social e potere

Come le big tech hanno rovinato internet: ultimo caso, Threads



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Threads, l’anti-Twitter di Meta, assurge ora a emblema della drammatica consistenza del problema delle big tech. Che hanno distrutto il sogno della rete aperta ingabbiando gli utenti in un parodia delle promesse originali. Ecco perché

Pubblicato il 11 lug 2023

Vittorio Bertola

Research & Innovation Engineer presso Open-Xchange



threads

La vicenda di Threads, il social alternativo a Twitter appena lanciato da Meta escludendo l’Europa non è la dimostrazione che l”Ue sta bloccando l’innovazione con le sue leggi, ma semmai è proprio l’emblema della drammatica consistenza del problema delle big tech.

Aziende che possono fare quel che vogliono, hanno potere vi vita e di morte sui loro utenti, ci indirizzano sui contenuti decisi dai loro algoritmi per far soldi: in poche parole, controllano e manipolano le nostre esistenze online spacciandosi per arene di libertà e democrazia.

Threads: l’Europa uccide l’innovazione?

Le piattaforme Internet sono imprescindibili e immortali, dicevano. È impossibile anche solo pensare di fare concorrenza ad Amazon, a Facebook, ad Android e iOS, gridavano. In tanti, specialmente in Europa, hanno ripetuto queste frasi all’infinito, fino a convincere la Commissione Europea a promuovere una valanga di leggi per imbrigliare queste piattaforme, per riportarle sotto controllo e per difendere gli utenti finali e i potenziali concorrenti.

Poi, succede che Meta lancia Threads, la sua versione di Twitter, e in un paio di giorni mette insieme cento milioni di utenti; dà l’impressione di poter rimpiazzare l’originale, il supposto monopolista del dibattito politico online nel mondo occidentale, nel giro di qualche settimana. E perdipiù, massimo sfregio, lo fa escludendo l’Europa, tagliando fuori gli utenti europei e lasciandoli alla finestra, con la sensazione di essersi persi qualcosa di epocale. Molti veri o presunti esperti di digitale cominciano a lamentarsi, al grido di “l’Europa uccide l’innovazione”. Ma è proprio così?

Threads e il ciclo di vita delle piattaforme Internet

Per capire davvero quello che sta succedendo, è necessario fare un passo indietro e analizzare il ciclo di vita delle piattaforme Internet da un punto di vista poco ortodosso, quello che loro stesse preferiscono non mostrare più di tanto. Le piattaforme, infatti, narrano se stesse come un club di benefattori, uno strumento di democrazia sociale ed economica che offre in modo neutro opportunità a chiunque, in qualunque angolo del mondo; e che permette anche a un ragazzino di una cittadina nella bassa provincia di Torino, immigrato dal Senegal in tenera età, di diventare ricco e famoso, anzi l’influencer più seguito al mondo. Certo, le piattaforme non negano di guadagnare bene, pretendendo per sé una parte del denaro generato con queste attività; ma, secondo loro, è molta di più la ricchezza materiale e immateriale che creano per gli altri.

La realtà, purtroppo, è diversa. In origine, Internet era pensata per disintermediare, per mettere in comunicazione diretta aziende e consumatori, scrittori e lettori, politici ed elettori; ma quest’idea non aveva tenuto conto del potere della cosiddetta massa critica. Pertanto, nel primo decennio di questo secolo, quando Internet ha raggiunto le masse, si è innescato un fenomeno di consolidamento che ha assegnato a poche aziende un ruolo privilegiato; ed esse lo hanno sfruttato per reintrodurre un ruolo di intermediazione centralizzata.

La rapida evoluzione delle piattaforme in macchine da soldi

Le piattaforme nascono quindi come strumento di concentrazione delle relazioni tra individui e tra consumatori e produttori; il loro valore dipende dal fatto di avere molti utenti e di riuscire a far passare di lì le loro attività in rete. Per questo, ogni volta che nasce una nuova piattaforma, il servizio offerto agli utenti individuali della rete è ottimo e gratuito. La prima versione di Facebook permetteva davvero a ogni persona di ritrovare vecchi amici e chiacchierare in maniera semplice con loro, senza essere disturbati; la prima versione di Google mostrava subito risultati di ricerca molto rilevanti, molto migliori di quelli dei motori di ricerca precedenti, che vennero velocemente spazzati via; la prima versione di TikTok era incredibilmente abile nel capire i gusti dell’utente e mostrargli altri contenuti che gli piacessero. Grazie a queste capacità innovative e ai capitali necessari per offrirle gratis, questi servizi hanno rapidamente conquistato il mercato.

