L'approfondimento

Distretti industriali e formazione, come le competenze spingono la ripresa del Paese

Il contesto attuale globale impone alle attività produttive di puntare sulla formazione per disporre delle giuste competenze per far fronte alle esigenze del rilancio dell’Italia: il sistema dei distretti industriali offre un ambito di analisi di interesse

Pubblicato il 18 Lug 2022

Nicola Testa

Presidente U.NA.P.P.A. Unione Nazionale Professionisti Pratiche Amministrative

industria 4.0

La formazione è strategica per permettere al Paese di fare un cambio di passo, ma anche per modificare nel tempo la capacità competitiva delle nostre imprese di governare con successo il cambiamento. Nessuno può considerarsi immune da questo passaggio epocale, che impone al sistema delle attività produttive di attestarsi sulla frontiera della rivoluzione digitale in una realtà che è sempre più quella della società dell’informazione e dell’innovazione tecnologica.

E in questo caso, la dimensione della piccola media impresa, che è quella prevalente nella struttura produttiva del nostro paese, così come nel sistema dei distretti industriali, può rappresentare un terreno di eccellenza.

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Il contesto attuale

Del resto, in un momento di grande incertezza come quello attuale, il tema della ripresa economica resta comunque al centro dell’interesse di un’opinione pubblica che vorrebbe prima o poi tornare a rivedere la luce.

Il cono d’ombra che oscura il cammino appare tuttavia ancora molto grande: già la pandemia aveva contribuito ad accrescere i costi di materie prime e semilavorati, oltre che a rendere più onerosi i trasporti di un mondo globalizzato che ci aveva fatto credere che le distanze non fossero più un problema; oggi la guerra ci mette davanti agli occhi i costi di una dipendenza energetica dalla Russia che non avevamo mai considerato potesse rappresentare un problema. E come se tutto ciò non bastasse, un grave problema di siccità sta devastando le campagne, mettendo a rischio le produzioni agricole, ci ricorda che il riscaldamento globale e l’emergenza climatica non sono un vezzo della postmodernità ma un problema che potrebbe condizionare pesantemente la nostra economia, oltre che la vita delle generazioni future. Potrei dire che stiamo per subire le sette piaghe d’Egitto se volessi sorridere, le cavallette in Sardegna sono arrivate, ma effettivamente ciò che ogni persona comune legge è disastro, complicazioni, aumento di costi, ecc., per non finire poi con carenza di lavoro, quel lavoro che non si crea per Decreto, ne con le chiacchiere ma lo producono le imprese.

I dati di Banca Intesa

In questo scenario i dati del Rapporto Annuale di Economia e Finanza di Banca Intesa ci parlano di un paese che in questo momento appare addirittura ben più in ripresa della Germania. Già era nota la prestazione italiana e tedesca rispetto all’andamento del PIL dello scorso anno, con l’Italia attestata sul 6,6% e la Germania ferma al 2,7%. Il centro studi di Banca Intesa ora ci comunica che da gennaio ad aprile, in un periodo che già risentiva dell’incertezza legata alla guerra in Ucraina, la produzione italiana ha sostanzialmente “doppiato” quella tedesca: 2,1% contro l’1,1%. E ciò ha portato a un “rimbalzo” fatturato 2021 su quello 2020 che per l’Italia ha fatto segnare un +25,2%, il 4,3% in più rispetto al 2019. Un risultato che, sul fronte tedesco, sconta la contrazione dell’automotive già fortemente in crisi rispetto alla filiera di approvvigionamento della componentistica, mentre sul fronte italiano trae vantaggio soprattutto – anche se non solo – dal buon andamento delle esportazioni, che ha sfiorato i 133 miliardi. Insomma da una parte il disastro dall’altra l’apparente vento in poppa, addirittura confrontandoci con la Germania. Penso che potremo fare paralleli seri quando saremo in grado di consolidare per decenni questo andamento.

