skill gap

I manager italiani non sanno governare l’innovazione: ecco i rischi per il Paese

Il manager tipo italiano, con poche eccezioni, non è formato in maniera adeguata e non si aggiorna e perciò non è in grado di comprendere, governare e trasformare in opportunità il digitale. E così il Paese continua a “sperimentare” ciò che altrove è già proficuo. E i pochi tecnici e specialisti nostrani vanno all’estero

Pubblicato il 11 Feb 2019

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Ancor più grave della carenza di competenze tecniche in Italia è che manca la domanda di soluzioni complesse e manager in grado di formularla.

Ci troviamo, insomma, ad affrontare le fronte nuove sfide sociali, tecnologiche, etiche e manageriali poste in essere dall’intelligenza artificiale con imprenditori e manager che si sono formati anni fa e che normalmente non si aggiornano.

Una condizione che spinge i pochi tecnici ICT formati (bene) nelle nostre scuole e università a lavorare all’estero e fa sì che il nostro paese sia ancora nella fase di “sperimentazione” della trasformazione digitale, mentre il resto del mondo ne sta già cogliendo i frutti, grazie agli investimenti e alla formazione portati avanti negli anni scorsi.

Competenze ICT, stato dell’arte

La società e il business sono sempre più digitali, ormai possiamo dire che non sia più possibile distinguere un processo o un servizio tra parte digitale e parte analogica. I due mondi un tempo distinti sono sempre più integrati in un unicum. Eppure, il nostro paese produce pochi laureati e pochi esperti in ICT rispetto alle necessità. Le carenze che il nostro sistema sta già avendo e avrà sul fronte delle competenze ICT e proprio quelle più elevate sono state fotografate dall’Osservatorio delle Competenze Digitali, condotto da Aica, Anitec-Assinform, Assintel e Assinter Italia, in collaborazione con MIUR e AGID, nel report del 2018.

La medio-piccola azienda italiana, in taluni casi anche la grande, fanno capo spesso a compagini familiari che promuovono sul campo seconde generazioni alla guida dell’azienda o vedono alla direzione imprenditori che non di rado non hanno nemmeno un titolo di studio. Il modello di impresa italiano è fatto spesso da bassa scolarizzazione e attitudine al sacrificio ma non sempre accompagnato da investimenti in formazione manageriale. L’estro aiuta ma bisogna accompagnarlo con managerialità e organizzazione per raggiungere grandi risultati.

I manager troppo spesso una volta formati all’università non mantengono un aggiornamento continuo, non si misurano con l’autoapprendimento o la formazione ricorrente. Tra l’altro abbiamo troppi manager che non hanno una cultura tecnica in grado di fargli comprendere i fenomeni in corso.

Senza tecnologia, il business non evolve

La conoscenza della tecnologia e un certo approccio “computazionale” non sono ormai un qualcosa da aggiungere ad una formazione manageriale, sono diventati parte integrante di qualsiasi manager. Non è possibile fare il manager senza conoscere le tecnologie, l’economia, l’organizzazione, il business in egual modo. Stiamo assistendo ad un mondo nel quale non è semplicemente possibile mettere in atto una strategia di business senza utilizzare al pieno le tecnologie più evolute, comprenderne il significato, anticiparne l’adozione.

Paradossalmente, malgrado la denuncia della carenza di specialisti ICT, continuiamo ad esportarli all’estero dimostrando che le nostre scuole ed università sono in grado di reggere il passo di contesti sociali con economie più avanzate della nostra. Abbiamo pochi specialisti ICT in grado di dare soluzioni ma abbiamo ancora di meno manager in grado di porre i problemi che i primi dovrebbero saper risolvere.

Uscire dal guado della sperimentazione continua

Se guardiamo ai dati sul mercato 2018 prodotti da Anitec-Assinform ci accorgiamo che ci sono diversi progetti sulle aree innovative ma sono per lo più ancora sperimentazioni o fatti su aree non core delle aziende. Chi decide sul finanziamento e avvio dei progetti non è in grado di capire come può utilizzare al meglio l’intelligenza artificiale o la blockchain per risolvere o meno i suoi problemi e, nel frattempo, avvia delle sperimentazioni.

Mentre aziende di altri paesi già hanno soluzioni, applicazioni “core”, piani di innovazione pluriennali che comprendono investimenti, integrazioni con università e centri di ricerca, utilizzo di competenze esterne o, come accade sempre più spesso, internalizzazione di risorse il nostro paese continua a mancare proprio di questo. “Sperimentiamo” la “Digital Trasformation” mentre il mondo la sta attuando.

Si sa che se manca la domanda manca la spinta affinché sempre più persone possano formarsi sui settori ICT, le imprese possano mettere in atto investimenti e piani di cambiamento. I nostri giovani continuano a preferire specializzazioni che vedono riconoscimenti maggiori, che consentono di poter crescere in carriera senza rimanere “reclusi” in attività tecniche (tipica mentalità di qualche decennio fa che tuttavia permane diffusa tra il nostro management).

Le eccezioni non bastano

Ovviamente in Italia abbiamo anche una leva di manager di eccellenza, che hanno saputo investire in formazione e preparazione e che in molti casi operano in ambiti internazionali. Se guardiamo alcune delle aziende più avanzate al mondo troviamo nomi italiani, troviamo italiani in molte community open source, in molti articoli scientifici e lavori specialistici. Questo non basta, è una condizione necessaria ma non sufficiente alla trasformazione del nostro tessuto produttivo, a livello generale troviamo una situazione che può diventare preoccupante.

È difficile ad esempio cogliere le opportunità che può fornire l’intelligenza artificiale se non si è messa in atto una strategia sui dati aziendali, se permane nelle nostre aziende un cospicuo “debito tecnico” ancora non toccato da piani di investimento e ammodernamento. È difficile che manager non in grado di comprendere questi fenomeni epocali possano saperli governare e trasformarli in opportunità.

L’importanza del re-skill e della formazione continua

Le sfide della cybersecurity, dell’intelligenza artificiale, della digitalizzazione dei processi e dei servizi digitali presuppone una leva di manager che sappiano maneggiare con dimestichezza la tecnologia, il business, la leadership, l’organizzazione. Per governare una azienda o una parte di essa è sempre più necessario saper “governare” i talenti, comprendere e comunicare con personale specialistico, saper tradurre gli aspetti tecnici in opportunità di business con una capacità di visione prospettica, cogliere le possibilità delle nuove tecnologie digitali e saperle utilizzare. Maneggiare dati, tecnologia, processi, persone, cultura.

L’”era dell’intelligenza artificiale” applicata vedrà la necessità di persone sempre più complete, poliedriche, in grado di porsi domande e formulare domande, trovare soluzioni o immaginarle. Accanto alle commissioni di esperti che il governo ha messo in campo sull’intelligenza artificiale e sulla blockchain sarebbe necessaria una iniziativa di “re-skill”, formazione continua, un grande programma che miri a ridisegnare i percorsi di istruzione per renderli permanenti e ricorrenti. A partire da chi deve governare i fenomeni, per le classi dirigenti per arrivare all’”ultimo” tecnico manutentore o operaio. Nella società della conoscenza è necessario che questa sia continuamente aggiornata.

Avremo sì sempre più bisogno di profili specialistici ICT ma avremo ancor più bisogno di persone in grado di mettere insieme il tutto, di manager e imprenditori in grado di governare i fenomeni, è necessario che ogni persona coinvolta si assuma le proprie responsabilità e cominci a lavorare per il cambiamento.

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