Quasi sicuramente molti di voi avranno hanno già sperimentato almeno in modo amatoriale ChatGPT e molto probabilmente alcuni di voi l’hanno anche già incluso nei propri flussi di lavoro, magari per abbozzare righe di codice, oppure i copy di qualche post sui social network (non nego che ci ho provato anche io). Ci si risparmia già un po’ di tempo, con buona pace di qualche risorsa junior o in stage penserà qualcuno.
L’impatto dell’IA generativa sul lavoro
Eppure, secondo una recente ricerca di YouTrend e Fondazione Pensiero Solido, più della metà degli Italiani (54%) non si sente adeguatamente preparato sul tema dell’Intelligenza Artificiale e teme che questa tecnologia causerà una diminuzione dei posti di lavoro (51%) complessivamente disponibili.
E in effetti, l’impatto sul mondo del lavoro è uno dei primi che salta all’occhio. Quanti saranno i lavori da qui ai prossimi 5 anni che potranno essere completamente automatizzati o sostituiti perlomeno in quelle attività time consuming a basso valore aggiunto? Goldman Sachs stima che sono a rischio intorno ai 300 milioni di posti di lavoro, che l’Intelligenza Artificiale potrebbe sostituire contribuendo anche a un miglioramento delle performance economiche globali, con un più 7% nel valore della produzione dei beni e dei servizi. Sempre lo stesso report stima un aumento della produttività annua di 1,5% dell’economia americana spalmata su 10 anni. Una rivoluzione che farebbe comodo anche a noi italiani, la cui produttività è stagnante da decenni (con tutti gli annessi e connessi in termini di salari e occupazione).
Ma quindi cosa possiamo fare per affrontare questa rivoluzione che sembra veramente sempre più una quarta rivoluzione industriale?
La tutela del ceto medio
Per assecondare e trarre il massimo da questi cambiamenti, dovremmo innanzitutto accelerare su cose in cui in questo Paese siamo già oggi molto indietro, come la formazione digitale e la formazione continua di chi già lavora. Come ci ricorda sempre l’indice Desi, infatti, scontiamo un preoccupante ritardo in fatto di digitalizzazione del capitale umano: siamo ultimi in Europa per quota di laureati in ambito ICT, ci mancano competenze digitali (neanche il 25% degli Italiane ha competenze avanzate) e, ciò nonostante, le aziende investono pochissimo in formazione ICT.
Ritengo che questo tipo di investimenti, da finanziare anche con risorse statali come è stato all’epoca di Industria 4.0, sia fondamentale per mantenere aggiornata la forza lavoro, insegnando a chi ha mestieri mediamente qualificati a interagire con i software di intelligenza artificiale, che vanno programmati, aggiornati e tenuti controllati nella loro operatività. Inoltre, per ridurre la quota di lavori “aggredibili” dall’Intelligenza Artificiale, dovremmo aumentare le risorse investite in Ricerca e Sviluppo, allineandole in termini di intensità sul PIL alla media europea (dato che comunque potrebbe non essere sufficiente in quanto sensibilmente più basso di quello di USA e Giappone), al fine di ridurre le attività routinarie e a basso valore aggiunto.
Riuscirci significherà riuscire a tirare fuori il meglio di questa trasformazione, potenziando la capacità di produrre valore a parità di tempo e salario, rendendo finalmente realistici tutti i discorsi sul ripensamento del modello di lavoro (settimana corta, smart working etc).
Altrimenti, il rischio è quello di assistere a un progressivo scivolamento del ceto medio verso lavori a minor valore aggiunto, più manuali e meno pagati. Infatti, a differenza degli Italiani, che pensano che tra i lavori maggiormente impattati ci siano anche quello dell’operaio e del commesso, io sono piuttosto convinta che la partita in questa prima fase sarà limitata ai lavori da ufficio tipicamente da ceto medio, escludendo quelli che prevedono una forte interazione fisica con la clientela (commessi) o sono già stati automatizzati con le tecnologie esistenti (fabbrica). Rischiamo di assistere, paradossalmente, a una sorta di riflusso di quanto è accaduto negli ultimi 40 anni con la diffusione del computer, che ha portato moltissime persone negli uffici a fare lavori meno stancanti e meglio retribuiti. Lavori che però oggi rischiano di essere sostituiti da qualche software meno costoso, più efficiente e pure meno sindacalizzato.
La tutela dell’ingegno umano
Se sul fronte della formazione un ruolo centrale sarà dato ai singoli Paesi e al loro tessuto imprenditoriale, lo stesso non si può dire dell’altro importante tema, ovvero la tutela del diritto d’autore e delle opere d’ingegno, per il quale serve un approccio più sistemico e coordinato.
La questione è duplice. Da un lato c’è il problema che avremmo qualora i contenuti generati da Intelligenza Artificiale fossero equiparati in termini di diritto d’autore a quelli generati dagli esseri umani. Immaginate una gigantesca mole di nuove canzoni, opere visive e testi che entrano in concorrenza con quelle degli artisti e dei creator in carne ed ossa, svalutandone completamente il valore. Su questo fronte è fondamentale che i regolatori si accordino nel non riconoscere lo status di titolari del diritto d’autore alle macchine. Una decisione su cui siamo più o meno tutti d’accordo, comunque.
L’altro tema è invece quello che riguarda l’utilizzo dei contenuti già creati dagli esseri umani nel training delle intelligenze artificiali. Al momento, infatti, diverse aziende utilizzano immagini, testi, suoni e altri contenuti creativi coperti dal copyright per istruire i software, senza rispettare i diritti di utilizzo delle opere sfruttate. Si tratta a tutti gli effetti di un uso non consensuale, visto che ai creatori dell’opera di ingegno non viene chiesto se siano disposti a concederla per creare prodotti con finalità di tipo commerciale, ed eventualmente a che prezzo.
Anche se alcuni player hanno spontaneamente adottato modelli di business etici, decidendo di utilizzare data-set basati su contenuti copyright-free o contenuti su cui ci sia un accordo con gli autori delle opere tutelate, questa non è ancora una soluzione soddisfacente. Fortunatamente il Parlamento Europeo ha tenuto in considerazione il tema nei lavori preparativi per l’AI Act che dovrebbe andare a regolare tutto il comparto.
La sfida della regolamentazione
Fortunatamente ad oggi, Governo e Parlamento italiano non si sentono investiti della responsabilità di intervenire per regolamentare il comparto dell’Intelligenza Artificiale e nell’Unione la discussione regolatoria sta avvenendo principalmente a livello di Istituzioni europee.
Sono convinta che sia la strada giusta perché credo che in un contesto di competizione globale su fenomeni tecnologici così complessi sia necessario che il frame di riferimento sia quanto più ampio possibile, al fine di favorire la collaborazione tra i Paesi del continente e la creazione di campioni europei che possano garantire un corretto uso dei dati e rispettino i principi di diritto e tutela tipici del nostro ordinamento sovranazionale.
Penso che a livello di singolo Paese sia necessario lavorare soprattutto a livello di incentivi economici per favorire il cambiamento di cui ho parlato nei paragrafi precedenti, anche sostenendo le aziende che innovano e creano valore per il Sistema-Paese.