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Lavoro e AI: cinque principi per sviluppare competenze resilienti



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Nell’era dell’intelligenza artificiale, il mondo del lavoro è in continua evoluzione. Eppure, è possibile sviluppare competenze resilienti, capaci di affrontare le sfide e cogliere le opportunità offerte dall’IA. Dalla formazione continua alla collaborazione tra istituzioni e imprese, ecco come prepararsi al futuro del lavoro

Pubblicato il 25 lug 2024

Stefano da Empoli

presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com)



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L’intelligenza artificiale sta rivoluzionando il mondo del lavoro a una velocità senza precedenti, sollevando preoccupazioni ma anche aprendo nuove opportunità. Come possiamo prepararci a queste trasformazioni? Esploreremo di seguito cinque principi fondamentali per sviluppare competenze resilienti: formazione continua, adattabilità, collaborazione tra istituzioni e imprese, valorizzazione delle competenze umanistiche e promozione dell’innovazione.

Ma, prima, facciamo un passo indietro.

Tecnologia e perdita di posti di lavori: la storia si ripete

Di fronte alla rapida avanzata dell’intelligenza artificiale, una delle preoccupazioni principali è la perdita dei posti di lavoro. Questa paura non è nuova. Come ho raccontato in “L’Economia di ChatGPT. Tra false paure e vecchie speranze” (Egea, 2023), durante la campagna per le presidenziali americane del 1960 l’allora candidato democratico, John F. Kennedy, entrò a piè pari nel dibattito sugli impatti dell’automazione nel mondo del lavoro. Un opuscolo distribuito dal suo comitato chiedeva ai potenziali elettori: «Se l’automazione prende il sopravvento, chi vorresti alla Casa Bianca?». Il contenuto del foglietto recitava che «l’amministrazione repubblicana (quella guidata dall’allora presidente uscente Dwight D. Eisenhower, il cui vice era lo sfidante Richard Nixon, nda) non ha fatto nulla riguardo alla questione dell’automazione. Il candidato repubblicano non ha detto nulla. Il candidato democratico comprende i problemi umani creati dall’automazione». Tanto da battersi per programmi di riqualificazione degli occupati, estensione dell’indennità di disoccupazione e nuovi servizi per l’impiego, che erano sempre esposti nella brochure. Nel settembre di quell’anno, JFK fece un discorso a Charleston in West Virginia, Stato di minatori, sulla “crisi crescente dell’automazione – la sostituzione degli uomini con le macchine”.

Anche se l’intelligenza artificiale era già ufficialmente nata (come noto, il termine era stato coniato in occasione del seminario estivo promosso da John McCarthy a Dartmouth nel 1956), l’automazione paventata da Kennedy non era evidentemente la stessa di oggi.

Le fosche previsioni di Frey e Osborne su AI e lavoro

Nel lungo paper pubblicato nel 2013 da Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, nel quale i due economisti di Oxford stimavano che l’intelligenza artificiale avrebbe messo a rischio ben il 47% dei posti di lavoro negli USA nei successivi dieci o venti anni, si affermava come non si dovesse indulgere nella facile tentazione di farsi rassicurare dal passato, che fino a quel momento aveva dimostrato che progresso tecnologico, crescita e lavoro potevano fondamentalmente viaggiare d’amore e d’accordo.

Per Frey e Osborne, «mentre in passato la computerizzazione era limitata principalmente a compiti di routine basati su attività con regole esplicite, gli algoritmi per i big data stanno ora rapidamente entrando in settori che si affidano al riconoscimento di modelli e possono facilmente sostituire il lavoro in una vasta gamma di compiti cognitivi non di routine. Inoltre, i robot avanzati stanno acquisendo sensi e destrezza migliorati, permettendo loro di eseguire una gamma più ampia di compiti manuali. Ciò è probabile che cambi la natura del lavoro in vari settori e professioni».