Questi dati, in ogni caso, lasciano moderatamente ben sperare, perché anche se l’indeterminato prolungarsi della guerra fra Russia e Ucraina permette di prevedere che il nostro tasso di crescita per il prossimo anno dovrà necessariamente essere rivisto, si evidenziano alcuni fattori che nel breve-medio periodo potrebbero consentire all’Italia di prendere respiro. In particolare, sempre secondo il rapporto di Banca Intesa, potrebbe essere una sorta di “resilienza” dei distretti, ovvero la loro capacità di rispondere in maniera adattiva al cambiamento, sfruttando a pieno le caratteristiche strutturali che li contraddistinguono, a consentirci di pagare un costo meno alto nella critica congiuntura economica che ci aspetta. Senza dimenticarci che all’orizzonte si prospetta lo spettro della stagflazione (stagnazione e inflazione combinati tra loro), che potrebbe pregiudicare la ripresa, in Italia come nel resto del mondo occidentale, con gravi conseguenze sui costi produttivi, sul potere di acquisto dei redditi, sull’occupazione e – di conseguenza – sull’effettiva capacità delle nostre economie di ripartire nel post-pandemia e nella crisi internazionale prodotta dalla guerra.

Oltre Food e Turismo

È vero che abbiamo un’economia che si sviluppa in controtendenza soprattutto nel food e nel turismo, ma è anche difficile immaginare, almeno spero, che il futuro dell’Italia possa caratterizzarsi principalmente rispetto a questi settori, pensando che il paese, in una nuova divisione internazionale del lavoro, possa specializzarsi diventando una sorta di Disneyland a cielo aperto, fatta di hotel, ristoranti, luoghi di divertimento e turismo. Restando poi irrisolti una serie di problemi, come quello della scarsa concorrenza – bassa competitività – che ci viene periodicamente rinfacciato dall’Europa, rispetto al quale a fronte della quotidiana litania a favore di un mercato più aperto, sono sufficienti le rimostranze di una sola categoria (per fare un esempio, i tassisti solo qualche giorno fa), per mettere in ginocchio il Paese al semplice affacciarsi dell’idea che si possa cambiare qualcosa, senza alcun ragionamento di sistema.

Il ruolo dei distretti di impresa

Un aspetto che viene chiaramente ribadito anche nel rapporto di Banca Intesa, e che possiamo considerare un dato incontrovertibile, è che comunque l’impresa regge il sistema. Senza impresa non c’è sviluppo, come dimostra anche il dato della crescita italiana dell’ultimo anno, rispetto alla quale sono state decisive le prestazioni dei distretti di impresa più importanti, dall’agro-alimentare alla meccanica, che annoverano nei loro ranghi oltre ottocento imprese “champion” capaci di importanti performance. Sappiamo che la crescita si può favorire in tanti modi. Non ultimo, anzi forse fra i più decisivi, la capacità di semplificare i processi amministrativi e burocratici che accompagnano le attività produttive e di questo nel mio settore siamo esperti.

Assistiamo all’inerzia delle pubbliche amministrazioni, senza riuscire mai a comprendere fino in fondo, se ciò dipende da una volontà architettata sistematicamente, o se si tratti dell’inevitabile conseguenza prodotta da un sistema amministrativo disarmonico e farraginoso in tutte le sue articolazioni. Certo, negli ultimi anni sono stati compiuti importanti passi in avanti, lo abbiamo visto e possiamo testimoniarlo con onestà intellettuale, tuttavia la strada da fare per allinearci alle prestazioni degli apparati burocratici degli altri paesi avanzati è ancora molto lunga e, se parliamo di noi e altri professionisti, sono certo, la semplificazione non ci spaventa, anzi ci consente di rivedere le nostre attività in una nuova chiave di sviluppo. Basti pensare che, ancora oggi, per insediare un impianto produttivo ci vogliono anni! Quando in altri paesi è sufficiente disporre di qualche ora per compilare un modulo on line. Personalmente vorrei una via di mezzo. Ecco non vorrei una burocrazia all’inglese dove puoi aprire una azienda fantasma con poche sterline in poche ore, ma nemmeno che per aprire una azienda io debba perdere anni. Burocrazia vuole dire “convivenza civile e controllata” perché altrimenti avremmo l’anarchia e mercati, lo abbiamo capito, non sempre sono in grado di autoregolarsi, ma dobbiamo semplificare.

