l'analisi

Desi 2019 e competenze digitali, perché ripartire dal modello della Coalizione Nazionale

Dai rapporti di Desi 2019, Ocse, Agi-Censis, e dall’iniziativa Repubblica Digitale emerge la necessità di assicurare l’adeguatezza delle competenze della popolazione alla vita lavorativa e alla vita quotidiana. Bisogna investire su questo fronte, come priorità nazionale, e ripartire dal modello della Coalizione nazionale

Pubblicato il 13 Giu 2019

Nello Iacono

Esperto processi di innovazione

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Il tema del ritardo italiano sulle competenze digitali emerge ad ogni rapporto in ambito di maturità digitale del paese come fattore cruciale di ostacolo allo sviluppo economico e sociale nazionale, oltre che causa di disuguaglianze nell’esercizio dei diritti di cittadinanza.

Nel mese di maggio è la stata la volta del rapporto Ocse 2019 sull’educazione e dell’indagine Agi-Censis sul rapporto dei cittadini italiani con la pubblica amministrazione e, nel frattempo, dal team per la trasformazione digitale è stata lanciata l’iniziativa Repubblica Digitale.  Anche il recente Desi 2019 non ha mostrato sostanziali novità: sulle competenze digitali l’Italia rimane indietro alla media UE e ai principali Paesi europei con cui può confrontarsi.  Oltre le conferme sulla situazione complessiva, ci sono alcuni dati in particolare che meritano una riflessione specifica anche per rilanciare il modello della coalizione nazionale per le competenze digitali.

Il DESI -Digital Economy and Society Index- 2019

Sulle aree di valutazione relative alle competenze digitali (Capitale Umano e Uso di Internet) l’Italia rispettivamente indietreggia di una posizione (26°) e mantiene la scomoda 25° posizione.

Sull’area Capitale Umano purtroppo i dati di riferimento sono al più relativi al 2017 e in gran parte già considerati nel DESI 2018. Il peggioramento è dovuto alla considerazione di alcuni nuovi indicatori  (competenze digitali superiori a quelle di base, competenze di base in materia di software, specialisti TIC di sesso femminile, laureati nel settore TIC) in cui l’Italia ha performance molto basse, come ad esempio per i laureati nel settore TIC, dove con l’1% sul totale dei laureati (dato 2016) si registra la peggiore situazione europea.

Sull’area Uso di Internet, dove anche qui sono stati aggiunti dei nuovi indicatori (individui che non hanno mai usato Internet, social network professionali, frequentazione di corsi online, consultazioni e votazioni online, vendita online da parte di individui), si registrano dei dati coerenti con la percentuale del 44% di popolazione con competenze digitali almeno di base (rilevato nel 2016): gli utilizzi di Internet che richiedono maggiore competenza non vanno al di là di quella percentuale. Questo è il caso, ad esempio, dei servizi bancari (46% degli utenti Internet, che sono il 72% della popolazione tra 16 e 74 anni) e dello shopping online (47%), mentre arrivano poco sopra la soglia di competenza base (79% degli utenti Internet, quindi poco più della maggioranza della popolazione) lo streaming o il download di musica, guardare video e il gioco online. Le principali note positive, con performance poco inferiori alla media UE, sono relative all’utilizzo dei social network professionali (12% degli utenti Internet), alla frequentazione di corsi online (8%), e alla partecipazione a consultazioni e voti online (9%). L’uso di servizi di video on demand (23 % contro il 31 % nell’UE) è l’attività online che ha registrato l’aumento maggiore dall’anno passato (ben 8 punti percentuali).

Questi dati si ripercuotono naturalmente su tutte le performance italiane in materia di maturità digitale, e il rapporto, infatti,  lo sottolinea, dopo aver evidenziato i progressi sull’area della Connettività: “Tuttavia tre persone su dieci non utilizzano ancora Internet abitualmente e più della metà della popolazione non possiede competenze digitali di base. Tale carenza nelle competenze digitali si riflette anche in un minore utilizzo dei servizi online, dove si registrano ben pochi progressi. La scarsa domanda influenza l’offerta e questo comporta una bassa attività di vendita online da parte delle PMI italiane rispetto a quelle europee“.

