Il covid-19 ha aumentato ancora di più l’importanza dei social nelle nostre vite, anche per reperire notizie e dati su cui compiere poi scelte politiche importanti. Diventa quindi di colpo più urgente trovare una risposta al dilemma spesso riassunto con il termine “fake news“: come garantire una corretta informazione sui social e, in generale, in una popolazione si informa in modo sempre meno strutturato, con una pletora di fonti di vario tipo, i cui contenuti sono spesso non veritieri, non verificati e di origine non trasparente.
Digital news report di Reuters
Partiamo dagli ultimi dati. L’ultimo Digital News Report di Reuters, di giugno emerge la continua crescita dei social e il digitale in genere come fonte di informazione. In Italia sono l’online (social inclusi, ma anche i giornali) nel 2019 sono arrivati a superare (di poco) la tv.
Per l’accesso alle notizie, il 27% degli italiani lo fa via social. Fanno meglio i motori di ricerca, ossia Google, con il 37%. Solo il 18% ancora digita sul browser il nome della testata o ne usa l’app.
Continua a calare, in Italia come altrove, la fiducia nel sistema dell’informazione: solo il 29% degli italiani dice di averne (meno 11% sul 2018). Hanno molta più fiducia delle notizie reperite via Google che trovate sui social.
Trend di utilizzo delle piattaforme social
Comscore analizza i comportamenti degli utenti europei nel mondo online in questo periodo e ci racconta come 36,7 milioni di persone, ovvero il 94% di quelle che hanno navigato in rete, hanno utilizzato i siti e le app di Social Networking spendendo in media 40 minuti al giorno sui Social Network (+53% del tempo speso rispetto all’anno precedente). In termini di tempo speso, Facebook è la prima piattaforma con 26 minuti medi al giorno per utente e una crescita del +49% rispetto a marzo 2019. Se si analizzano le singole piattaforme social in termini di diffusione YouTube risulta la più utilizzata seguita da Facebook, WhatsApp e Instagram.
TikTok risulta in crescita per popolarità con un incremento di tempo di utilizzo del 121% rispetto al marzo 2019 raggiungendo i 7 milioni di utenti unici a marzo 2020, con un’audience quasi quadruplicata rispetto a marzo dello scorso anno così come significativa è la crescita di Pinterest, che supera i 12 milioni di utenti unici grazie al +112% di incremento rispetto a marzo 2019.
I giovani tra i 18 e i 24 anni sono stati la categoria che ha trascorso su App e Siti di queste categorie oltre due ore e 45 minuti in media al giorno, a fronte di quasi un’ora e 20 minuti in media al giorno della fascia d’età 35+.
Nell’indagine di Blogmeter per la prima volta vengono inclusi anche i 12enni e i 74 enni e da questa analisi viene confermato l’interesse dei giovanissimi per TikTok mentre resta Facebook la preferita tra gli over 45.
Il ruolo degli influencer
La ricerca rivela che i social rappresentano un grande vetrina per gli italiani che influenza gusti e preferenze: il 48% li usa prevalentemente per guardare foto e video, mentre il 12% li utilizza come un canale di visibilità, postando i propri contenuti, confermando quanto il peso del social sia importante per 4 italiani su 10.
Si sottolinea, inoltre, l’importanza dei social per la formazione delle opinioni dei consumatori: ben il 19%, infatti, dice di aver cambiato idea su un prodotto (e il 16% su un marchio) dopo aver letto o visto un contenuto social.
Anche quest’anno Blogmeter punta il focus sugli influencer. La maggior parte degli intervistati ha dichiarato di seguirli per comunione di interessi e di essere influenzato da queste figure. I dati parlano chiaro: i social rappresentano la moderna piazza digitale dove poter influenzare l’opinione pubblica, i gusti e gli interessi dei fruitori delle piattaforme.
Ecco che il connubio tra disinformazione ed “infodemia”, soprattutto in questo periodo di emergenza sanitaria, ha reso sempre più necessario vigilare sull’autenticità delle informazioni che circolano in rete.
Fake news: Trump, Bolsonaro, Salvini
Tanto più l’utente spenderà tempo in rete ed usufruirà delle piattaforme social quanto più sarà fondamentale controllare che non ci sia una diffusione incontrollata di fake news. I politici e le grandi aziende produttrici conoscono bene il vantaggio mediatico dei social. Moltissime campagne politiche, sia italiane sia oltreoceano, hanno fatto la differenza quando i canali principali usati sono stati i social.
La diffusione delle fake news al tempo del Covid-19 ne è un esempio. La BBC ha stilato una infausta graduatoria dei politici che diffondono più fake news sull’argomento Coronavirus tra cui figurano il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump e quello brasiliano, Jair Bolsonaro. Per l’Italia compare invece il leader della Lega, Matteo Salvini. Durante la trasmissione Reality Check, specializzata nella verifica di notizie che circolano in rete, il giornalista Chris Morris afferma che il Coronavirus ha creato un’industria di fake news, ma che non tutte vengono diffuse online: molte provengono da alcuni leader politici.
