skill mismatch

Competenze digitali: colmare il divario tra domanda e offerta con la didattica orientativa

Esiste nella scuola una leva di crescita molto importante: l’orientamento. È uno strumento che ha il compito di aiutare e supportare lo sviluppo dell’identità personale, la consapevolezza di competenza e le aspirazioni future delle studentesse e degli studenti. Ecco perché l’Italia sbaglia a sottovalutarlo

Pubblicato il 27 Mag 2022

Daniela Di Donato

Docente di italiano (Liceo scientifico), PhD in Psicologia sociale, dello sviluppo e della Ricerca educativa presso Sapienza Università di Roma, esperta di metodologie didattiche, inclusione e uso delle tecnologie digitali a scuola.

Skills

In tutte le professioni presenti e future le competenze digitali sono e saranno fortemente richieste. Uno dei problemi principali che si sta imponendo in questi anni, ancora di più dopo la pandemia, è il divario tra le competenze dei cittadini in uscita dalla scuola e quelle che vanno possedute e sviluppate nelle professioni. Lo skill mismatch è diventato un vero e proprio digital mismatch: in termini di formazione e di istruzione non ci sono adeguati riscontri che la scuola risponda alla crescita esponenziale di questo bisogno del mondo del lavoro.

Quello che si lamenta è una mancanza significativa di personale competente e specializzato nelle professioni legate all’Information Technology.

I motivi strutturali alla base del digital mismatch italiano

Il Desi (Indice di Digitalizzazione dell’Economia e della Società) è il rapporto annuale, che la Commissione europea pubblica dal 2014, per comunicare i progressi compiuti dagli Stati membri nel settore digitale. Ogni anno le relazioni comprendono profili nazionali, che aiutano gli Stati membri a individuare settori di intervento prioritari, e capitoli tematici, che forniscono un’analisi a livello dell’Unione europea nei principali ambiti della politica digitale.

Per l’edizione 2021, l’Italia complessivamente (in tutti gli indicatori previsti) si colloca al ventesimo posto fra i ventisette Stati membri dell’UE. Ci sono stati dei progressi in termini sia di copertura che di diffusione delle reti di connettività, ma il ritmo di dispiegamento della fibra è rallentato tra il 2019 e il 2020.

La situazione peggiora nell’indice capitale umano, cioè quando si considerano le competenze digitali delle persone. Qui l’Italia si colloca al venticinquesimo posto su ventisette paesi dell’UE. Solo il 42 % delle persone di età compresa tra i 16 e i 74 anni possiede perlomeno competenze digitali di base (56 % nell’UE) e solo il 22 % dispone di competenze digitali superiori a quelle di base (31 % nell’UE). Solo l’1,3 % dei laureati italiani sceglie discipline TIC, un dato ben al di sotto della media UE. Solo il 15 % delle imprese italiane eroga ai propri dipendenti formazione in materia di TIC, cinque punti percentuali al di sotto della media UE.

Immagine che contiene tavolo Descrizione generata automaticamente

Quando nel 2020 l’Italia ha varato la sua prima Strategia Nazionale per le Competenze Digitali, che cerca di colmare i divari con gli altri paesi dell’Unione Europea, ha inserito tra gli assi di intervento (quattro in tutto) anche uno destinato agli studenti inseriti in percorsi di istruzione e formazione, per integrare le competenze informatiche nelle scuole primarie e secondarie e nei curricula universitari e di istruzione superiore. In linea con questo obiettivo, tra il 2020 e il 2021 in Italia sono stati organizzati più di diecimila eventi della settimana europea della programmazione (EU Code Week), rivolti in particolare agli alunni delle scuole primarie e secondarie.