Il rapporto OCSE sull’educazione

Lo Skills Outlook Scoreboard dell’Ocse valuta in che misura i Paesi sono in grado di sfruttare al meglio la digitalizzazione, misurati su 3 dimensioni principali:

  • Competenze per la digitalizzazione,
  • Esposizione digitale e
  • Politiche relative alle competenze.

Come sottolineato nella scheda Ocse per l’Italia, lo “Scoreboard mostra che la popolazione italiana non possiede le competenze di base necessarie per prosperare in un mondo digitale, sia in società che sul posto di lavoro. Solo il 36% degli individui in Italia, il livello più basso tra i paesi OCSE per cui informazione è disponibile, è in grado di utilizzare Internet in maniera complessa e diversificata”.

L’Italia, insieme al Cile, alla Grecia, alla Lituania, alla Turchia e alla Slovacchia, è un paese dove ci sono forti carenze nelle competenze digitali della popolazione, oltre che nello specifico delle persone in età di occupazione, e non ci sono programmi specifici di apprendimento continuo, necessari per un mondo che cambia velocemente. Come anche rilevato in studi precedenti dell’Ocse, manca un coordinamento dell’offerta di formazione continua verso i lavoratori occupati, offerta che risulta molto carente verso i non occupati.

Nel rapporto si legge anche che “un’ampia gamma di competenze permette di sfruttare dei vantaggi derivanti dall’uso di Internet e delle nuove tecnologie. In Italia, tuttavia, solo il 21% degli individui in età compresa tra i 16 e i 65 anni possiede un buon livello di alfabetizzazione e capacità di calcolo (cioè ottengono almeno un punteggio di livello 3 nei test di alfabetizzazione e calcolo PIAAC). Si tratta del terzo peggior risultato tra i paesi esaminati” dopo Turchia e Cile.

La situazione italiana, caratterizzata da basse percentuali di laureati, alto tasso di abbandono scolastico, bassa alfabetizzazione funzionale e digitale, in un contesto lavorativo di grande cambiamento viene considerata tra quelle in cui sarebbe necessario prevedere investimenti sulle competenze dei lavoratori ben oltre l’1% del Pil. Questo perché “I lavoratori italiani utilizzano le TIC sul lavoro, ma meno intensamente che in molti altri paesi OCSE. In Italia, secondo stime OCSE, il 13.8% dei lavoratori sono in occupazioni ad alto rischio di automazione e avrebbero bisogno di una formazione moderata (fino a 1 anno) per passare a occupazioni più sicure, con basso o medio rischio di automazione (contro il 10.9% dell’OCSE). Un altro 4.2% avrebbe bisogno di una formazione intensa (fino a 3 anni) per evitare l’alto rischio di automazione sul posto di lavoro. Tuttavia, solo il 30% degli adulti ha ricevuto formazione (sia questa non formale o informale) negli ultimi 12 mesi, contro una media OCSE del 42%”.

Una conferma di questo panorama viene anche da una recente indagine promossa da LinkedIn secondo cui “Il 40% dei recruiter italiani pensa che non vi siano abbastanza candidati con le giuste competenze digitali rispetto ai posti di lavoro disponibili”.

Le raccomandazioni dell’Ocse vertono in particolare sull’accompagnamento dell’apprendimento delle conoscenze tecnologiche delle persone durante tutto il percorso di vita, dall’infanzia fino alla maturità, verso un superamento della situazione attuale, in cui chi impara di più è chi è più avvantaggiato, per educazione e reddito. Politiche attive di formazione invertirebbero questa tendenza permettendo a tutti di apprendere strumenti e competenze tecnologiche più in linea con le richieste del mercato del lavoro.