L’intervento del Garante privacy

Parlando di una nostra importante questione professionale, che qualora risolta potrebbe fornire un significativo contributo alla semplificazione del procedimento amministrativo, con evidenti conseguenze positive sulle attività produttive e quindi sulla ripresa del Paese, vi è un tema che dopo anni di discussioni in sede istituzionale e legislativa, sta approdando a esiti quasi paradossali. Si tratta della “delega telematica”, uno strumento che potrebbe produrre effetti immediati in termini di semplificazione amministrativa e snellimento dei procedimenti autorizzativi, esplicitamente previsto già dal cosiddetto Decreto legge Semplificazioni 2021, attraverso l’istituzione del Sistema di gestione delle deleghe (SGD), che oggi viene sostanzialmente smontato da un parere del Garante per la Protezione dei dati personali, che è intervenuto su questo tema con un parere, tra l’altro obbligatoriamente contemplato dallo stesso Decreto, che ha riportato le lancette del tempo indietro di diversi anni. Un esempio plastico di come nel nostro paese l’attività legislativa troppo spesso si perda nella fitta trama di una infinita “tela di Penelope”, rispetto alla quale ciò che fa una norma un’altra lo disfa.

Il legame con il PNRR

Per fortuna, al di là degli immancabili ritardi di una Pubblica amministrazione che fatica a intendersi come il più importante supporto di cui le attività produttive possano disporre, il catalogo della ripresa, grazie soprattutto al PNRR e al programma NGEU, include tante novità, soprattutto nel quadro degli obiettivi e delle linee di intervento collegate alla transizione digitale. Probabile che la struttura dei distretti industriali possa ancora rappresentare un fattore di successo, soprattutto in un’economia ad elevato tasso di competenze come quella di oggi, dove le grandi dimensioni di scala non sono più determinanti fondamentali di competitività come in passato.

La situazione delle piccole imprese

Tuttavia abbiamo anche uno straordinario paradosso. Da un lato, si registra una importante accelerazione rispetto all’adozione di tecnologie industria 4.0, soprattutto nelle imprese medio-grandi (tre su quattro) dice il rapporto Banca Intesa. Dall’altro, nelle piccole, piccolissime (nano e micro) imprese la quantità di know how presente resta estremamente bassa, poiché in questi contesti si fatica ancora parecchio a investire in figure innovative, personale dotato di laurea (triennale o magistrale), o titoli di studio post-laurea (master di secondo livello). E su questo punto forse serve una più attenta riflessione, cioè perché nelle piccole imprese non arrivano cervelli? Forse perché oggi il giovane ha una dea dell’impresa solo mirata alla grande organizzazione e questo spesso perché la piccola no né in grado di attirare su di sé l’attenzione, in primis del sistema Universitario. È sufficiente fare una passeggiata per un carrier service universitario per rendersi conto che una inserzione di un piccolo è pressoché snobbata.

Il nodo della formazione

Eppure è la piccola impresa che rappresenta l’ossatura economia di questo Paese. Serve pertanto investire di più su questo aspetto culturale, il piccolo non è brutto e cattivo ma può essere bello e attrattivo se si difende e non si demonizza. Resta perciò di estrema attualità il tema della formazione e delle competenze, soprattutto sulla frontiera, cioè rispetto a materie e discipline collegate all’innovazione. E ciò fa ritornare alla mente quei dati che già in passato permettevano di concludere che nel nostro paese, a differenza di molti altri paesi europei, l’assunzione di laureati da parte delle imprese avviene soprattutto, quando non addirittura esclusivamente, da parte delle grandi multinazionali. In questo senso, se non ci fossero le grandi Corporation straniere in Italia la gran parte dei laureati se ne andrebbero a spasso, mentre non è così.

Qui la dimensione delle imprese risulta ancora decisiva: quando si è troppo piccoli, diventa assai difficili, anche rispetto alla struttura dei costi di produzione e organizzativi che si riesce a sostenere in equilibrio, investire in istruzione e competenze dei propri lavoratori, soprattutto verso i più giovani e su questo serve concentrare l’attenzione nel prossimo futuro in questo anche il PNRR dovrebbe trovare modi e strumenti per supportare questa azione che oserei definire verso il “basso” cioè verso il tessuto delle piccole imprese che per essere grandi non devono esserlo necessariamente dal punto di vista dimensionale, ma possono esserlo dal punto di vista del prodotto e della qualità.