Per l’ex Ministro dell’Interno Salvini i post incriminati riguardano le ipotesi che il Coronavirus fosse frutto di una manipolazione umana e di complotti mentre nel caso Bolsonaro la BBC non ha potuto fare a meno di notare come svariate dichiarazioni del presidente siano state rimosse da Facebook, Instagram, Twitter e YouTube perché ritenute false informazioni. Gli stessi social hanno rimosso i video dove Bolsonaro dichiarava che il farmaco antimalarico idrossiclorochina fosse totalmente efficace per curare il Covid-19.
Social e gestione della disinformazione
Il caso Trump ha, invece, generato non poche reazioni. Le prime mosse di contrasto alla disinformazione da parte delle società delle piattaforme social hanno creato, difatti, i primi dissapori politici in casa Twitter.
In questi mesi di emergenza Covid-19, il social network della Silicon Valley aveva reso nota ed impostata una serrata azione di lotta contro la diffusione incontrollata della disinformazione, sponsorizzando appunto la promessa di indirizzare i propri utenti verso informazioni ritenute attendibili.
Ma l’algoritmo che definisce le veridicità dei post ha creato un caso. Tutto nasce quando, su due dei moltissimi tweet di Trump, compare per la prima volta l’etichetta che boccia un contenuto perché “fuorviante” e riporta: “Scopri i fatti relativi alle votazioni per corrispondenza!”. I tweet di Trump affermavano infatti, erroneamente, come le votazioni per posta avrebbero portato a una diffusa frode degli elettori.
La reazione del Presidente è stata immediata: ha affermato che secondo i repubblicani le piattaforme social network stanno mettendo completamente a tacere le voci dei conservatori minacciando nuovi regolamenti al riguardo o la definitiva chiusura di questi giganti. Il collegamento portava a una pagina di verifica dei fatti curata dalla piattaforma, ricca di ulteriori collegamenti e riassunti di articoli di notizie che smascheravano l’affermazione.
Le strategie di Twitter
Nonostante Twitter non abbia risposto alle domande su chi avesse assemblato la pagina di verifica dei fatti o se fosse stata generata algoritmicamente, il fatto sostanziale è che non era mai successo prima, nella storia dei social, che un post presidenziale potesse essere etichettato. Soprattutto non era mai successo a Trump, il Presidente”Twitter-addicted” per eccellenza.
Per anni, la società di San Francisco ha affrontato critiche sui post di Trump. Ma Twitter aveva ripetutamente affermato che i messaggi del Presidente non violavano i propri termini di servizio. Ora non più. Quest’ultima mossa è decisamente finalizzata a fornire un “contesto” attorno alle osservazioni di Trump. Ma è probabile che la decisione sollevi ulteriori domande sulla volontà di applicare l’etichetta anche ad altri tweet della Casa Bianca che sono stati ritenuti fuorvianti da terze parti.
Il portavoce di Twitter, Katie Rosborough, a Cnn Business in una e-mail afferma che i tweet presidenziali contengono informazioni potenzialmente fuorvianti sui processi di voto e sono stati etichettati per dare l’opportunità ai lettori di avere a disposizione un contesto aggiuntivo riguardo le votazioni per posta elettronica. Inoltre, ha indicato che questo approccio rientra nella linea di contrasto alla disinformazione tanto annunciato in questo periodo.
Questo fatto è collegato ad ulteriori critiche sui tweet presidenziali. Il colosso social si è infatti mosso dopo che Jack Dorsey, Amministratore Delegato di Twitter, ha ricevuto una lettera del vedovo di Lori Klausutis in cui chiedeva di eliminare i tweet di Trump sulla defunta moglie, definendoli “bugie orribili”, “indicibilmente crudeli”. Lori Klausutis era morta nel 2001 per complicazioni di una condizione cardiaca non diagnosticata mentre lavorava per Joe Scarborough, un congressista della Florida all’epoca. Come parte della sua lunga faida con Scarborough, Trump aveva pubblicato false teorie cospirative sulla sua morte suggerendo che Scarborough fosse coinvolto.
La fine della de-responsabilizzazione legale dei social?
L’escalation dello scontro Trump vs Social ha portato, nei giorni scorsi, a una proposta legislativa da parte del dipartimento di Giustizia americano: modificare la legge del 1996, la Communications Decency Act, riducendo l’immunità legale di siti, social e intermediari in genere su internet (in particolare nel mirino è l’articolo 230). Quella immunità che ha permesso di avere l’internet che conosciamo ora.
Si tratta di un progetto legislativo che dovrà essere eventualmente adottato dal Congresso americano; un passaggio tutt’altro che scontato.
Le strategie di Facebook
Altro caso è Facebook. Nonostante dal primo marzo la piattaforma si sia impegnata alla lotta contro la disinformazione, rimuovendo più di 2,5 milioni di contenuti relativi alla vendita di mascherine, disinfettanti per le mani e kit di test per il Covid-19, questo non è bastato.
Circa 600 dipendenti hanno scioperato, come raramente avviene in casa Facebook, contro Mark Zuckerberg che non ha preso posizione in merito ai post di Trump.
