l’analisi

IA: gli impatti su qualità del lavoro e soddisfazione personale



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Il dibattito sull’IA nel lavoro non si limita alla perdita di posti, ma include l’impatto sulla qualità del lavoro. L’IA potrebbe ridurre la creatività e la soddisfazione, aumentando la spersonalizzazione e la routine. Tuttavia, in settori come la sanità, potrebbe liberare tempo per compiti più umani e interattivi

Pubblicato il 4 ott 2024

Mario Di Giulio

Professore a contratto di Law of Developing Countries, Università Campus Bio-Medico Avvocato, Partner Studio Legale Pavia e Ansaldo



L'impatto dell'IA nell’economia e nel lavoro: più produttività, ma anche più disuglianze

Nel dibattito acceso dall’utilizzo sempre più massivo dell’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro, l’interrogativo primo che si è posto in modo naturale ed istintivo, è quale impatto essa possa avere sulle singole attività e professioni in termini di superamento di certe qualifiche (si pensi agli help desk sempre più permeati di strumenti di intelligenza artificiale) con conseguente perdita di posti di lavoro, o, all’opposto, di creazione di nuove professioni.

L’impatto dell’IA sulla qualità del lavoro

Un tema che appare essere stato lasciato in secondo piano, o almeno che sembra non essere stato affrontato dalla maggiore parte degli osservatori, è quello su come l’intelligenza artificiale modificherà la qualità del lavoro per quelle attività e professioni che non avranno un impatto in termini di posti di lavoro, ma che saranno comunque fortemente influenzate dall’utilizzo degli strumenti che tale tecnologia offre.

L’analisi che si pone in questo caso è quindi di tipo qualitativo e non solo quantitativo e le previsioni non sono facili, anche se, almeno per qualcuno, il lungo trend dell’evoluzione industriale ci insegna che più la tecnologia aumenta, più l’uomo, nella maggiore parte dei casi, viene schiacciato in un ruolo di mero fattore della produzione, dove personalità e creatività non hanno asilo, del tutto o solo parzialmente.

Per chiarezza, il tema che qui si affronta non è tanto quello sollevato sulla sicurezza sul lavoro, su come gli algoritmi possano influenzare la frequenza delle prestazioni e il controllo sui lavoratori (sul punto vi è ampia letteratura sulle cronache dei giornali per quanto concerne i lavoratori della logistica, si parli di semplici spedizioni o delle consegne a domicilio di cibi e bevande), e che ha condotto a considerare, nelle analisi dello stress da lavoro correlato, l’influenza dell’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale che assegnano compiti e termini di esecuzione, quanto invece l’influenza che tali strumenti avranno sulla soddisfazione che il lavoro ben eseguito rende a chi lo svolge.

Il lavoro, la creatività e la soddisfazione che da esso se ne trae

Sebbene in molti credano che l’evoluzione tecnologica porti al miglioramento delle condizioni lavorative e che ciò possa essere un assunto ben condiviso se si pensa in termini di sicurezza, un tema che si pone è come la sostituzione del lavoro artigianale con quello industriale abbia ampiamente limitato gli spazi di creatività e soddisfazione dei lavoratori coinvolti, che ben poco possono influenzare il processo produttivo sotto il profilo qualitativo, potendosi semmai limitare a incrementare la produzione attraverso il sacrificio del proprio tempo.

IA e lavoro d’intelletto

In termini generali si può infatti concordare, non considerando le prestazioni meramente intellettuali, che maggiore è stato l’impiego delle macchine, minore è stata l’attività d’intelletto che all’uomo è stata richiesta, salvo l‘esperienza e l’abilità di adattarsi a quanto richiesto dal processo produttivo.

Una considerazione, questa, forse non applicabile a tutti i settori (si pensi all’industria che produce i macchinari per l’automazione che si presta ancora ad ampi spazi di creatività), ma che vale per gran parte dell’industria moderna che ha spesso portato a picchi di alienazione, rappresentati in modo icastico da Charlie Chaplin, già nel 1936, con il suo film “Tempi moderni”, in cui la comicità lascia spesso ampio spazio alla tristezza causata dalla sostanziale veridicità di quanto il film rappresenta.

Volgendoci alla contemporaneità, per chi segue i social, è tutto un fiorire di post che sostanzialmente dicono “voglio che l’intelligenza artificiale mi sollevi dalle incombenze materiali, quali il lavare i piatti, non che mi sostituisca nella mia creatività”.