Un futuro senza lavoro per colpa dell’AI: le preoccupazini di Martin Ford

Lo stesso tipo di preoccupazioni ha alimentato libri diventati bestseller nell’ultimo decennio, come “The rise of the robots” di Martin Ford, nel quale veniva pronosticato un futuro senza lavoro (non a caso il titolo dell’edizione italiana). Al quale i decisori avrebbero dovuto prepararsi e soprattutto preparare i cittadini introducendo su larga scala forme di reddito universale o di base. Diventate nella vulgata italiana (che però con l’intelligenza artificiale nulla c’entrava) reddito di cittadinanza.

Al momento, le previsioni pessimistiche di Frey e Osborne non sono state minimamente confermate, come d’altronde quella formulata da Geoffrey Hinton, uno dei padri del deep learning,  che nel 2016 disse che «è piuttosto ovvio che dovremmo smetterla di formare radiologi».

AI e lavoro, gli equivoci di fondo che alimentano l’allarmismo

Con l’arrivo dell’IA generativa, tuttavia, sono ripresi gli allarmi. Giustificati da una IA che è almeno in teoria in grado di sostituire, secondo diversi studi, fasce sempre più ampie di lavoratori, anche in mansioni altamente qualificate o comunque concettuali. Dopo i colletti blu, aggrediti dall’automazione già da parecchi decenni, è ora il tempo dei colletti bianchi (che compongono la stragrande maggioranza degli occupati odierni).

Gran parte di queste paure nascono, tuttavia, a mio avviso da almeno due equivoci di fondo.

La vera gara non è tra macchine e persone

Innanzitutto dall’errato framing che contrappone le persone alle macchine in una sfida impari nella quale le prime sono destinate sempre di più a soccombere alle seconde. In realtà, la vera competizione sarà tra le persone assistite dalle macchine e le macchine stesse oppure le persone che per volontà o incapacità gareggeranno da sole.

Il lavoro non è statico, le competenze sono la chiave

La seconda rappresentazione fallace è quella di un mercato del lavoro statico dove occupazioni e mansioni sono sempre le stesse e dunque all’avanzata delle macchine deve necessariamente seguire l’arretramento delle persone in carne ed ossa. In realtà, la combinazione tra macchine e persone potrà fare evolvere il mercato del lavoro verso nuovi orizzonti, nei quali si potranno fare cose in più ma anche diverse dalle attuali. La condizione fondamentale, però, è che si investano risorse finanziarie adeguate ma soprattutto la giusta attenzione da parte di tutti i soggetti in gioco (in particolare, istituzioni, datori di lavoro e ovviamente lavoratori stessi) per rendere il connubio tra persone e macchine il più congeniale possibile alle prime. Ecco dunque che la parola chiave sono le competenze, quelle dei lavoratori di oggi che dovranno adattarsi ai paradigmi in divenire e dei lavoratori di domani ai quali bisognerà che  scuola e università offrano modelli didattici differenti da quelli attuali.

AI e lavoro, le strategie per formare il futuro

Proviamo a capire quali dovrebbero essere i principi fondamentali ai quali attenersi, anche  a partire dal documento strategico “Formare il futuro. Strategie per lo sviluppo delle competenze chiave nell’intelligenza artificiale generativa”, lavoro, che ho avuto l’onore di coordinare, del “Generative Artificial Intelligence Learning and Innovation Hub”, promosso da Unimarconi e diretto da Luca Manuelli.   

Perché è dannoso oltre che inutile vietare ChatGPT al lavoro come a scuola

Innanzitutto, partiamo da quello che non si deve fare. Gli strumenti di IA generativa presentano sicuramente rischi elevati, dalla allucinazioni alla privacy, dalla cybersicurezza alla proprietà intellettuale. Non stupisce dunque che molte aziende ne abbiano vietato o ristretto di molto l’utilizzo, al pari di alcune istituzioni scolastiche e universitarie.

Tuttavia, se lo scopo è quello di far lavorare le persone con le macchine, assicurando alle prime un futuro lavorativo, è evidente che la strada deve essere diversa.

