Se mettiamo insieme le nostre esperienze sulla trasformazione digitale del paese con le informazioni più oggettive che ci restituiscono i dati Istat, ci rendiamo conto che finalmente qualcosa sta cambiando: la preparazione degli italiani sta realmente migliorando.
Ma nonostante gli sforzi e le numerose iniziative, si procede ancora troppo lentamente. Quello che facciamo non è abbastanza, non è quanto basta. Nel 2030 l’80 per cento dei cittadini tra 16 e 74 anni dovrebbe possedere competenze digitali almeno di base e siamo al 45,7%, rispetto al 55,5 della media europea. Qual è la zavorra che ci impedisce di accelerare?
Impatto della scolarizzazione sulle competenze digitali: i dati Istat
Il problema è che le competenze digitali sono ancora prerogativa delle persone con titolo di studio elevato. Infatti, il 77,6% delle persone di 25-54 anni con istruzione terziaria ha competenze digitali almeno di base, mentre la quota scende al 26,4% tra le persone con la licenza media. Non possiamo ignorare il ruolo fondamentale dello sviluppo del capitale umano per l’inclusione sociale e digitale. E il livello delle competenze digitali dei cittadini è di fatto fortemente collegato con il livello culturale. C’è una parte di popolazione difficile da raggiungere, che sembra disinteressata a imparare a fare cose nuove, che considera bastevole un titolo di studio, il “pezzo di carta”, raggiunto magari con fatica. Ed è quella invece che avrebbe più bisogno di formazione continua per non rimanere fuori dal mercato del lavoro o dalle nuove forme di partecipazione.
Ad arrivare a questo zoccolo duro ci provano ora i centri di facilitazione digitale che, per raggiungere l’obiettivo, dovranno funzionare proprio come servizi di prossimità.
I dati sulla scolarizzazione in Italia
Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’Istat “La situazione del paese”, in venti anni si è dimezzata la quota dei giovani 20-24enni che hanno la licenza media come titolo di studio più elevato. Nello stesso periodo la dispersione esplicita si è ridotta di quasi 13 punti percentuale e per le ragazze si è già raggiunto l’obiettivo comunitario di scendere sotto il 9 per cento. La quota di 25-34enni con un titolo terziario è passata da 12,2 al 29,2 per cento, però siamo ancora molto in ritardo rispetto alla media europea del 42 per cento. Sullo sviluppo dell’Italia continua a pesare la bassa scolarizzazione delle persone in età di lavoro, la fascia dei 25-64enni. Nonostante i progressi fatti ancora il 37 per cento dei lavoratori ha come titolo più alto la licenza media (erano quasi il 56 per cento venti anni fa). Ed è la fascia di popolazione più “resistente” alla formazione continua. Coloro che avrebbero più bisogno di acquisire, sviluppare e aggiornare le competenze, per tenere il passo con i cambiamenti del mercato del lavoro e ridurre così il rischio di fuoriuscita, sono proprio coloro che si formano meno: lo fanno il 18,7 per cento dei disoccupati e il 24,3 per cento degli occupati a bassa qualifica, contro il 61,4 per cento degli occupati a più elevata qualifica.
“Il tasso di inclusione nelle attività non formali è fortemente correlato con il livello di istruzione: raggiunge il 62,4 per cento tra chi ha conseguito un diploma terziario, ma è inferiore al 20 tra chi possiede al più un diploma di scuola secondaria di I grado. Il divario nei tassi di partecipazione non formale tra l’Italia e gli altri paesi europei diminuisce all’aumentare del livello di istruzione: è di quasi 8,1 punti tra i diplomati di scuola secondaria di primo grado, e si annulla in corrispondenza del titolo terziario (+0,6 punti rispetto alla media europea)”.
A pagina 79 del rapporto Istat c’è un’immagine che restituisce in un unico colpo d’occhio la situazione del capitale umano del nostro Paese rispetto alle maggiori economie dell’Europa.
E da qui che dobbiamo ripartire per capire cosa fare al meglio e più velocemente.