Digitale e integrazione scuola-impresa: un grave errore metodologico

È molto probabile che quando si parla di questo tipo di competenze nel mondo del lavoro e nella scuola, il pensiero vada sugli istituti tecnici, che sviluppano competenze anche in questo campo, ma soprattutto puntano ad una forte integrazione tra scuola e impresa. La consapevolezza che il digitale sia una delle leve principali, per essere davvero protagonisti di un mondo in continuo cambiamento e di una società della conoscenza e dell’innovazione, è più alta nelle scuole a vocazione pratica e tecnica. Qui però si rischia di compiere un grave errore metodologico: pensare che spetti solo a quelle scuole la responsabilità di formare le competenze digitali di ogni cittadino e cittadina o che si possano separare gli aspetti legati alle competenze digitali da quelli legati alle competenze personali in area umanistica, linguistica, emotiva o sociale.

Pur ricordandoci che già alla fine del primo ciclo d’istruzione in Italia è obbligatorio certificare le competenze digitali, insieme alle altre sette competenze per l’apprendimento permanente e che il digitale è competenza di base dal 2018, occorre ancor prima recuperare una postura pedagogica globale.

L’importanza dell’orientamento

Esiste nella scuola una leva importante, ma un po’ sottovalutata: l’orientamento. È questo lo strumento, che ha il compito di aiutare e supportare lo sviluppo dell’identità personale, la consapevolezza di competenza e le aspirazioni future delle studentesse e degli studenti. Ce lo ricorda anche la Risoluzione del Consiglio d’Europa del 21 novembre 2008 (Integrare maggiormente l’orientamento permanente nelle strategie di apprendimento permanente)quando dice che l’orientamento è un “insieme di attività che mette in grado i cittadini di ogni età, in qualsiasi momento della loro vita di identificare le proprie capacità, competenze, interessi; prendere decisioni consapevoli in materia di istruzione, formazione, occupazione; gestire i propri percorsi personali di vita nelle situazioni di apprendimento, di lavoro e in qualunque contesto in cui tali capacità e competenze vengono acquisite e/o sviluppate”.

Nelle scuole di ogni ordine e grado l’orientamento è un’attività istituzionale e costituisce parte integrante dei curricoli di studio e, più in generale, del processo educativo e formativo sin dalla scuola dell’infanzia. Gli obiettivi li troviamo tracciati all’interno delle “Linee guida in materia di orientamento lungo tutto l’arco della vita” del 2009, e riguardano sia la persona sia l’istituzione:

  1. la persona deve avere l’opportunità, durante il percorso formativo, di costruirsi delle competenze orientative adeguate ad accompagnare il proprio processo di orientamento lungo tutto l’arco della vita e di sviluppare una progettualità personale sulla quale innescare scelte progressivamente sempre più specifiche;
  2. l’istituzione deve svolgere un ruolo strategico sia nel sostegno al sistema scolastico-formativo per l’esercizio delle sue funzioni orientative, sia nel coordinamento delle risorse che interagiscono attivamente con il sistema per il pieno raggiungimento degli obiettivi orientativi di propria competenza, sia nella costruzione di un sistema nazionale finalizzato ad integrare politiche dell’istruzione e della formazione e politiche del lavoro in un’ottica di orientamento lungo tutto il ciclo di vita.

Insomma, non parliamo di proporre test ai tredicenni per aiutarli a capire se prendere il liceo classico o l’istituto professionale, ma di potenziare le capacità delle studentesse e degli studenti di conoscere sé stessi, l’ambiente in cui vivono, i mutamenti culturali e socio-economici, le offerte formative, per essere protagonisti di un personale progetto di vita, partecipare allo studio e alla vita familiare e sociale in modo attivo, paritario e responsabile.

L’orientamento continua per tutta la vita

Nelle successive Linee guida per l’orientamento permanente (2014) questi obiettivi esplodono e si grida formalmente che l’orientamento scolastico comincia a tre anni e non finisce, continua per tutta la vita.

Non si tratta più di gestire la transizione tra scuola e lavoro, ma di costruire una didattica orientativa e orientante, che si realizza nell’insegnamento/apprendimento e che ha come obiettivo l’acquisizione di competenze di monitoraggio e gestione del proprio percorso individuale, di competenze di base, metacognitive, metaemozionali e di cittadinanza.