Dunque ben vengano codici etici e istruzioni per l’uso, così come la scelta di provider affidabili che diano garanzie di servizio (al netto del fatto che al momento le allucinazioni possono essere tutt’al più ridotte e proprio per questo, almeno per il momento e per le task più delicate, si rende necessaria una supervisione umana efficace), ma la cultura dei divieti non porta di certo lontano.

Molte survey testimoniano che sia sui luoghi di lavoro che nelle scuole e università gli strumenti di IA generativa vengano usati spesso senza che capi e docenti lo sappiano e a volte sfidando esplicite proibizioni. Non è certo la logica del sottoscala che ci porterà a un’adozione virtuosa dell’IA bensì un sano realismo e un attento monitoraggio lungo la scala gerarchica. Ma per mettere in atto questi buoni propositi bisogna che chi deve controllare e speriamo soprattutto promuovere abbia quantomeno un’infarinatura delle tecnologie e sia in grado di gestirne e talvolta guidarne il corretto utilizzo nella propria organizzazione.

Formare i formatori

Prendiamo la scuola, dove il gap anche generazionale tra docenti e allievi nonché il combinato disposto tra propensione e abilità “tecnica” di utilizzo della tecnologia ma anche inesperienza nel gestirne e verificarne gli output rende ancora più urgente un’azione pubblica per limitare questa asimmetria, possibilmente senza nascondere la polvere sotto il tappeto. Ma anzi sfruttando le opportunità che la tecnologia offre e al contempo riducendone di molto i rischi.   

Una recente survey condotta da Canva, che ha intervistato 1.000 insegnanti negli Stati Uniti per comprendere il loro parere circa l’introduzione dell’IA nelle scuole, ha evidenziato che il 78% degli insegnanti ha un forte interesse a incorporare l’IA nelle proprie classi, al fine di potenziare le lezioni, promuovere la creatività e ridurre le attività amministrative manuali. Tuttavia, il 93% degli educatori ammette apertamente di non sapere bene come utilizzare questi strumenti e di non averne una conoscenza adeguata.

Il nuovo approccio pedagogico richiede a tutti i livelli (dalle scuole alle academy aziendali passando attraverso le università) un corpo docente qualificato e costantemente aggiornato sulle ultime evoluzioni nel campo dell’IA. Ecco perché la formazione dei formatori assume un ruolo centrale e deve avvenire, con evidenti differenze tra le varie organizzazioni, attraverso programmi di aggiornamento continuo, scambi di best practice e accesso a una community di peer con la quale interfacciarsi. In questo modo, si facilita anche l’incorporazione di nuove scoperte, tecniche e approcci pedagogici nei programmi offerti.

L’importanza di fare rete

Le reti, come già anticipato per i formatori, sono essenziali. A cominciare dal territorio, dove appaiono indispensabili attività di divulgazione mirate ai piccoli imprenditori. Serve che chi ha la responsabilità sulle scelte strategiche della piccola e media impresa abbia un’idea quanto più possibile chiara di quali sono le potenzialità e i limiti dell’IA generativa e, soprattutto, di quali siano gli use case interni sui quali l’IA generativa può essere sperimentata. Questo tipo di iniziative può essere avviato da associazioni di categoria, digital innovation hub ed eventualmente anche Università o aziende ICT che presidiano i territori. Un esempio meritorio (ma purtroppo inevitabilmente una goccia nell’oceano delle imprese e di altre organizzazioni che necessiterebbero di attività di questo tipo, alle quali dare poi un follow-up) è il roadshow “IA e PMI – esperienze da un futuro presente”, organizzato da Anitec-Assinform e Piccola Industria Confindustria.

A valle, è però fondamentale che venga migliorata la diffusione di competenze in ambito IA nelle aziende e, in generale, nel mercato del lavoro. Per questo, è urgente, sempre avendo in mente anche l’aspetto dimensionale, promuovere strumenti pubblici che incentivino non solo le imprese che si impegnano a riqualificare i propri dipendenti in base a percorsi condivisi e certificati ma anche quelle che mettono a disposizione i propri sistemi di formazione aziendale (es. academy) per percorsi di riqualificazione di persone diverse dai propri dipendenti.