Successivamente, però, ogni piattaforma deve concentrarsi sul fare soldi. In parte, è una necessità: servire milioni o miliardi di utenti è molto costoso. In parte, invece, è avidità: un grande numero di utenti è una grande opportunità di fare soldi, specialmente in un contesto in cui le aziende nascono come startup finanziate da investitori di ventura, che hanno il ritorno economico come unica misura di successo.

A quel punto, le piattaforme smettono di ottimizzarsi per gli utenti e cominciano a ottimizzarsi per l’altro lato della transazione: per le aziende che vendono i prodotti, per gli investitori pubblicitari, per i grandi produttori di contenuti. Le interfacce utente vengono riorganizzate per ospitare inserzioni a pagamento; gli algoritmi vengono modificati per evidenziare i contenuti di produttori commerciali o semplicemente di chi offre di più.

Sulla propria timeline o nelle proprie ricerche, gli utenti vedono sempre meno contenuti di persone o di argomenti che hanno scelto di seguire o di cercare, e sempre più contenuti selezionati per loro dalla piattaforma. Essi non gradiscono, ma tollerano ampie quantità di intromissioni come queste, perché ormai la loro vita quotidiana dipende dalla piattaforma; ed è qui che la piattaforma adotta strumenti tecnici per dissuadere chi volesse passare a un prodotto concorrente. In questa fase, per esempio, le possibilità di app di terze parti di interagire con i contenuti vengono limitate o rimosse, per evitare che qualcuno possa fornire interfacce prive di pubblicità e di manipolazioni commerciali; e si inseriscono blocchi di ogni genere per chi volesse provare a spostare il proprio account su altri servizi simili.

Algoritmi e viralità dei contenuti, un rapporto opaco

Allo stesso tempo, per motivare gli utenti, le piattaforme cercano e creano “campioni”, spesso in maniera scientifica. Vi siete mai chiesti cos’è che permette a uno sconosciuto di accumulare velocemente migliaia o milioni di follower, spesso facendo le stesse faccette, le stesse recensioni, gli stessi brani di chitarra, le stesse challenge o le stesse esibizioni di corpo che fanno tutti gli altri? Perché alcuni filmati e alcuni account diventano virali e tanti altri simili no? Beh, naturalmente ci vuole la capacità di colpire l’attenzione in pochi secondi; conta la faccia, l’espressione, la simpatia a pelle. Ci sono indubbiamente abilità, preparazione, pianificazione. C’è, infine, una grossa dose di caso e di fortuna. Ma non è affatto tutto qui.

Alla fine, la viralità e la visibilità di un contenuto dipendono da un solo padrone, l’algoritmo; e nella realtà, nessun algoritmo è onesto e imparziale. Per esempio, qualche mese fa la rivista Forbes ha documentato[1] come TikTok disponga di uno staff umano che sceglie quali autori e quali video far apparire a forza sui cellulari degli utenti, cercando di offrire modelli di successo: mostrando uno sconosciuto che diventa miliardario per spingere miliardi di altri sconosciuti a continuare a provarci e ad alimentare la piattaforma, anche se non a loro non sarà mai data alcuna chance.

Il potere di vita e di “morte” delle piattaforme sugli utenti

Di converso, anche influencer con grande seguito e oggettive capacità, se cadono in disgrazia con la piattaforma, possono sparire di colpo o venire, come si dice, “shadow banned”, nascondendo i loro contenuti ai loro stessi follower; e la loro fortuna finisce lì.

Quando una piattaforma arriva a questo punto della sua parabola, il suo potere è immenso: può creare e distruggere il successo non solo degli utenti, ma anche degli stessi inserzionisti e produttori commerciali, per i quali essere tagliati fuori dalla promozione della piattaforma vuol dire perdere di colpo gran parte del fatturato. Sono molti, per esempio, i piccoli giornali online per cui un cambio di algoritmo di Facebook ha voluto dire la rovina finanziaria e il fallimento. In questa fase finale, dunque, la piattaforma si ottimizza soltanto per se stessa e per gli interessi del proprio proprietario, economici ma anche politici: diventa uno strumento di potere fuori da qualunque controllo.