Tutto ha avuto origine dall’ennesimo messaggio “social”, tramite Twitter e Facebook, di Trump che commentando i disordini scoppiati in seguito alla morte di George Floyd afferma: “Quando iniziano i saccheggi, si inizia a sparare” (per fermarli). Le risposte delle piattaforme social sono state all’opposto: l’azienda di Jack Dorsey ha subito bollato il tweet come incitamento alla violenza mentre quella di Mark Zuckerberg non ha mosso un dito. Da qui ha avuto origine lo sciopero.
Margo Stern che all’interno del social Facebook si occupa di contenuti (in passato lo ha fatto sulle stesse tematiche in Twitter) afferma che lo sciopero virtuale nasce come protesta in risposta alla decisione di Zuckerberg di non moderare i contenuti che molti dei suoi collaboratori sostengono, al contrario, violare gli standard della piattaforma.
Zuckerberg sembra rispondere con la scelta di mettere in campo la volontà di non schierarsi, di essere neutrali rispetto agli eccessi della politica. L’emergenza Covid-19 e le ultime proteste di piazza hanno però accelerato i tempi. Le due scelte – di Twitter e di Facebook – racchiudono due posizioni opposte che i due social media potranno sposare in futuro.
Twitter si è schierato considerandosi responsabile dei contenuti, quasi alla stregua di un editore, mentre Facebook vorrebbe presentarsi più simile a un semplice tramite, un contenitore dove poter far fluire liberamente le opinioni e i pensieri degli iscritti.
Posizione, quest’ultima, che secondo molti esperti non è proprio inquadrabile in questi termini dato che Facebook da sempre ha un algoritmo che ottimizza e indirizza i contenuti in modo da renderli più letti ed engaging; inoltre in due occasioni – di cui l’ultima la scorsa settimana – ha bloccato una pubblicità elettorale di Trump perché contenente messaggi d’odio (l’ultimo caso era per la presenza di un simbolo giudicato nazista, mentre per Trump era quello dell’Antifa).
Giornali senza fondi
Di contro Facebook però sembra preoccuparsi della sua responsabilità nel mondo dell’informazione sovvenzionando un progetto con i giornali locali.
Gli aspetti sono collegati perché il boom della pubblicità in digitale – Google e Facebook in primis – sta togliendo risorse ai giornali in tutto il mondo, impoverendo quindi il loro ruolo nella costruzione di una corretta informazione.
In altre parole i social (e non solo loro) indeboliscono le fonti tradizionali e verificate catturando sia l’attenzione degli utenti sia i soldi degli sponsor. Twitter si sta preoccupando più di Facebook del primo aspetto. Facebook del secondo. Google di nessuno dei due. Non vuole pagare gli editori e si oppone a tal senso alle pressioni dell’Europa e soprattutto della Francia.
Un nuovo patto per l’informazione corretta?
È chiaro che queste dispute tra uomini di potere, soprattutto se tweet addicted, ed i colossi digitali potrebbero divenire all’ordine del giorno proprio perché i social network sono stati spesso usati dai politici come mezzo per indirizzare i propri followers verso decisioni o schieramenti su fatti di pubblica opinione.
Il limite sottile tra censura o volontà di non schierarsi, qualificandosi come semplici tramiti di informazioni, sono scelte che spezzano in due i social, soprattutto in campo politico.
La scelta di Twitter è sicuramente coraggiosa e mostra la volontà effettiva di supervisionare le informazioni che molto spesso circolano incontrollate sui ferventi canali social come quello del mondo dei “cinguettii”.
I passi contro la disinformazione che dovranno fare i vari giganti come Twitter o Facebook sono ancora ai primordi e senza dubbio sarà necessario affinare ulteriormente i sistemi che permettano sia un riconoscimento immediato delle informazioni potenzialmente borderline sia le eventuali alternative alla disinformazione.
La creazione di pagine tematiche dedicate ad argomenti specifici dove reperire informazioni attendibili è nata durante l’emergenza sanitaria Covid-19. Una modalità che tuttavia potrebbe prendere piede anche per moltissime altre tematiche sociali, politiche e culturali.
La sfida futura sarà quella di generare algoritmi e metodi in grado di alimentare una sana comunicazione con lo scopo di avere sempre un contenitore di informazioni disponibili, autentiche e asettiche dal punto di vista dello schieramento ideologico, affidabili e avulse dalle realtà settoriali.
Certo però non basta un algoritmo, un metodo per affrontare un problema socialmente così complesso come il diritto a una corretta informazione. E in un certo senso ha anche ragione Zuckerberg nel dire che non può essere una società privata a stabilire cosa è vero e cosa è falso. Certo, posizione di comodo per sollevarsi da una responsabilità politica e editoriale. E limitata sembra anche la sua richiesta di nuove leggi. Serviranno forse anche queste, ma anche un patto tra big tech, Stati e mondo dell’informazione per traghettare l’umanità verso un nuovo ecosistema, più pulito e trasparente.
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