I dati su cui si basa il rapporto Ocse sono in gran parte relativi al 2015 (data dell’ultima rilevazione PIAAC) e al 2016. Non permettono pertanto una fotografia della situazione attuale in movimento, ma sono senz’altro utili per la raffigurazione di un contesto che potrebbe nel frattempo essere migliorato, ma marginalmente: se guardiamo ai dati Eurostat sull’utilizzo delle tecnologie digitali, per l’Italia, infatti, il miglioramento è di norma più lento di quello registrato negli altri Paesi.

L’indagine Agi-Censis sulla trasformazione digitale della PA

L’indagine Agi-Censis 2019 riporta, positivamente, il miglioramento nella valutazione delle interazioni con la PA da parte dei cittadini. Segnale evidente che non solo si percepisce il cambiamento in atto, ma che anche qualche risultato inizia a rendersi concreto (negli ultimi due anni “il perimetro dei giudizi negativi si è ridotto dai 3/4 ai 2/3 degli italiani”).

E se è vero che soltanto “il 30,8% del campione ha dichiarato che grazie ai servizi online ha ottenuto un reale vantaggio” è anche vero che questo dato si inserisce in un contesto in cui la popolazione risulta molto poco informata delle iniziative in atto, e quindi difficilmente in grado di esprimere una valutazione compiuta. Rispetto ai servizi digitali disponibili “nel 53,4% dei casi l’informazione è carente o addirittura assente”, per cui innovazioni come il Sistema Pubblico di Identità Digitale (SPID), è “conosciuto soltanto dal 41,8% degli italiani” e il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) solo dal 32,2%, ma anche la possibilità di richiedere certificati anagrafici online è nota soltanto al 45,7% degli italiani.

D’altra parte, l’utilizzo diretto dei servizi online è effettuato soltanto dai due terzi di chi è laureato e dal 57% di chi ha la licenza media superiore. Gli altri si appoggiano a un intermediario o a un familiare, o preferiscono un canale analogico (sportello o telefono).

Se infatti permane, pur in diminuzione, la percezione che il rapporto con la PA sia ancora poco semplice e comodo, e anche l’utilizzo delle tecnologie digitali non abbia migliorato in modo significativo questa situazione (dove prevale il peso dannoso della burocrazia), la scarsa conoscenza dei servizi digitali disponibili e la loro bassa fruizione dipendono anche dalle scarse competenze funzionali e digitali, per cui anche nel rapporto si evidenzia come “uno degli ostacoli alla digitalizzazione dei servizi possa essere individuato in una domanda poco evoluta. E, a ben guardare, questo è un problema che va ben oltre l’accesso ai servizi della PA, arrivando a comprendere tutti gli aspetti della vita quotidiana”.

Questa valutazione viene ripresa nelle riflessioni conclusive del rapporto, e si ricollega così, di fatto, alle raccomandazioni OCSE “è necessario un accompagnamento verso una nuova fase di internet, fatta di utenti più consapevoli e attenti, in grado di comprendere che la cittadinanza digitale da un lato offre degli indubbi vantaggi pratici e dall’altro richiama diritti e doveri esattamente come la cittadinanza reale”.

Un accompagnamento che richiede il superamento dell’attuale sottovalutazione delle amministrazioni sul proprio ruolo in quest’ambito.

L’iniziativa “Repubblica digitale”

In una recente iniziativa il team per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio, ha proposto ad amministrazioni, imprese e associazioni la sottoscrizione di un “Manifesto” per la Repubblica digitale, che muove proprio dalla presa d’atto del problema e propone un percorso di superamento “che il nostro Paese, più di altri, soffre di un divario digitale di matrice culturale determinato da un diffuso e preoccupante fenomeno di analfabetismo digitale e, più in generale, da una scarsa educazione civica digitale.

L’iniziativa Repubblica Digitale nasce per provare a fornire una prima – e certamente non sufficiente – risposta a questo problema che, se non affrontato e risolto, minaccia di limitare il successo e l’efficacia di ogni azione di trasformazione digitale o, peggio, di privare taluni cittadini di ogni concreta possibilità di esercizio dei propri diritti in un contesto nel quale il digitale è destinato a diventare il modo ordinario di dialogo con l’amministrazione a ogni livello”.