Occorre senz’altro sviluppare un ecosistema di formazione digitale sia dal lato della domanda che dell’offerta, promuovendo la creazione di network collaborativi di filiera, così come una rete dell’offerta formativa che faccia leva e contribuisca a far crescere quanto già esiste, a partire dai digital innovation hub di Confindustria e iniziative similari di altre associazioni, i Centri di Competenza finanziati dal Mimit e gli altri Partneriati Pubblico Privati a livello nazionale e regionale.

Anche per quanto riguarda la formazione della forza lavoro “in ingresso” una possibile soluzione all’attuale skill mismatch potrebbe passare da un maggiore coinvolgimento di attori del mondo industriale nella definizione dei piani di studio, così come nell’erogazione dei corsi. Una prospettiva che al momento è prevista solo per le ITS Academy, in seguito alla recente riforma di questo importante strumento, che nel nostro Paese deve ancora raggiungere una scala adeguata.

D’altronde la collaborazione tra istituzioni educative e industria fornisce a chi deve educare/formare un flusso costante di nuove idee, casi di studio e best practice direttamente dal campo. Questi legami consentono non solo l’accesso a nuove conoscenze e tecnologie ma promuovono anche l’integrazione di esperienze pratiche reali nei curricula, colmando il divario tra teoria e pratica.

Ma le reti non devono svilupparsi solo tra organizzazioni diverse. A livello di singole università, tranne rare eccezioni, si lavora ancora per compartimenti stagni, ogni dipartimento o addirittura singola cattedra nel proprio silos disciplinare. Per questo, appare essenziale puntare sempre di più su centri di ricerca interdisciplinari, che promuovano un approccio olistico alla ricerca e all’innovazione in IA, incoraggiando la sinergia tra competenze tecniche, etiche, sociali e umanistiche.

Una (parziale) convergenza dei percorsi stem e umanistici

In coerenza con le competenze fondamentali richieste nei percorsi STEM, vi è una simmetria nei percorsi umanistici e sociali, che si posizionano come complementari nell’ecosistema educativo incentrato sull’IA. La transizione da una base solida in matematica, statistica e programmazione a una comprensione approfondita delle dimensioni etiche, comunicative e socio-psicologiche dell’IA riflette un approccio olistico alla formazione. Quest’ultimo non solo riconosce l’importanza della tecnologia e della sua implementazione ma sottolinea anche la necessità di considerare le implicazioni più ampie dell’IA sulla società.

Parallelamente, i percorsi umanistici e sociali, si concentrano sull’importanza di sviluppare una comprensione etica dell’IA, abilità fondamentali in comunicazione e interazione uomo-macchina, e una consapevolezza psicologica e sociologica degli impatti dell’IA. Questo aspetto enfatizza il ruolo cruciale che l’etica, la comunicazione e la comprensione sociale giocano nel garantire che lo sviluppo e l’implementazione dell’IA procedano in modo responsabile e benefico per l’umanità. Inoltre, l’enfasi sull’impatto pedagogico, sulla filosofia della tecnologia e sul ruolo pervasivo dell’IA nella società e nei media digitali estende ulteriormente il campo di applicazione dell’educazione all’IA, integrando conoscenze tecniche con approfondimenti critici e riflessivi sulle tecnologie emergenti. Questa integrazione tra percorsi STEM e umanistici, pur salvaguardando la necessaria differenziazione specialistica, prepara i discenti non solo a navigare ma anche a plasmare attivamente il futuro dell’IA in maniera etica e socialmente responsabile.

La convergenza di questi percorsi formativi richiede un ecosistema educativo dinamico, in grado di adattarsi alle rapide evoluzioni tecnologiche e alle complesse questioni etiche che l’IA presenta. Pertanto, l’adozione di metodi e strumenti per la formazione diventa cruciale per traslare efficacemente queste competenze fondamentali in competenze applicate, pronte per affrontare le sfide reali del mondo dell’IA.