Twitter e la fase di “enshittification”

Questo è il ciclo che qualche mese fa, in un fortunato articolo[2], Cory Doctorow ha definito “enshittification”; ci permetterete di tradurlo come “finire in merda” (per gli utenti). Alla fine di questa fase, infatti, sia gli utenti finali che le aziende che vendono prodotti o contenuti tramite la piattaforma sono piuttosto scontenti; ma non lo sono così tanto da mettersi ad affrontare tutte le scomodità e i danni che un cambio di piattaforma e di abitudini comporta. La piattaforma gioca su questa insoddisfazione controllata, e sopravvive… fino a che non arriva un’alternativa vera, e allora muore.

Twitter, dunque, sembra essere proprio in questa fase. Musk l’ha comprata e poi l’ha usata come proprio giocattolo, per promuovere le proprie visioni sociali e politiche o semplicemente per divertirsi e provocare; e questo ha creato talmente tanta insoddisfazione da motivare decine di milioni di utenti a cercare qualcos’altro e a provarlo in massa quando questo altro è apparso, nella forma di Threads. Non sappiamo affatto se Threads sopravviverà all’enfasi iniziale e dove sarà tra tre mesi o tra tre anni, ma, come dicevamo all’inizio, alcuni hanno usato questa vicenda per attaccare le politiche europee.

Threads: ha ragione chi critica l’Unione Europea?

Dunque, ha ragione chi critica l’Unione Europea per le sue regole, sostenendo che non esiste affatto un monopolio invincibile delle piattaforme, e che invece di fare tante leggi bisognerebbe promuovere la libera iniziativa imprenditoriale? Anzi, che dovremmo liberarci pure delle leggi sulla privacy, che tanto non servono a niente e che ci hanno privato di questa opportunità, di questo nuovo prodotto che gli altri ora hanno a disposizione?

Ecco, no. Perché, vedete, c’è un piccolo ma fondamentale particolare in questa storia: quello di Threads non è affatto il primo tentativo di offrire un’alternativa semplice e convincente a Twitter, e nemmeno il migliore, ma solo il primo che ha avuto successo immediato. Nei mesi scorsi sono apparse o sono state promosse molte alternative, a partire da Mastodon, un social media davvero distribuito in cui ognuno può scegliere da chi far ospitare il proprio account, o addirittura mettersi in piedi un server da solo. E poi, Bluesky, Hive, Clubhouse, Tumblr – piattaforme vecchie e nuove.

Allora, perché Threads ha avuto successo e gli altri no: perché è migliore? Assolutamente no: semplicemente perché è promosso dall’azienda che attualmente già domina il mercato dei social, e che lo ha messo sotto il naso dei suoi miliardi di utenti esistenti. È ovvio: se tutti gli utenti di Instagram si trovano sotto il naso un invito a entrare gratuitamente in Threads, basta che una piccola percentuale dica sì, anche solo per curiosità, e saltano subito fuori decine di milioni di iscrizioni; al contrario, iscriversi a Mastodon o anche solo scoprire la sua esistenza richiede uno sforzo molto maggiore.

In realtà, dunque, questa vicenda dimostra esattamente la drammatica consistenza del problema delle big tech. Fino a che queste aziende potranno fare ciò che vogliono – compreso usare il proprio dominio per attaccare quello del vicino, come nelle guerre feudali del Medioevo – noi utenti e peggio ancora noi Stati europei saremo loro schiavi. Potremo soltanto stare qui a vedere Zuckerberg e Musk che si prendono a botte virtualmente e magari anche fisicamente, facendoci pagare un biglietto. Ma sono scontri truccati, che alla fine non cambiano la situazione, ma soltanto la faccia di cui siamo schiavi in questo momento.

Conclusioni

Bene fa dunque l’Europa a cercare qualcosa di radicalmente diverso, e a non cedere sui propri principi. È ora di smetterla con la mentalità dello schiavo, quello a cui basta agitare davanti quattro perline luccicanti – un nuovo logo, un nuovo giochino sul cellulare – perché ceda in cambio i propri diritti e il proprio futuro. Non c’è peraltro nulla di innovativo nel proporre al posto di Twitter un clone di Twitter col nome vagamente diverso, quindici anni dopo la sua originale invenzione. Non ci stiamo perdendo nulla, se non la solita dipendenza economica e psicologica dai social, con tutti i problemi che comporta; e dovremmo essere soltanto lieti di non riceverne ancora un’altra dose.

Note

[1] https://www.forbes.com/sites/emilybaker-white/2023/01/20/tiktoks-secret-heating-button-can-make-anyone-go-viral/

[2] https://www.wired.com/story/tiktok-platforms-cory-doctorow/

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