato prodotto anche per essere fruito dai bambini in compagna degli adulti).