formazione e aggiornamento

Far rientrare i NEET nel circuito del lavoro: l’aiuto viene dall’education, anche per le aziende



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Il numero di giovani fra i 15 e i 29 anni che non studiano né cercano lavoro in Italia è il più alto in Europa. Per provare a risolvere il problema bisogna delineare il ritratto dei “dispersi” e dare nuovo slancio alle imprese, aiutando le persone ad armonizzare lavoro e altre aspirazioni in un unico…

Pubblicato il 28 giu 2023

Pier Maria Minuzzo

People Development Director di 24ORE Business School



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Risolto il dramma dei trentenni senza lavoro: adesso hanno quarant’anni” – così ironizzava un amico una decina di anni fa, rispetto alle difficoltà della politica e del sistema produttivo nel reagire alla lunga scia della crisi economica partita dagli Usa.

Il fenomeno dei NEET in Italia

Un effetto domino che avrebbe sempre più opacizzato l’idea di futuro seminando la sfiducia che sta alla base del fenomeno dei NEET. Acronimo dell’inglese Not in Education, Employment or Training, la nostra percentuale di giovani fra i 15 e i 29 anni che non studiano né cercano lavoro è la più alta in Europa. Record che ha tutto il sapore del contrappasso. Nell’unico paese al mondo in cui è nata prima la lingua che l’unità nazionale, nella Repubblica “fondata sul lavoro”, il 19% degli under 30 non è occupato e non è inserito in un percorso di istruzione e formazione. Di questi, il 17.7% sono maschi e il 21% femmine: in Sicilia la media è del 30% secondo gli ultimi dati dell’Istat, a ricalco dello storico divario tra Nord e Sud Italia.

La paralisi innescata dalla pandemia ha dato certamente una spallata ulteriore, allargando ancor di più la crepa nella fascia d’età considerata dall’Unione Europea – giovani dai 15 ai 34 anni – dove l’Italia registra il 23.1% degli inattivi a fronte di una media del 13.1% per i paesi dell’UE.

Decreto Lavoro: provvedimenti a misura di NEET, ma non basta

Ecco perché nel pacchetto di misure del Decreto Lavoro approvato dal governo lo scorso primo maggio sono inclusi provvedimenti cuciti a misura di NEET. Tra gli altri, dal primo giugno al 31 dicembre 2023 un incentivo per i datori di lavoro che assumeranno gli under 30 fino al 60% della retribuzione mensile, con validità di 12 mesi. La buona volontà della politica, che cerca di rispondere così agli scarsi risultati di “Garanzia giovani”, il piano europeo per l’incremento occupazionale giovanile concluso nel 2020, non può comunque bastare da sola a risollevare le sorti di una crisi che ha carattere sistemico. L’orizzonte d’azione necessario è molto più ampio e richiede l’intervento di altri soggetti.

Oltre alle semplici osservazioni numeriche, esiste infatti una costellazione di variabili su cui è necessario agevolare il dovuto raccordo tra indirizzi politici e finalizzazione aziendale.

Delineare meglio il ritratto dei “dispersi”

In questo senso, delineare meglio il ritratto dei “dispersi” – il cui ritiro logico razionale dalla scena formativa e lavorativa porta i segni di una ferita ormai anche psico-emotiva – aiuta la creazione di percorsi di valorizzazione delle opportunità e del potenziale a disposizione. Per prima cosa, è bene allora precisare che la dispersione scolastica, lavorativa e sociale che fa perdere le tracce di quasi un ragazzo su quattro, rischiando di immetterlo nei percorsi di una nuova schiavitù (culturale, materiale, criminale), non riguarda solo la Generazione Z ma anche gli ultimi anni della generazione dei Millennials. Due generazioni vicine eppure già lontane, con valori e prospettive differenti, che si confrontano nel mondo del lavoro con i Baby Boomers (frutto dell’unicità dell’epoca storica) cresciuti, a loro volta, su altri orizzonti e modelli culturali. Considerare la stratificazione già esistente all’interno stesso dell’unica categoria di NEET aiuta a focalizzare meglio il tipo di interventi da promuovere.