Il Manifesto chiede l’adesione per “promuovere azioni concrete, capaci di produrre risultati misurabili e quantificabili” sulla base dei principi dell’educazione al digitale, della cittadinanza digitale, del digitale etico, umano e non discriminatorio, impegni che per le amministrazioni dovrebbero già scaturire dalla corretta attuazione del CAD (dove ad esempio all’articolo 8 si legge che le pubbliche amministrazioni “promuovono iniziative volte a favorire la diffusione della cultura digitale tra i cittadini con particolare riguardo ai minori e alle categorie a rischio di esclusione”).

Iniziativa senz’altro importante e di rilievo per più ragioni: per il rilievo nazionale che assume, per i contenuti evoluti, per l’obiettivo dichiarato di dar vita a “un’alleanza quanto più ampia possibile tra enti e organizzazioni pubblici e privati e cittadini” per l’attuazione dei principi dichiarati nel Manifesto.

Il modello della Coalizione

I rapporti brevemente analizzati confermano un problema profondo di attuale difficoltà dell’Italia a creare le condizioni per l’utilizzo adeguato e consapevole del digitale per la crescita economica, per il tessuto sociale e democratico, per garantire i diritti di cittadinanza digitale. L’iniziativa del Team Digitale muove su questo solco, ma forse dovrebbe già da subito essere inquadrata in una logica simile a quella che nel 2015 aveva portato, senza però l’adeguata attenzione politica e strategica, alla Coalizione Nazionale per le Competenze Digitali.

La Coalizione (che nel 2016 contava 105 soggetti pubblici e privati e 106 progetti registrati) era nata con la definizione di una piattaforma di condivisione di buone pratiche (pubbliche e private), di linee guida per le iniziative, di alcuni indicatori e con l’identificazione di una roadmap nazionale di sviluppo. La Coalizione nasceva con l’idea che fosse necessario creare una rete di condivisione (necessaria per ottimizzare gli sforzi e le risorse) e allo stesso tempo che l’amministrazione pubblica dovesse farsi carico di indicare priorità e individuare fonti di finanziamento per tradurre più rapidamente progetti in concrete realizzazioni.

Rafforzando il modello delle coalizioni, è importante che le amministrazioni pubbliche si impegnino per la promozione, la condivisione e il raccordo delle iniziative nazionali e territoriali, come anche sottolinea il rapporto DESI 2019, rilevando l’assenza in Italia di una coalizione nazionale e però la presenza di impegni da parte di ONG e imprese private e organizzazioni pubbliche su questo campo. A livello nazionale l’esperienza della Coalizione per le Competenze Digitali è pertanto da riprendere come esperienza utile da migliorare, mentre a livello territoriale possono essere incentivate iniziative come quella dei “Punti Roma Facile e della Scuola Diffusa per la Partecipazione e la Cittadinanza Digitale” inserita nel quarto Piano Nazionale per l’Open Government.

L’impegno che si richiede alle istituzioni per affrontare in modo significativo il tema delle competenze non è residuale, e deve essere coerente con il riconoscimento di un’evidente priorità strategica, che sembra suggerire anche il rapporto DESI 2019:”Oltre al Piano nazionale per la scuola digitale, l’Italia non ha una strategia complessiva per le competenze digitali; questo significa che i gruppi a rischio di esclusione sociale, quali gli anziani e i disoccupati, corrono anche il rischio dell’ampliamento del divario digitale“.

Come sottolineato pertanto da Commissione UE, Ocse, Agi-Censis, Team Digitale, si tratta in generale dell’assicurare l’adeguatezza delle competenze della popolazione alla vita lavorativa e alla vita quotidiana, per cui è necessaria una strategia organica tra sistema educativo, welfare, sviluppo economico e sostegno al lavoro nel senso della creazione delle condizioni per la garanzia per tutti al diritto di apprendimento permanente e all’educazione al digitale. Una delle priorità nazionali su cui investire.

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