I vantaggi dei distretti industriali

L’Italia è un paese la cui struttura economica è storicamente caratterizzata dalla prevalenza delle piccole e medie imprese. E l’avvento dell’economia globale non ha fatto altro che accentuare ulteriormente questa caratteristica, viste le difficoltà incontrate dalle imprese italiane, anche le più grandi, nel fare il salto di qualità per entrare a far parte del novero delle grandi multinazionali. Tuttavia oggi, soprattutto grazie ai cambiamenti prodotti dalla rivoluzione digitale, è possibile pensare a un’economia molto meno condizionata dalla grande dimensione di impresa, a patto che l’impresa stessa sappia produrre una combinazione dei fattori produttivi ad alta intensità di innovazione e know how.

E i distretti industriali, per le loro caratteristiche strutturali, hanno tutte le potenzialità necessarie per poter svolgere un ruolo da protagonisti nella transizione del sistema economico italiano verso l’industria 4.0, ovvero un modello di attività produttive ad elevata concentrazione di tecnologie, competenze e informazione in grado di soppiantare, rappresentandone un’alternativa, il modello multi divisionale della grande Corporation con reti di imprese, come quelle dei distretti, in stretta integrazione funzionale e in filiera corta, che siano capaci di reggere la concorrenza sotto il profilo dell’innovazione, della ricerca e dello sviluppo di nuovi prodotti. Tutto ciò sarebbe possibile, ed è già nelle nostre potenzialità, a patto che le imprese dei nostri distretti industriali decidano di investire in innovazione tecnologica di frontiera e risorse umane dotate di competenze soprattutto nelle discipline scientifiche. È qui importante sottolineare come per riuscire in questo decisivo salto di qualità occorra investire contemporaneamente sul fronte dell’innovazione tecnologica e su quello delle risorse umane.

Gli obiettivi

Su questo fronte decisivo sarà il contributo apportato dal PNRR, soprattutto attraverso la seconda componente della prima missione (Digitalizzazione, innovazione e competitività nel sistema produttivo) e la seconda componente della quarta missione (Dalla ricerca all’impresa), senza tuttavia dimenticare, in un’efficace logica di sistema, la prima componente della prima missione (Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA) e la prima componente della quarta missione (Potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione) perché – come abbiamo più volte ribadito – la digitalizzazione della Pubblica amministrazione è la principale “infrastruttura immateriale” per lo sviluppo del Paese, così come il sistema di istruzione (e aggiungiamo di formazione professionale) è decisivo per accrescere l’insieme delle competenze che fanno la qualità del fattore umano che, a partire dai giovani, sarà decisivo per la crescita. Del resto, il discorso sulla transizione digitale, troppo spesso invocato retoricamente facendo riferimento soltanto alla dimensione tecnica e strumentale, può permettere all’Italia di migliorare le sue aspettative di sviluppo soltanto se declinato nei termini di un cambiamento di ordine culturale.

Perché le tecnologie, anche le più avanzate, sono e restano un mero strumento se non vengono integrate in un’adeguata e consapevole prospettiva culturale, capace di calibrare le innovazioni tecnologiche sulle reali necessità del sistema produttivo del paese (è ciò che si intende quando si parla di “trasferimento tecnologico”), rappresentando un’opportunità di sviluppo per tutti, nessuno escluso, a partire dai giovani e dalle donne, che troppo spesso, pur capaci, faticano a trovare un’adeguata collocazione nel mondo del lavoro.

Come ridisegnare i percorsi formativi

Fondamentale, a questo proposito, è la ricerca di un rapporto più diretto ed efficace fra percorsi formativi, dalla scuola alla formazione e all’aggiornamento professionale, e il mondo dell’impresa. Scuola e formazione devono essere ridisegnati con l’obiettivo di fornire non solo competenze più adeguate al mondo del lavoro, ma anche indirizzare coerentemente i giovani verso i profili professionali che possono considerarsi più adatti rispetto alle loro inclinazioni e capacità. Scuola, sistema della formazione, mondo dell’impresa devono operare con maggiore sincronia, con l’obiettivo di fornire competenze funzionali all’inserimento nel mercato del lavoro. L’indirizzo da seguire è quello del consolidamento di un ampio bagaglio di skills, cioè non semplici competenze formalmente acquisite attraverso un titolo di studio, ma abilità effettive nell’utilizzare gli strumenti forniti dalle istituzioni educative per affrontare e risolvere problemi.