I fattori che acuiscono il problema

Il diverso bagaglio di attese, speranze e progetti che nutre questo silenzioso ma sempre più forte scontro generazionale trova conferma nella doppia veste di concausa e insieme di effetto, in altri dati che si impongono nel dibattito pubblico, ma sono ormai al centro dell’attenzione nella realtà di tutti i giorni.

L’emergenza demografica

Primo fra tutti, l’emergenza demografica. A fronte di una progressiva diminuzione del numero medio di figli per donna – la cui età media alla nascita del primo figlio ha toccato nel 2021 i 31,6 anni – l’Eurostat prevede infatti che entro il 2100 la popolazione italiana si dimezzerà letteralmente, arrivando alle trenta milioni di unità. Come stupirsi, del resto, se il 68% delle persone intervistate in un recente sondaggio di Quorum/YouTrend tra chi ha scelto di non avere figli dichiara come motivazione l’insicurezza economica e la mancanza di prospettive per i giovani.

Le differenze di genere

La questione, come spesso accade, diventa ancora più urgente se – dal parametro generazionale – lo sguardo si concentra sul metro delle differenze di genere. Le condizioni lavorative delle donne sono infatti ancora tali da costringere metà della popolazione femminile tra i 18 e i 49 anni ad abbandonare definitivamente il lavoro dopo aver messo al mondo il primo figlio (il 49.8%, secondo un’indagine Inapp-PLUS del 2021). Come dire: è tutto collegato.

Le aziende non se la passano meglio delle persone

Inoltre, rispetto al passato, il cambiamento accelerato non lineare ha travolto sia le aziende che il mondo dell’education dove, oltre all’enorme frattura rappresentata dalla pandemia, con la guerra e le crisi già alla base del problema dei NEET, si sono diffusi i fenomeni delle Great Resignation e del Quiet Quitting. Se a questo aggiungiamo la rivoluzione tecnologica in atto, i Big Data, l’Intelligenza Artificiale, tutto ciò che già era complesso ora diventa anche complicato. Le persone non stanno bene, come si diceva, ma le aziende non se la passano certo meglio di loro. Le proposte più efficaci guardano allora agli spazi di confine tra i soggetti coinvolti nei processi, per migliorare prima di tutto la comunicazione e lo scambio di risorse tra i diversi attori permettendo all’attività di fiorire insieme alle singole persone che ne fanno parte: se si considera l’organico e la composizione interna a ciascuna realtà, restando in metafora generazionale, le aziende somigliano sempre più a un genitore che si trova ad affrontare l’adolescenza del primo figlio e spesso è impreparato perché i cambiamenti del ragazzo sono più rapidi del processo evolutivo e educativo del genitore. Il rischio è duplice e ha le stesse caratteristiche, ossia da un lato non riconoscere più il figlio che cambia, mentre dall’altro non sentirsi più bene in famiglia.

Il supporto che può arrivare dall’education

Il cambiamento fa parte della storia dell’uomo ma, come sempre, bisogna trovare una mediazione che nasca dal dialogo, dal confronto e dal raffronto con altre realtà. Nel fronteggiare e arginare il fenomeno, il mondo dell’education può essere un valido supporto. Non solo guardando alle aziende, ma intervenendo con appositi percorsi formativi su entrambi i fronti (manager e ragazzi) e arrivando all’attivazione di master che possano coinvolgere poi anche tutti i dipendenti, accompagnando il ciclo di vita del lavoratore. In questo, le business school italiane grazie ai loro docenti, manager di imprese, professionisti del settore e percorsi di formazione possono diventare parte integrante a livello strutturale delle strategie aziendali, fornendo al personale coinvolto nuove conoscenze e competenze utili per la propria crescita e finalizzate al conseguimento di obiettivi comuni.

Conclusioni

Dall’Hiring all’on-boarding, dai talent program ai trainer aziendali, dai manager ai C-level: tutti hanno bisogno di aggiornamento continuo, di formazione non solo tecnica ma anche trasversale. In sintesi, dare maggior solidità, respiro e nuovo slancio alle imprese, aiutando le persone ad armonizzare lavoro e altre aspirazioni in un unico progetto di vita, come auspicava al 52°Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana Direzione Personale, il Presidente AIDP Lazio, Ciro Cafiero.

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