Nella scuola però si percepisce chiaramente un limite: l’orientamento è ancora sentito come una attività esterna all’apprendimento o come qualcosa da definire alla fine del percorso formativo, mentre è il liquido in cui tutto il resto dovrebbe essere immerso. Se allora un orientamento efficace è quello che si estende lungo tutto l’arco della vita (lifelong learning), se deve essere presente nel processo educativo sin dalla scuola dell’infanzia, se è transdisciplinare, non può che diventare una priorità metodologica.

Il Project Based Learning

Le metodologie didattiche innovative, che si servono degli ambienti digitali, hanno tutte un’anima orientante. Il Project Based Learning rompe le pareti della scuola per far entrare il mondo e l’altro come interlocutori, spinge a collaborare e a mettersi nei panni dell’altro, cercando di arrivare ad un obiettivo comune, aiuta a conoscersi e a immaginare i desideri di chi ci appare lontano.

Proporre la robotica educativa alla scuola dell’infanzia non è solo una proposta tecnologica, ma filosofica e metacognitiva: Asimov diceva che non c’è niente di più diverso da noi di un robot. Allora lavorare con i bambini e la mediazione di una macchina, per programmare e guidare un robot immaginando un obiettivo da raggiungere e provando benessere e divertimento, significa educare ad accettare le differenze, a scoprire le proprie, immaginare quello che ancora non c’è e renderlo possibile (Di Donato &Mattioli, 2022).

Quattro tracce per lavorare sulla cittadinanza e sul digital mismatch

Vogliamo lavorare sulla cittadinanza e sul digital mismatch?

Vi propongo tracce per un percorso transdisciplinare, che sia fortemente basato sulle competenze e sul digitale, che non trascuri questi passaggi:

  1. Educare anche le disposizioni della mente (Life skills) (non le predisposizioni). Sono quelle tendenze costanti, che guidano il comportamento di chi impara: fare domande, cercare l’accuratezza, ascoltare con comprensione ed empatia, rispondere con meraviglia e stupore, raccogliere informazioni attraverso tutti i sensi, avere senso dell’umorismo, assumere rischi responsabili, pensare in modo interdipendente, creare-immaginare, gestire l’impulsività, avere persistenza, pensare in modo flessibile, essere metacognitivi…
  2. Spingere sulla personalizzazione: percorsi personalizzati per tutti, non solo persone con Dsa o alunni con disabilità. Passare da una scuola dell’inclusione (alla quale forse non siamo ancora arrivati) ad una scuola che valorizzi le differenze, che guardi alle difficoltà come una opportunità di cambiamento.
  3. Attivare una transizione ecologica, cioè passare dall’agonia all’euforia dell’apprendimento: sperimentare la rivelazione della propria efficacia come persona che apprende, provare sulla propria pelle l’euforia della produzione e della costruzione della conoscenza.
  4. Accendere e mantenere accesa la motivazione: collaborare per costruire una storia di successi formativi, dove l’obiettivo è sfidante, l’ambiente è accogliente e all’apprendimento sono legate soprattutto emozioni positive.

Le tecniche e le tecnologie di oggi non saranno le stesse di quando i nostri studenti usciranno dai percorsi di istruzione e non ha senso che ci si concentri su quello: è tutto il resto che è interessante e urgente educare. Altrimenti stiamo insegnando qualcosa che non potrà in alcun modo aiutare lo sviluppo di una comunità di destino (Morin,2001), in cui il nostro scoprire di essere umani è quello, che ci permetterà di continuare a crescere e a vivere responsabilmente insieme su questo pianeta senza distruggerci.

Bibliografia

Di Donato, D. & Mattioli, P. (2022, in corso di pubblicazione). Beyond barriers. Inclusion and innovation through the use of educational robotic environments. In Inclusive Science Education and Robotics. Studies and Experiences, Milano: Franco Angeli.

Morin, E. (2001). I sette saperi necessari all’educazione del futuro. Raffaello Cortina Editore.

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