Per raggiungere questo obiettivo, è essenziale offrire agli studenti un mix equilibrato di corsi teorici e pratici. A livello universitario,questo può includere laboratori di sviluppo dove gli studenti possono sperimentare con mano la tecnologia IA, hackathon che stimolano l’innovazione e la risoluzione creativa dei problemi, progetti interdisciplinari che riflettono la natura complessa dell’IA, e seminari con esperti del settore per fornire approfondimenti dal mondo reale. Questa metodologia didattica consente agli studenti di integrare le conoscenze teoriche con l’applicazione pratica, una sinergia fondamentale per una formazione completa in IA.

Da una didattica one-size-fits-all a una personalizzata

L’attuale paradigma didattico e formativo è basato su un modello educativo strutturato e sequenziale, dove il trasferimento di conoscenze avviene attraverso metodi tradizionali quali lezioni frontali, manuali di testo e esercitazioni standardizzate. Questo approccio, sebbene abbia storicamente dimostrato la sua efficacia, presenta limitazioni in termini di personalizzazione dell’apprendimento e di adattabilità ai diversi stili e ritmi di apprendimento degli studenti.

Tradizionalmente, l’insegnamento si è infatti concentrato su un modello “one-size-fits-all”, dove il docente trasmette le conoscenze seguendo un curriculum standardizzato, indirizzato alla cosiddetta “parte mediana” della classe (Bondie et al., 2019). Questo approccio si basa sull’ipotesi che tutti gli studenti, indipendentemente dalle loro capacità individuali, possano beneficiare di un unico metodo di insegnamento. Tuttavia, tale modello presenta delle criticità sostanziali, in particolare la tendenza a trascurare le esigenze degli studenti che si posizionavano alle “code della curva”, ovvero coloro che eccellono nel programma o che, al contrario, incontrano maggiori difficoltà. Nell’ultimo periodo, si sta assistendo a una graduale transizione verso approcci più olistici e centrati sullo studente, come l’apprendimento basato su progetti, l’insegnamento capovolto (flipped classroom), e l’apprendimento cooperativo.

Questi metodi, che pongono lo studente al centro del processo educativo, sono supportati da una crescente base di ricerche che ne attestano l’efficacia nel migliorare non solo la comprensione degli argomenti trattati ma anche lo sviluppo di competenze trasversali importanti.

L’IA generativa rappresenta un’importante area di innovazione nella didattica con un forte impatto sulla società. Il settore dell’istruzione e della formazione si trova di fronte all’essenziale compito di preparare le nuove generazioni ai cambiamenti e alle prospettive imminenti. 

L’avvento dell’IA generativa segna un’evoluzione epocale in questo panorama, agendo come un catalizzatore per un’innovazione pedagogica mirata. Attraverso l’IA, si apre la prospettiva di un insegnamento personalizzato e dinamico, che sposa la tradizione didattica con l’agilità del digitale. La capacità della IA generativa di analizzare grandi volumi di dati per identificare modelli e adattare di conseguenza i percorsi didattici permette di creare esperienze educative altamente personalizzate. Questo non solo migliora l’engagement e la motivazione degli studenti, ma consente anche un apprendimento più profondo e duraturo. Inoltre, la IA generativa può facilitare lo sviluppo di ambienti di apprendimento virtuali interattivi, offrendo scenari simulati e giochi di ruolo che replicano situazioni reali, permettendo agli studenti di applicare le conoscenze in contesti pratici e di acquisire competenze trasversali cruciali.

Conclusioni

Quella delle competenze è la principale ancora che può permettere alle nostre società di resistere e perché no di migliorarsi grazie all’IA e in particolare a quella generativa. Per costruirla e soprattutto farla funzionare appropriatamente servono soprattutto la collaborazione e la buona volontà di tutti i soggetti interessati, pubblico e privato, grandi e piccole organizzazioni, datori di lavoro e lavoratori. Con la necessaria consapevolezza che sono tutti sulla stessa barca. E non ce n’è una di riserva ad attenderli. Con il mare periglioso e al di là un mondo in gran parte ignoto davanti.

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