E nel far questo sarà decisivo ridefinire i rapporti fra istruzione, formazione, aggiornamento professionale e impresa secondo una logica che consenta ai giovani, fin dai primi passi nel sistema di istruzione superiore, di costruirsi un profilo efficace per il loro impiego di domani. I sistemi educativi e di formazione professionale di alcuni paesi europei, come per esempio quello tedesco e quello olandese, sono già molto avanti su questa strada. E noi dobbiamo cercare di seguirne le orme.

Lo scenario globale

Skills e abilità, nuove capacità pratiche e flessibili, in grado di adattarsi rapidamente a un mondo del lavoro in continua trasformazione, costituiranno, in un futuro già molto prossimo, il vero argine di tenuta del sistema Italia nella serrata competizione economica del mondo globale, il baluardo a difesa della nostra capacità produttiva e, in prospettiva, il presupposto principale delle nostre possibilità di sviluppo. Da anni abbiamo ormai ceduto sovranità produttiva a paesi come la Cina e da oggi potremo competere, in un orizzonte globalizzato che a causa della guerra in Ucraina sta già riorganizzandosi secondo filiere transnazionali in cui gli interessi economici iniziano a saldarsi con nuove strategie politiche e di sicurezza nazionale, soltanto riportando e tutelando produzioni e servizi ad alto valore aggiunto (che è principalmente un contenuto di informazione e know how) nell’alveo del nostro sistema economico.

Ma per perseguire efficacemente questo obiettivo strategico, dobbiamo anzitutto capire di quali istituzioni, processi e percorsi formativi abbiamo realmente bisogno. Con l’alternanza scuola-lavoro, per esempio, abbiamo inaugurato una nuova stagione di rapporti fra giovani, istituzioni educative e mondo delle attività produttive. Sebbene proprio questa recente esperienza suggerisca chiaramente come vi sia ancora molto da fare, per evitare che alla fine si traduca in qualcosa di sterile. Occorre perciò rafforzare ulteriormente questo strumento, valutando anche la possibilità di un ingresso diretto nei programmi di studio di una parte più consistente di percorsi formativi finalizzati al rapporto con il mondo del lavoro e dell’impresa.

Così come già stanno facendo altri paesi europei, dobbiamo fare quel salto di qualità che permette di intendere le competenze educative non come semplici credenziali formali, delle quali il titolo di studio è garanzia indiscussa, ma come abilità in via di consolidamento attraverso percorsi formativi mirati ad accrescere progressivamente l’esperienza dei giovani rispetto ai profili professionali che li attendono nel mercato del lavoro. E far questo vuol dire anche indirizzare i giovani stessi verso canali di istruzione e formazione che siano collegati ai reali fabbisogni del sistema produttivo. La transizione digitale ci impone una nuova composizione delle competenze disponibili in base alle scelte degli studenti e all’offerta formativa: poiché abbiamo più necessità di tecnici, ingegneri, informatici, laureati in discipline scientifiche dovremmo introdurre meccanismi di orientamento nella scelta degli indirizzi di studio che incentivino i migliori a entrare in quei percorsi formativi. Pertanto meno avvocati e più tecnici, con tutto il rispetto per questi professionisti che sono in ogni caso necessari e aiutano il sistema.

La proposta

Skills e abilità, nuove capacità pratiche e flessibili sono gli strumenti che il Paese in prospettiva dovrà saper mettere a frutto, perciò il sistema educativo e della formazione professionale devono fin d’ora orientarsi in questa direzione. Dalla consapevolezza di questa esigenza, come UNAPPA (Unione Nazionale dei Professionisti della Pubblica Amministrazione) abbiamo formulato una proposta che è stata presentata l’8 giugno a Roma, durante un’iniziativa realizzata in collaborazione con Fondimpresa dal titolo “Formazione, Competenze, Acceleratore di Sviluppo”. In breve, tale proposta prevede di estendere il raggio di azione dello 0,30% del versamento previdenziale, come quota destinata alla formazione di per sé già prevista da un provvedimento normativo del 1978, prevedendo la possibilità di ricorrervi anche per i professionisti, ovvero per tutti coloro che versano i loro contributi nella cosiddetta Gestione Separata, o in altre Casse gestite presso INPS, così da consentire un allargamento della platea dei soggetti che potranno avere a disposizione un contributo diretto per formarsi da titolari di impresa che esercitano, di fatto, una libera professione.

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