Il tempo sta allo Stato come la consapevolezza sta al mercato. L’approvazione del Senato del Decreto Pnrr, a quasi un mese dal suo varo, permette di riflettere sulla mancata convinzione delle istituzioni di dover agire con urgenza per cogliere le sfide della transizione digitale.
I tempi lunghi sono un ostacolo della politica e della macchina amministrativa. Un male simmetrico alla scarsa sensibilità del tessuto imprenditoriale a fare dell’education uno strumento di crescita. Ed è un peccato. Nel Decreto in questione infatti, alla formazione son dedicate solo poche righe, in cui si riconosce un credito d’imposta alle imprese che investono in programmi di aggiornamento professionale.
I fondi a disposizione
Un’accelerazione dei lavori parlamentari, senza perdere neanche un mese nel dare via libera a un provvedimento così vuoto di contenuti, sarebbe stata fondamentale per svincolare risorse strategiche. Risorse che non mancano. Le politiche attive dispongono dei 4,4 miliardi del Pnnr cui se ne aggiunge un altro in conto di RePower Eu. E c’è ancora il Piano nuove competenze e transizioni (Pnct), finalizzato ad affrontare il mismatch tra le competenze in mano ai lavoratori e quelle richieste dal mercato. Infine, a fianco del decreto di adozione del Pnct, nella Conferenza Stato, Regioni e Province autonome straordinaria del 29 marzo scorso, il Ministero del Lavoro ha presentato il decreto di modifica del programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori).
Non serve un esperto del settore per cogliere quanto l’accessibilità a questi investimenti permetterebbe alle nostre imprese di rendersi più competitive. Alcuni nostri partner europei – che sono anche diretti concorrenti – stanno scommettendo sulla valorizzazione del capitale umano con una vision che può far parlare di “politica industriale della formazione”.
Questo sarebbe stato un valido concetto di ispirazione per Governo al momento del passaggio dal reddito di cittadinanza alle politiche di inclusione. Perché, se è vero che il Gol riconosce un’accessibilità lineare alle politiche attiche – includendo dunque lavoratori e disoccupati, indipendentemente dalla durata di tale condizione, dal genere, dall’età – è altrettanto evidente che demandare le specifiche misure agli enti locali significa affidarsi a organi che non agiscono in maniera concertata e soprattutto creare delle sacche di disuguaglianza o, perfino, di discriminazione.
L’impatto dell’AI sulle imprese
È utile però entrare nel dettaglio delle esigenze della singola impresa. Se non altro per aver chiare le loro necessità. Chi vuole davvero crescere con l’AI ha bisogno che proprio quest’ultima permetta di fare all’intelligenza umana un salto di qualità. È grazie alle nuove strumentazioni tecnologiche che si può ottenere una puntuale misurazione delle skill gap interne. Ed è sempre per mezzo dell’AI che si può assemblare un pacchetto di strumenti per l’aggiornamento delle competenze del singolo lavoratore.
Un livello altrettanto autorevole di cultura digitale è richiesto alla luce dell’AI Act, il regolamento europeo che disciplina la materia, a cui sta facendo seguito il Ddl Intelligenza Artificiale, di recente approvazione da Palazzo Chigi. I potenziali reati legati all’uso illecito dell’intelligenza generativa vanno conosciuti in azienda. Non solo dal proprio legale rappresentante. Bensì, in via preventiva, da parte di chi tratta dati personali e altri contenuti sensibili per utilizzo commerciale o altre finalità.
Tuttavia, si tratta di investimenti che buona parte delle forze produttive non possono permettersi. È logico quindi che al mercato debba subentrare in affiancamento lo Stato. Non fosse altro perché tutto questo va a beneficio del sistema-Paese.
Perché serve una politica industriale della formazione
Quando parliamo di “politica industriale della formazione”, facciamo riferimento a tutte quelle misure che andrebbero a vantaggio della transizione digitale delle risorse umane. L’applicazione delle nuove tecnologie, infatti, non può limitarsi alla robotizzazione delle fabbriche. Il processo di Industria 5.0 richiede una preparazione tecnologica anche di quelle figure professionali che, finora, sono rimaste le più distanti da questo processo innovativo. Servono quindi professionisti delle Hr che sappiano gestire l’Ai tanto quanto sanno intuire il valore aggiunto del lavoratore che hanno di fronte. Servono leaning manager in grado di rendere le hard skill funzionali alle proprie soft skill.
Di tutto questo il sistema Italia dimostra una falla senza pari rispetto ai suoi concorrenti europei. Il mercato è inconsapevole. Lo Stato è lento.
Il ruolo delle Regioni
Il termine di adozione del Pnct era fissato al 31 marzo 2024. Adesso spetta alle Regioni introdurre i singoli meccanismi di garanzia delle attività formative pianificate sulla base dei fabbisogni espressi dal mercato del lavoro. Qual è la scadenza per la promulgazione delle leggi regionali? Il 30 settembre 2025. Esatto! Un anno e mezzo circa dal provvedimento del governo centrale. Un periodo siderale se confrontato con la velocità con cui l’Ai sta divorando alcune competenze lavorative.
Alle Regioni è inoltre richiesto di prevedere nei loro bandi l’indicazione degli esiti occupazionali stimati dell’attività di formazione. Allo stesso modo, viene chiesto di riconoscere la formazione in azienda, le competenze acquisite e i percorsi formativi brevi. Sempre agli enti locali viene richiesto di introdurre meccanismi di promozione di forme di cofinanziamento privato.
Se fossero sganciati dall’aggiornamento delle leggi regionali, Pnct e Gol realizzerebbero davvero una rivoluzione di velluto del mercato del lavoro. Al contrario, restando così in balia degli enti locali e delle loro differenze di tempistica e di procedure, si rischia non solo di andare per le lunghe, ma di creare anche una disarmonia interna al mercato nazionale del lavoro. Cui prodest?