Il titolo di studio fattore discriminante per le competenze digitali
“Competenze digitali e caratteristiche socio-culturali della popolazione: forti divari” è il titolo dell’ultimo report “Cittadini e ICT” dell’Istat che conferma come il titolo di studio continui a essere un fattore discriminante per le competenze digitali, anche perché associato positivamente con l‘età: “naviga sul web il 90,3% tra chi ha un diploma di scuola secondaria superiore contro il 66,2% tra chi ha conseguito al massimo la licenza media”. Si cominciano a ridurre le differenze tra dirigenti, imprenditori e liberi professionisti e operai: “nel 2022 la distanza era di 7,8 punti percentuali nel 2023 è di 5,2 punti percentuali”.
Il ruolo dei Centri di facilitazione digitale nel PNRR
Per colmare il divario digitale tra i cittadini il Piano nazionale di ripresa e resilienza (misura 1.7.2 del M1C1) prevede Centri (o Punti) di facilitazione digitale, per la costruzione di una rete di alfabetizzazione digitale diffusa su tutto il territorio nazionale, con uno stanziamento di 135 milioni di euro. L’obiettivo è formare almeno due milioni di cittadini entro il 2026. L’amministrazione titolare dell’intervento è il Dipartimento per la trasformazione digitale (DTD) che coordina e monitora la misura, mentre Regioni e Province autonome sono state individuate come soggetti attuatori. Un “gruppo di lavoro misto rete di facilitazione digitale” coordina e gestisce le varie attività.
La piattaforma Facilita
La piattaforma Facilita dovrebbe essere lo strumento operativo di monitoraggio e trasparenza.
Iniziative regionali e loro impatto sul territorio
I tremila punti di facilitazione dovrebbero essere tutti attivi entro dicembre 2024. Ma a che punto siamo? Un anno fa, con il supporto del Dipartimento per la trasformazione digitale, tutte le Regioni hanno firmato i Piani operativi. Ed è partita a rilento, complici burocrazia e macchinosità amministrativa, la macchina organizzativa per l’apertura dei Punti di facilitazione su tutto il territorio italiano (vedi rapporto della Corte dei Conti). Tra le prime Regioni a organizzarsi ci sono Toscana, Puglia e Piemonte. A giugno, in risposta al bando della Regione Lazio, sono stati attivati anche i 25 centri romani coprogettati e cogestiti da Roma Capitale con il terzo settore, un’associazione temporanea di scopo costituita da quattro associazioni di promozione sociale – Associazione europea consumatori indipendenti Lazio, Centro per i diritti del cittadino – Codici, Didaké e Observo – e dalla Fondazione Mondo Digitale, capogruppo con ruolo di coordinamento e monitoraggio.
I 25 centri attivi a Roma
I 25 centri, attivati con una forte motivazione civile soprattutto nelle scuole, sono dislocati sull’intero territorio in modo da presidiare tutti i municipi di Roma Capitale. Offrono sia attività e servizi di sportello, con assistenza personalizzata, sia formazione su temi specifici, seguendo il framework europeo DigComp: sicurezza e rischi della rete, social network, acquisti online, comunicazione con la PA, uso dei servizi digitali (Inps, Pago PA, Agenzia delle entrate ecc.). Una parte dell’investimento è anche sui materiali formativi, per incentivare processi di apprendimento in modalità autonoma o semiautonoma.
I “servizi di quartiere” per raggiungere i cittadini più resistenti al cambiamento
Attraverso “servizi di quartiere” la sfida è raggiungere i cittadini più resistenti al cambiamento, con i titoli di studio più bassi e le occupazioni più fragili. Nel bagaglio dei facilitatori ci sono oltre venti anni di esperienza con il modello di apprendimento intergenerazionale di Nonni su Internet, messo a punto dalla Fondazione Mondo Digitale per l’alfabetizzazione digitale e funzionale degli adulti e degli anziani, e poi esportato con varie declinazioni anche in Europa. L’obiettivo è aiutare i cittadini, con particolare attenzione anche agli over 65, non solo a raggiungere le competenze digitali di base, fondamentali per il lavoro, lo sviluppo personale, l’inclusione sociale e la vita nella comunità, ma anche a sviluppare consapevolezza nell’uso della rete e della tecnologia. L’inizio di una vera cultura digitale, che non può che affondare radici profonde nella scuola e nell’istruzione.