L’IA nei lavori routinari

Proiezioni e previsioni tendono però a darci una diversa visione, dove probabilmente i lavoratori manuali saranno quelli più difficilmente sostituibili, anche se si moltiplicano vari esempi di “camerieri robot” che portano i piatti nei ristoranti (di recente anche in Kenya) e si moltiplicano i casi di taxi a guida autonoma nella vita reale di ogni giorno (come nel caso della città di Wuhan con i suoi 500 robotaxi).

Ulteriore notazione generale è che il ricorso all’intelligenza artificiale per ruoli di carattere routinario amplificherà probabilmente la distanza tra Nord e Sud del mondo: dal momento in cui tale sostituzione sarà benvenuta nei paesi occidentali in quanto andrà a coprire le lacune causate dalla denatalità, nel Sud Globale, dove continua la fase di crescita demografica, mancheranno posti di lavoro con conseguente aggravio della situazione di povertà.

I principali problemi dell’IA applicata al lavoro

Dai vari studi sinora eseguiti da ricercatori di varie università (tra le quali Gronigen, Colorado State, Lussemburgo) le maggiori criticità considerate appaiono essere le seguenti.

La spersonalizzazione del lavoro eseguito

In primo luogo, la spersonalizzazione del lavoro eseguito, nel quale non apparirebbe chiaro quanto esso sia stato eseguito dal singolo lavoratore e quanto svolto dalla “macchina intelligente” e, dunque, il rischio che il lavoro sia modificato in funzione di adattamento all’intelligenza artificiale più che ad ausilio del lavoratore (si pensi al classico esempio dell’adattamento della macchina a ciò che serve all’intelligenza artificiale per svolere un compito: le auto a guida autonoma non hanno bisogno di un volante). E, sempre sotto il profilo dell’adattamento del lavoro alla macchina, l’altro rischio che si teme è quello dell’eccessiva frammentazione delle fasi del lavoro, in cui ciascuno vede il singolo passaggio ma non ha coscienza dell’intera attività, senza volere tenere inoltre conto del rischio che in tale modo si limitino ancora di più le relazioni lavorative (spesso fonte di creatività).

Il ruolo dell’umano nel processo lavorativo

In secondo luogo, desta preoccupazione il ruolo che l’umano dovrebbe svolgere nel processo lavorativo, probabilmente relegato al compito di supervisione, senza una vera incisività nell’ambito creativo.

Altro aspetto sarebbe poi legato al rischio di routine che già l’automazione ha introdotto nei suoi processi dai suoi primi albori, come già descritto in precedenza.

La disaffezione del lavoratore al proprio impiego

In sostanza, si potrebbe dire che uno dei rischi dell’intelligenza artificiale è la sostanziale disaffezione del lavoratore al proprio impiego perché ne sarebbe sempre meno attore protagonista, semplicemente limitato a una funzione di supporto.

Di contro, non si esclude che in certe tipologie di lavori, quali quelli sanitari, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale possa sollevare gli operatori dallo svolgimento delle attività più ripetitive per consentire, invece, una maggiore interazione con i pazienti.

Anche nell’ambito di altre professioni, quali quella legale, c’è chi intravede possibilità di ausilio nelle attività di ricerca ed impostazione dei pareri e per lo svolgimento delle attività giudiziali, dove l’intelligenza artificiale dovrebbe impostare un primo canovaccio sul quale lavorare.

Conclusioni

Se e quanto le preoccupazioni di carattere qualitativo siano fondate, non è facile prevederlo allo stato. Probabilmente è errato anche pensare in termini generalizzati e l’analisi si imporrà caso per caso, con alterni risultati.

Deve inoltre considerarsi che l’animo umano si trova spesso nel dilemma di andare oltre la conoscenza e temerne poi le conseguenze fin da quando esiste una narrazione delle gesta umane (basti pensare al continuo contrasto tra Ulisse e i suoi compagni d’armi e ricordare che quando venne introdotta la ferrovia, c’è chi l’avversò temendo che avrebbe compromesso la capacità delle mucche di produrre il latte).

Il luddismo, poi, dal suo canto ci insegna che il tentativo di fermare il progresso opponendosi ad esso non porta alcun frutto: questa è una lezione dalla quale tutti devono imparare.

La strada che appare da prendersi (forse l’unica che abbiamo) è quella di non farsi trascinare dal cambiamento, ma cercare di governarlo: questo richiede a ciascuno di noi di comprendere (o almeno cercare di comprendere) cosa sta avvenendo, senza inutili allarmismi ma anche senza facili entusiasmi.

Ai governi spetta poi il dovere di creare le regole del gioco che limitino la concentrazione delle tecnologie su pochi attori, rendendo possibile una partecipazione più ampia possibile alle scelte che indirizzano il processo creativo anche da parte di chi la tecnologia la subisce e non la domina.

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